FESTIVAL Veronetta#SpazioTeatroGiovani

FESTIVAL VERONETTA #SPAZIOTEATROGIOVANI | EDIZIONE 2024
Un appuntamento della città di Verona con le voci e i volti del futuro: quelle delle ragazze e dei ragazzi della Città

La quarta edizione del Festival di Teatro di giovani per giovani si svolgerà presso il Teatro Santissima Trinità e presso il Parco Santa Toscana.
In scena 152 ragazzi dai 9 ai 34 anni, coinvolti anche in tutti gli aspetti dell’organizzazione del Festival.
Appuntamento speciale al Parco Santa Toscana dal 6 al 28 giugno con i gruppi dei ragazzi più grandi che portano in scena testimonianze e storie di coraggio e di resistenza (Staffette il 6 e 7 giugno ore 21.30 e La Rosa Bianca, 11 e 12 giugno ore 21.30), rielaborazioni del mito (Enea, lo straniero 13 e 14 giugno ore 21.30 e Un’altra Medea 17,18,19 giugno ore 21.30 e da non perdere due testi di drammaturgia contemporanea tratti da due opere di Stefano Massini:

- 22, 23, 24 giugno ore 21.30, L.F.C, tratto da Ladies Football Club, con un gruppo di ragazze dai 19 ai 29 anni, la storia della prima squadra di calcio femminile, nell’Inghilterra della Prima Guerra Mondiale. Un gruppo di operaie con ironia, fatica, imbarazzo e scalpore prende a calci il pallone; ogni calcio di ciascuna di loro implica uno sposamento in avanti verso una società senza pregiudizi, dove ciascuno e ciascuna possa correre incontro alla propria vita, “perché una passione, una vera, non ha tempo, non ha età, non ha sesso. Ha solo bisogno di essere lasciata vivere”;

- 26, 27, 28 giugno, ore 21.30 Manhattan Project, tratto dalla drammaturgia di Massini, con un gruppo di ragazzi dai 21 ai 29 anni, che porteranno in scena la storia dell’ambizioso progetto americano che portò all’invenzione della bomba atomica. Robert Oppeheimer fu messo a capo di questo progetto e pronunciò il definitivo via libera alla costruzione di una delle invenzioni più potenti e terribili della storia dell’uomo… Da allora niente fu più come prima.

Food truck di Tabulè durante le sere di spettacolo.

INFO E PRENOTAZIONI
Visto il numero limitato di posti al PARCO SANTA TOSCANA l’accesso avviene esclusivamente con PRENOTAZIONE inviando una MAIL a: spazio.teatro.giovani@gmail.com indicando i propri dati e contatti.
Verrà inviata una mail di confermata prenotazione. I posti verranno assegnati la sera dello spettacolo in ordine di arrivo.
Gli spettacoli saranno ad offerta libera.

Tutte le informazioni, eventuali modifiche e aggiornamenti saranno comunicati sui canali Facebook e Instagram di Spazio Teatro Giovani.https://www.facebook.com/spazio.teatro.giovani?locale=it_IT


Capitolo 2018

Sensazioni da conto alla rovescia. Quando il conto alla rovescia è globale, quando l' umanità intera si prende per mano e salta nel nuovo anno. Poco prima della mezzanotte tutti a tirare le somme dell'anno passato, un attimo più tardi ci si getta alle spalle gioie e dolori e via ai buoni propositi per l' anno che incomincia. Ne abbiamo bisogno di questi check-point annuali sulla linea del tempo: ci permettono di fare il punto della situazione, di voltare pagine scarabocchiate e di inaugurarne di bianche. Ne hanno bisogno gli individui, a maggior ragione ne hanno bisogno l'azienda, la banca, l'associazione culturale, la giunta comunale ed i consigli regionali, insomma tutti gli enti e le cerchie sociali che vivono di scadenze e di obiettivi, che inevitabilmente vedono la notte di San Silvestro come il giro di boa da cui ripartire per le sfide del futuro.

E così domani si chiude lo schizofrenico 2017, inaugurato con l' elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, proseguito tra guerra all'ISIS, guerra al terrorismo nelle capitali europee e guerra ai migranti sui confini del vecchio continente, concluso con la geniale decisione made in USA di spostare l' ambasciata in Israele da Tel-Aviv a Gerusalemme, scelta unilaterale che rischia di allargare spaccature già profondissime. Per non parlare dello scandalo Weinstein che ha investito Hollywood e che ha aperto inesorabilmente il sipario su quell'enorme problema della violenza sulle donne, che essa sia perpetrata in contesto lavorativo o dentro le mura domestiche.

Donald-Trump-is-Already-Thinking-About-the-2020-Presidential-Election

In Italia il governo Gentiloni ha attraversato quasi indenne il 2017: si è finalmente votata una legge elettorale che ci porterà alle urne la prossima primavera, si è ricominciato a parlare con convinzione di leggera crescita economica dopo 10 lunghi anni di crisi, si è acceso il dibattito sul tema dei diritti, culminato con l'approvazione della legge sul biotestamento e con l' ennesimo rinvio della legge sullo ius soli; la macchia più grande, chiaramente dopo  il dramma dell'esclusione dai prossimi mondiali in Russia,  rimane il decreto Minniti-Orlando sull'immigrazione e l' impegno governativo a bloccare il flusso migratorio dal Mediterraneo, mettendo i bastoni tra le ruote agli eroi delle ONG con un codice di condotta che ha di sicuro poco a che fare con le buone maniere.

225344732-8eadca11-2ae0-4b6d-8907-f8c1b66cb9c6

Ma noi salmoni sguazziamo nelle acque dell'Adige, e dalla fredda corrente del fiume tiriamo le somme del 2017 veronese: abbiamo seguito con passione la serrata campagna elettorale della primavera, conclusasi con l'elezione a sindaco di Federico Sboarina; ci siamo strappati ciocche di capelli alle inaugurazione di quei colossi del consumismo 3.0 come Adigeo ed il nuovo Esselunga; abbiamo pianto lacrime amare per la telenovela Melegatti; ah, ed abbiamo di nuovo due squadre di calcio in serie A.

adigeo512

Queste erano le pagine scarabocchiate, macchiate d'inchiostro e di caffè, del capitolo duemiladiciassettesimo del grande romanzo universale; domani si compra una penna nuova, si volta pagina e si comincia a scrivere, ad individuare obiettivi, a fare promesse, a tenere d'occhio le nuove scadenze. Noi di promesse non ne facciamo, è prassi politica da cui ci teniamo ben distanti, ma di obiettivi ne abbiamo così tanti che non c'è più spazio per i post-it sul frigorifero: i Salmoni vogliono conquistare il mondo, ed il 2018 potrebbe essere l' anno giusto.

E voi, che siate a festeggiare al Colorificio Kroen, al Jack The Ripper o persino sul liston in Piazza Brà, ricordate che anche questo nuovo capitolo, come i duemiladiciassette precedenti, si scrive esclusivamente in penna! Non cancellabile!

 

 

 

 


Ibrahim e il suo ristorante libanese in Veronetta

 
Proseguendo nel nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che popolano il quartiere di Veronetta, siamo andati a fare due chiacchiere con i proprietari del ristorante libanese Tabulé, luogo di cucina mediterranea e poesia grazie al proprietario Ibrahim che ha voluto scambiare due chiacchiere con noi.

Da quanto tempo sei in Italia? Racconta la storia di come sei arrivato fino a Verona.

Sono in Italia da 1984. Sono venuto per studiare ingegneria elettronica a Padova. Appena arrivato mi sono fermato da un amico che abitava a Verona e da allora sono in questa città…

Come ti è venuto in mente di aprire la tua attività? Come è partito e  cosa vorresti che diventasse?
Ho sempre avuto l'idea di aprire un locale di cucina libanese, ma per molto tempo è rimasta solo un'idea. Nel 2006 alcune delle mie sorelle, dopo la guerra dei 33 giorni con Israele, avevano espresso il desiderio di lasciare il Libano: ho subito pensato che sarebbero dovute venire in Italia. Ho pensato che l'inserimento non sarebbe stato facile per loro, soprattutto in un luogo di cui non conosci la lingua. Ma le mie sorelle hanno un pregio: sono brave in cucina! Ho subito visto uno spiraglio di possibilità per realizzare il mio sogno: sono partito con il progetto Tabulé ed una delle sorelle è venuta qui... purtroppo qualche tempo dopo è dovuta tornare in Libano, ma il progetto era partito e l'ho portato avanti io.
Mi piacerebbe che diventasse un luogo dove un cliente può trovare sia del buon cibo sia uno spazio di scambio e di conoscenza reciproca.

 

IMG_7473

 

So che hai fatto molti eventi culturali nel ristorante...com’è stata la risposta delle persone?
Per dire la verità gli eventi che ho organizzato (da solo o con altri) si sono svolti in altri luoghi. Ho troppo poco posto nel locale per poter accogliere sempre tutti i partecipanti. La risposta, in generale è stata buona, ho scoperto e conosciuto molta gente curiosa e vogliosa di conoscere meglio la cultura dell'altro.

Verona è considerata ancora oggi una città razzista che non vede di buon occhio le differenze culturali? Cosa ne pensi?
Temo che il razzismo e la chiusura in generale verso l'altro siano un aspetto che sta prendendo piede non solo a Verona ma in Italia ed in Europa (come riportano ormai ogni giorno notiziari e giornali). Siamo inondati di notizie che puntano spesso i riflettori su ogni episodio che coinvolge, negativamente, chi è straniero. A Verona questo tipo di notizie trova terreno fertile. È un razzismo che coinvolge tutti, a volte anche quelli che sono di origine straniera.

Ormai sono molti anni che stai in Veronetta, come hai visto evolversi questo quartiere che oggi è uno dei più attivi e multiculturali della città?
Sicuramente è uno dei quartieri più in fermento della città complice una presenza multiculturale/multietnica e anche dell'Università con tutto il suo bacino di studenti che rende il quartiere "giovane", più vivace e ricettivo. I cambiamenti all'interno del quartiere sono, in gran parte, dovuti ad una forza interna al quartiere e non promossi dall'alto.

Ti sembra cambiata Verona in questi anni e se sì come?
Non saprei dirti se è solo la città che è cambiata o anche il modo con cui io la vedo che a sua volta è cambiato. Da un certo punto di vista (viabilità, servizi, etc..) la città è cambiata in peggio e fatico a trovare qualche "opera" degna di nota negli ultimi 20 anni fatta in e per la città.


L'essenzialità del calcio

L'ultima grande narrazione che ci è rimasta dopo la religione e prima delle serie tv.

2016_2_08_scudetto84854_4

Uno dei motivi per cui alcuni giovani europei impazziscono e diventano foreign fighters tra l’esercito del sedicente Stato Islamico è il tentativo di trovare una nuova teleologia per lo scorrere della loro vita, cioé, detto in modo inappropriato ma chiaro: uno scopo più grande.

Morta e sepolta l’idea di aldilà cristiano, le vite nel mondo occidentale si susseguono in modo circolare a seconda dell’andare dei giorni: lavora, spendi, dormi, lavora, spendi, dormi e via dicendo. Le nostre vite si consumano nella più totale immanenza della società liberale e scientifica: prive di segreti naturali, prive di mistero, prive di religione; tutte votate alla realizzazione personale e all’incessante ricerca della felicità. Uno dei motivi per cui molti giovani europei diventano foreign fighters è tornare ad avere uno scopo ultraterreno, qualcosa di grande, qualcosa che trascenda sé stessi e la loro “troppo piccola e troppo umana” vita anche a costo di sacrificarla con il sacrificio più grande.

L’uomo, questo scorrere circolare delle vite senza alcuna teleologia (senza alcuno scopo, senza alcuna fine ultima), non è in grado di sopportarlo. Per questo abbiamo sempre avuto bisogno della religione: per la sua trascendenza e per i tempi liturgici dettati da questa.

La religione serviva a dirci che c’è dell’altro e che c’è un fine, che esiste del mistero indipendente da noi e che lo scorrere della vita non è soltanto circolare, ma anche lineare: esiste la vita eterna e ogni azione della nostra vita è votata a quello. Il mistero che la religione portava nelle vite di tutti i credenti è un mistero creato da una narrazione immensa, capace di portare anche in una piccola comunità come quella veronese la storia di una traversata del Mar Rosso o di una resurrezione in Palestina: storie che permettevano alle vite contadine di essere direttamente legate ad un’eternità e una comunità umana e divina. La narrazione della religione, insomma, trasformava una vita misera e faticosa in una vita grande.

Ora che la religione è stata sconfitta l’uomo si trova solo con la sua quotidianità, così pressante che ha bisogno di creare le “teorie del complotto” per provare a convincersi che il suo mondo è governato ancora da una forza nascosta e misteriosa. E invece niente.

Quell'ormai lontana sera in cui l’Italia ha pareggiato con la Svezia e non si è qualificata al mondiale di Russia del 2018 ho sentito molti amici confrontarci su come sarebbe stato possibile andare avanti, rinunciare alle estati in cui i giovedì non sono solo dei giovedì ma sono i giorni in cui probabilmente si vedrà una partita. Ci siamo chiesti come fare per rinunciare a quella liturgia quadriennale che è l’avvento del caldo giugno dei mondiali.

Il giorno successivo all’eliminazione dell’Italia ho visto il mondo intero parlarne.

Il mondo intero che ne parla ancora oggi è scosso da una storia improvvisa e imprevedibile, dall’origine misteriosa e di portata “sovrumana” nel senso di trasversale, capace di unire le nostre vite veronesi e italiane con quelle degli svedesi ma anche dei neozelandesi e i cileni.

La più grande narrazione contemporanea, capace di unire trasversalmente l’umanità e in grado di dargli sia una trascendenza (catodica o digitale che sia) sia una linearità (la vittoria finale) è il calcio.

luce

Il calcio è l’ultima grande teleologia rimasta all’uomo, dopo il teatro, dopo i gladiatori e dopo le religioni. Attraverso il calcio l’uomo rimane appeso ad una storia indipendente da lui, una storia che ha dei tempi dilatati rispetto a quelli della sua vita.

Non sto cercando di convincere nessuno del valore del calcio rispetto agli altri sport, sto solo facendo un’analisi fenomenologica scaturitami da una domanda: cos’altro al mondo ha potuto tendere i miei nervi in simultanea con quelli di uno svedese a Malmo per lo stesso identico motivo?

Notate qualche somiglianza tra le due immagini di quest'articolo? Non i simboli religiosi o il colore della pelle, ma il pallone.
6a00d8341c7a9753ef0111684c0b68970c-800wi

Vi pare un caso che in una città come Verona, malgrado Salmon e malgrado varie realtà indipendenti, la vita sia scandita tra: tempo del lavoro, tempo per andare in Chiesa, tempo per bere e tempo per andare allo stadio a seguire l’Hellas?

Bere probabilmente serve per dimenticare quanto la mentalità veneta della dedizione al lavoro ci abbia rovinato l’esistenza, ma la chiesa e lo stadio servono per salvarla, quest’esistenza.



DISCO DEL MESE: Izzy Bizu - A Moment of Madness

 
È passato un anno da quando è uscito “A Moment of Madness”. Mai come in questo periodo della mia vita, volevo ascoltare qualcosa di raffinato, delicato, tristemente felice o felicemente malinconico. Questo è l’album perfetto per il mio tempo, per questo tempo e per questi momenti. Questo magari non sarà rapportabile a voi. Francamente poco importa, anche perché scrivo io e voi leggete, quindi anche bene non avreste la possibilità di fare la stessa cosa.

È un album bello. Quando intendo bello, non mi riferisco minimamente all’aspetto estetico della cantante (lei è bellissima, ma è soprattutto bravissima). Anche perché la bellezza dell’aspetto esteriore è come la carta da regalo il giorno di natale. Può essere magnifico il contenitore, ma se nel contenuto non c’è quello che desideravi, te ne fai davvero poco e la butti via. Qui c’è così tanto contenuto che potrebbe non esistere il contenitore. Un album veloce, diretto, immediato e delicatissimo. Una ballata come “White Tiger”, piano voce e drum-line scarna e diretta, ti prende, ti porta direttamente davanti ad una finestra di un grattacielo in America e ti riempie il cuore, facendoti ricordare l’appuntamento incredibile che ti è appena capitato, con la ragazza che da un mese vedevi alla fermata.

C’è tanta gioia, distacco ed allegria. Si percepisce il tutto in “Give me Love”, uno dei primi singoli che anticiparono l’uscita dell’album. “Izzy” ha origini Etiopi ed una passione smisurata per Bettye Swann, James Brown. All’interno dei suoi lavori, si trova un bellissimo mix tra soul, funk e jazz. C’è poco da aggiungere, quando BBC Introducing ti sceglie per farti esibire a Glastonbury no?.

Arriverà a pieno titolo anche nel nostro paese. Con calma, con la stessa calma con la quale io l’ho scelta un anno dopo come disco del mese.

Tommy in Salmon

Tracklist:
1 Diamond 3:48
2 White Tiger 3:30
3 Skinny 3:56
4 Naive Soul 4:01
5 Give Me Love 3:16
6 Adam & Eve 3:15
7 Gorgeous 3:24
8 Lost Paradise 4:06
9 Glorious 3:34
10 What Makes You Happy 3:33
11 Mad Behaviour 4:40
12 Circles 4:14
13 I Know 4:10
14 Fly With Your Eyes Closed 3:45
15 Hello Crazy 3:27
16 Someone That Loves You 4:04
17 Trees & Fire 2:54


Sockeye - intervista al fondatore del Tocatì

 

Giocare è la cosa meno importante - per questo è essenziale.

salmon-sockeye-intervista tocatì

Il Tocatì è roba grossa: da quindici anni, per qualche giorno, riempie la città di giocatori e visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Attorno alla dinamica e alla cultura del gioco di strada si crea così un intreccio di persone e culture come nessun altro evento riesce a fare a Verona: neanche il Vinitaly o quell'abominio socioculturale che è Verona in Love. Il Tocatì quest'anno è alla sua XVesima edizione ed è candidato a diventare Patrimonio Culturale Immateriale dell'Unesco.

Quando, da oggi fino a domenica, andrete a guardare i lottatori turchi sfidarsi, o parteciperete ad una partita di lippa (s-cianco per i veronesi), ricordatevi di pensare ad una cosa: tutto quello che vedrete è nato tanti anni fa, in una piccola osteria di Verona, quando un gruppo di amici appassionati di giochi antichi decise mettere il naso fuori in strada e parlare alla gente.

Un weekend di caldo incredibile di qualche tempo fa ero all'osteria Carega per parlare con Giorgio Paolo Avigo: uno dei fondatori del festival e presidente dell'Associazione Giochi Antichi.

Voi la sapete la differenza tra sport e gioco? E lo sapete che in Sri-Lanka giocano allo s-cianco per imparare a giocare a cricket? Io ho imparato tutto questo - e ben altro - in una lunga ed appassionata chiacchierata.

In grassetto le mie domande.

Qui siamo al Carega, l’osteria dove vi trovavate dovrebbe essere qui dietro no?

"Sì uno dei luoghi dove ci trovavamo sempre è l’osteria le Petarine, abbiamo anche chiesto di mettere una targa in quanto sede storica... Il tutto è nato quasi per caso, tra un bicchiere e l’altro, tra delle chiacchierate all’Osteria e una partita a s-cianco in strada - in fondo tutto questo, tutto quello che abbiamo creato è nato da quel gioco. L’associazione nasce dal recupero dello s-cianco."

…che è un gioco che facevate fin da piccoli immagino,  io lo conosco ma non ne conosco l’origine, è di Verona?

"Il termine è di una parte della città di Verona. Il gioco in sé, invece, è un gioco che è praticato tutt'ora a livello internazionale ed è diffuso da sempre in diverse parti del mondo. A livello di festival quest’anno abbiamo inserito il “Torneo internazionale di lippa”: ci sono tre squadre italiane e sette provenienti da varie regioni europee.

Mi piace raccontare come ancora prima del primo torneo un gruppo di srilankesi ci abbia visti giocare e si sia subito avvicinato:

“Ma scusate perché voi giocate al nostro gioco?”

“Cossa gheto?”

E da lì, dal 6 ottobre 2002, hanno sempre partecipato al torneo di s-cianco con una squadra dello Sri Lanka. Quasi ogni anno vanno in finale, anche se è raro che vincano..."

Perché sono meno forti?

"Ma perché come accade per tutti i giochi tradizionali non è così facile rispettare le regole come sembra dall’esterno. La regola fondamentale di ogni gioco di strada è che si basa sul contesto dove viene praticato.

Sembra una cosa avulsa ma ci sono regole legate ad esempio al tipo di terreno, alla lunghezza dei bastoni eccetera...che sono legate al vissuto della zona dove vengono poi messe in atto: giocatori stranieri di lippa fanno fatica ad adattarsi a certe regole italiane, veronesi. E su questo fatto ci abbiamo giocato spesso!"

Questo tipo di giochi quindi è estremamente radicato nella tradizione specifica di una regione e di una popolazione, ma allo stesso tempo si pratica in egual modo in tutto il mondo, come mai?

"Sì, noi crediamo nei giochi anche e proprio per questo, perché sono una delle pratiche che dovrebbero fare da traino per capire le culture diverse dalla nostra, con cui veniamo - volenti o nolenti - a contatto. Il fatto che un gioco venga praticato agli antipodi della Terra nella stessa maniera significa che c’è stato uno scambio di culture nato nei secoli, vuol dire che in qualche modo ci siamo tutti incrociati fin dall’alba dei tempi."

Non sono pienamente d’accordo. O meglio, credo che alcune comunanze nei giochi nascano anche dal fatto che ci sono cose, nel rapporto che l’uomo tiene con il mondo, che siano talmente basilari da venire prima - non solo in senso cronologico ma anche antropologico - delle differenze date dalle culture. Per esempio il lanciare e recuperare una cosa, un legno, è cosa che fanno anche gli animali. La lotta è un altro esempio: sta alla base di quasi tutte le culture mitiche del mondo antico... e via dicendo.

"Certamente questa è la base, ci sono comunanze che fanno riflettere. Pensa che nello s-cianco in ogni parte del mondo i colpi di allontanamento con cui si può colpire sono tre, non due e non quattro ma tre."

Ma visto che si pratica in tutto il mondo... anche all'estero la lippa è vista come una cosa da recuperare e salvaguardare?

"In alcuni paesi molto meno, perché lo praticano: in Sri-Lanka i giovani ci giocano tutti perché è propedeutico al cricket, a Cuba ci giocano per insegnare a giocare a baseball. Quando è venuta la delegazione cubana mi ha raccontato che a L’Avana ci sono le eliminatorie del campionato proprio il giorno della Liberazione."

E in Italia invece? So che andate nelle scuole a promuovere i giochi tradizionali in generale… come reagiscono i ragazzi? Sono troppo abituati allo schermo dei cellulari?

"No guarda sul discorso che i ragazzi non giocano più e sono sempre davanti ai display mi trovi in disaccordo. Forse è vero ma fino ad un certo punto, facciamo spesso domande nelle scuole. E alla fine i bambini e i ragazzi ci dicono che comunque preferiscono stare fuori con gli amici a giocare."

Sì alla fine molti dei contenuti veicolati dagli smartphone sono ancora contenuti “reali”.

"Esatto, si fanno i video di quando giocano a calcio. Poi c’è da dire una cosa: la strada è da sempre stato un luogo dove si sta in comunità in uno spazio improvvisato. Adesso i genitori dicono che le strade sono pericolose ma secondo me è un circolo vizioso: sono pericolose perché non c’è nessuno in giro, sono monopolio delle macchine perché non c’è gente."

Mi piace il discorso del gioco e dei luoghi improvvisati. Vedendo le vite dei ragazzi oggi direi che sono comunque piene di attività, il problema è proprio questo forse?

"Quello che fanno i ragazzi oggi sono sport o attività in tempi e luoghi adibiti e pensati per fare esattamente quell’attività: c’è sempre il binomio luogo-attività ad agire sulle loro vite; prima a scuola e poi in palestra, prima lo studio e poi il campo da calcio.

Questo non è giocare, è qualcosa che non c’entra niente, i ragazzi hanno vite piene di attività istituite e organizzate che non fanno crescere la loro immaginazione come dovrebbe.

Noi siamo nati in antitesi a tutto questo. All’inizio magari non avevamo uno scopo preciso ma di alcune cose eravamo certi… Pensa che alla prima edizione ci hanno proposto di essere inglobati nelle associazioni di attività sportive tradizionali, ci siamo sempre rifiutati."

Perché? Perché quello che promuovete voi è il gioco e non lo sport? Ancora la differenza non mi è chiara fino in fondo…

"Uno sport è uguale in tutto il mondo, ha regole e leggi che hanno bisogno di essere rispettate con criteri rigidissimi. La lunghezza del campo da calcio, i materiali dell’asta per saltare, i terreni del campo da tennis e via dicendo…

Il gioco fa parte della cultura popolare invece, come la poesia, la musica o la danza popolare, e in quella è radicata. Se gioco alla lippa a Barcellona giocherò con le loro regole e i loro attrezzi. Il gioco nasce dalla spontaneità e la necessità di riempire con ingegno i momenti vuoti della quotidianità, e nasce da persone che lo fanno con quello che trovano: nella loro strada e con i loro attrezzi e per questo è importante che ci siano ovunque delle differenze."

Lo sport ha tempi e spazi precisi in cui tutta la comunità va a fare o vedere una determinata cosa e lo fa in un tempo che si dispiega in modo scandito come quello liturgico. Invece il gioco si prende lo spazio che la società non istituisce. No? Penso al calcio giocato nei campi, con le squadre, le maglie e i campionati e al calcio giocato con una palla, due felpe a fare da porta, e quattro giocatori soltanto in strada.

"Questo sicuramente, rispetto agli spazi e i tempi, ma guarda alla differenza nella pratica. Ti faccio un esempio: l’anno scorso siamo stati in Croazia, nell’Istria, a giocare ad un torneo di bocce piatte, hanno una tradizione tutta loro con delle regole più o meno simili a quella delle bocce nostre.

Quando siamo arrivati eravamo strabiliati: in un posto come la Croazia, che è uscita poco fa da una situazione poco felice, sono riusciti attraverso questo gioco a creare un torneo con sloveni, bosniaci e montenegrini.

Ora, se si riesce attorno al gioco a far fondere le culture allora forse questa è una strada da intraprendere per farle comunicare, queste culture diverse, a creare nuove comunità.

Il gioco viene considerato poco importante - e quindi essenziale, direi - e così anche popoli che si odiano e che magari non farebbero mai affari dicono: “ma sì, giochiamo, tanto è una cosa da bambini”, e da lì si può partire per riunirsi."

Ma parliamo dell’edizione di quest’anno, chi ci sarà come paese ospite?

"Quest’anno non c’è nessun paese specifico, ma attraverso la lotta tradizionale e la lippa abbiamo una quindicina di regioni europee. Promuoviamo attività che non sono legate alle nazioni politiche ma tradizioni popolari che vengono prima della loro definizione.

Pensa che abbiamo reperti che fanno risalire la lippa al 2500 a.C., questo noi dobbiamo far risaltare, questi valori in grado di unire tutta l’umanità oggi che più che mai è facile separarla."

Grazie.

Ci vediamo al Tocatì, Salmoni!



Marco Favero - Hammer Head

 

Quando pensiamo ad un artigiano, la prima cosa a cui pensiamo è un falegname stile Geppetto. Occhio di vetro, baffi pregni di nicotina e un fantoccio di legno da usare come amante nei momenti di solitudine.

Eppure nella felice cittadina di Villafranca di Verona (esatto, dove Satana in persona ha suonato poco tempo fa), vi è un giovane artigiano che non si occupa di costruire mobili o sedie, bensì computer.
Si chiama Marco Favero, in arte Hammer Head, ha 21 anni e un debole per la tecnologia.
Con grande gentilezza, alla richiesta di una piccola intervista, si offre subito di ospitarci nel suo piccolo laboratorio.

Mie domande in grassetto.

Come ti è venuto in mente di cominciare?
Io ho iniziato 5 anni fa a costruirmi il primo computer per giocare ai videogames; poi mi sono reso conto che mi piacevano di più i computer di quanto non facessero i giochi.
Le macchine mi danno soddisfazione: sono una persona molto puntigliosa, e i computer hanno bisogno di precisione e concentrazione per essere costruiti.
Nel panorama italiano c'è poca gente che fa quel che faccio io e quelli che lo fanno non si pubblicizzano particolarmente bene e indirizzano il loro mercato agli enthusiast: persone che mediamente giocano solo ai videogiochi, che non utilizzano al meglio le proprie macchine.
Poi trovi in Italia un ingegnere che fa simulazioni nelle gallerie del vento ed usa programmi pesantissimi con dei pc a mio avviso disdicevoli.

Quindi il tuo obiettivo è riuscire a fornire una buona macchina a chi ne può fare un buon uso?
Esatto. Più avanti mi piacerebbe arrivare ad avere una mia linea in piccola serie, per mantenere le macchine a stampo artigianale.
Il difficile è far capire alle persone perché un computer dei miei costa tanto rispetto a quelli che si trovano in negozio.
I materiali, la cura e la precisione, la customizzazione... Per me è importante che il cliente sia soddisfatto, che le sue aspettative vengano esaudite: e questo per me è una sfida! Non sai quanto è bello dover affrontare i problemi che si presentano durante il lavoro; dalla gestione dello spazio alla ricerca della componentistica.
Passavo le serate ad overclockare invece di uscire la sera.

Quanto è importante il design nel tuo lavoro?
Molto. Ci metti del tuo, ed ogni macchina ha un fattore estetico preponderante.

Macchine belle dentro e fuori.
E ho un progetto in mente che probabilmente a causa del suo costo realizzerò fra una decina d'anni.
Voglio prendere un blocco di marmo e farlo scavare dentro per inserirvi la componentistica interna; in modo tale da avere un cubo di marmo senza nulla, tasti, mouse, niente.
Il bello di questo progetto è che tu hai questo monolite di fronte a te che non sai cosa sia: non è un computer, non è un pezzo di marmo...

... è AL9000?

Mentre parla, la passione e la dedizione di Marco penetrano in ogni singola sillaba del suo discorso.
Sembrava di sentire l'aria vibrare di conoscenza.
Poi, ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, si è fatto strada in me un pensiero.

Proprio in questo periodo, caso vuole che io stia leggendo Frankenstein.
Tutti noi più o meno ne conosciamo la storia: ossessionato dalla ricerca dei segreti della vita, Victor Frankenstein si è spinto dove l'uomo, secondo la visione del tempo, non avrebbe dovuto spingersi dando vita ad un essere abominevole assemblato con parti di cadaveri.
La triste vicenda del libro suggerisce l'assurdità di voler tentare di sostituirsi a Dio, ammesso che ne esista uno.
Ma cos'è un computer, se non un essere assemblato, freddo e privo di sentimenti come lo era il mostro di Frankenstein?
Che differenza c'è fra Marco e lo scienziato?

Frankenstein voleva darci una lezione di etica: il mostro si ribella al padrone perché ha voluto troppo; ma questa volta il nostro giovane "Geppetto" ci ha dato una contro-lezione: la sete di conoscenza, la dedizione e la passione non creano mostri, ma opere d'arte.

www.youtube.com/watch?v=wKem_4djcjU

Beci Beci
Salmonello

Per interviste scrivere a raulfabioriva@gmail.com


Sockeye - L'ecovillaggio Cascina Albaterra

 

Intervista a Mattia Cacciatori

 

mattia cacciatori - ecovillaggio

Avevo già intervistato Mattia Cacciatori qualche anno fa, era stato arrestato in Turchia mentre fotografava gli scontri di Gezi Park, all’epoca avevamo parlato di rivolte e fotografia; un paio di settimane fa abbiamo invece parlato del suo ecovillaggio.

Appena sopra le colline di Soave, ora, Mattia vive servendo in una comunità e impiega le sue giornate per costruire qualcosa di grande, e qualcosa di buono, un ecovillaggio. Per adesso, le sue attività principali sono: mungere caprette, lavorare i campi e imparare dai contadini delle valli vicine tutto quello che può essere utile quando si decide di ritornare ad avere un rapporto concreto con la natura.

La storia del passaggio dai fotoreportage a questa nuova realtà è tutta in quest’intervista.

Appena incontro Mattia, in mezzo ad un vigneto, mi dice che dovrò pazientare un attimo perché deve recuperare un alveare.

“Vuoi aiutarmi?”

“Non credo… fai pure, poi parliamo”, rispondo, mentre rimango a debita distanza e fingo di fare una telefonata e di non poter essere disturbato.

Poco dopo, alla fresca ora del tramonto, Mattia mi fa accomodare sull’erba e iniziamo a chiacchierare, intensamente come sempre, come sono abituato a fare con lui in quasi dieci anni di amicizia.

In grassetto le mie domande.

La vera prima domanda, di cui abbiamo già parlato a lungo, è questa: perché abbandonare tutto? Perché mettere da parte un talento come il tuo, decidere di non raccontare più le storie di tutto il mondo, per decidere di fermare tutto e tornare alla natura, ai suoi ritmi e ai suoi segreti?

“Ho vissuto dentro il sistema informazione per molti anni, ed è un mondo che ad un certo punto non ho sentito più mio. Non riuscivo più a vederne la genuinità: per poter fare fotografia di reportage devi impegnarti a conoscere le persone giuste, andare nei posti giusti, vivere delle esperienze che ti cambiano profondamente e poi provare a vendere, letteralmente, le tue storie al miglior offerente. Come in tanti ambiti, anche lì, quasi tutto passa dalle relazioni e le conoscenze e dalla capacità di fare marketing su foto che rappresentano vite e sofferenze.

Molte delle storie che volevo raccontare non venivano valorizzate come avrei voluto. Ai magazine, ai giornali di tutto il mondo, interessano soltanto le cose più truci: andare in Siria per fotografare la vita di un clown è un’operazione dispendiosa e che non porterà a nessun interesse da parte degli editori, almeno fin quando quel clown non morirà. Se venisse ucciso la storia sarebbe vendibile.”

DSC_9283

 Non ti sentivi più a tuo agio nel vendere storie che parlavano di vite vere.

“Certo, a me è sempre interessato solo raccontare storie, e le mie storie venivano rovinate da necessità editoriali e dalla velocità del mondo dell’informazione. Così ho deciso di smettere.”

Qui il mondo è molto più lento, devo lavorare tanto ogni giorno, ma i ritmi sono diversi. Adoro produrre io stesso le cose che mangerò, e imparare pian piano a fare il miele, il formaggio e via dicendo.”

Però, conoscendoti, questa necessità di cambiamento, questa sensazione che nella società e nei suoi ritmi ci fosse qualcosa di radicalmente sbagliato da cambiare l’hai sempre avuta, già dall’università, questo lo capisco, una cosa però ancora non mi va giù: perché hai smesso di fare fotografie anche per conto tuo? Per te?

“Non ho abbandonato tutto decidendo di costruire un ecovillaggio, sono passato da una comunità prima. E questo si lega alle storie e alla fotografia: la macchina per me è un mezzo per fare foto e raccontare storie, cercavo in ogni momento qualcosa da narrare alle persone che mi stanno vicine. Ora che so chi sono io sento che non ho più bisogno di farlo, al posto di raccontare le storie posso cambiare dal di dentro le storie delle persone, anche se poter raccontare la vita degli altri rimane qualcosa di incredibile.

Quando sono entrato nella comunità ero accerchiato di persone che avevano dei bisogni concreti, persone che al posto di dire: “fammi una foto”, chiedevano: “devo andare al SERT, mi accompagni?”. E allora prendevo il furgone e andavo al SERT, e andava bene così. Mi sembrava fosse più giusto quello.”

 Raccontami di più, sulla comunità.

 “Avevo bisogno di rallentare, e di mettermi a disposizione del prossimo. Per il primo periodo non ho fatto altro che servire, fare tutto quello che mi veniva chiesto e che c’era bisogno di fare. Mi davano vitto e alloggio e in cambio mi hanno insegnato a vivere veramente insieme, dispensando e ricevendo amore come unica base dei rapporti umani.

Dopo un certo periodo ho pensato che sarebbe stato interessante fare il giro del mondo a piedi: ho trovato lavoro in un ostello a Capo Horn, ho cercato una barca per l’Antartide e iniziato a scalare montagne di quattro mila metri. Ma lì, con due turisti che mi accompagnavano, sul crinale della montagna, decido di abbandonare tutto e tornare a casa. Ero stufo di stare da solo, avevo appena scoperto cosa voleva dire stare con le persone, amare, nella comunità e volevo, dovevo tornarci.”

DSC01944

Anche scalare da soli delle montagne è un ritorno alla natura, mi pare. Vorrei ripercorrere con te, brevemente, il sentiero che parte dal giro del mondo in solitudine e giunge fino al cercare di costruire un ecovillaggio. Di fondo è un sentiero che segue una sola grande direzione: il modo diverso di intrattenere un rapporto con la natura.

 “Il bivio fondamentale è stato la comunità. Tornare alla natura significa o chiudersi un eremo da soli, che è una scelta che condivido pienamente, oppure provare a creare una rete sociale, un ecovillaggio. Io, quando ero in comunità dovevo pensare non più solo per me stesso, ma per 17, 20 persone contemporaneamente. In quei momenti ho iniziato a pensare a come potessimo tutti insieme produrre da soli quello di cui avevamo bisogno. Mi sono chiesto come si fa la pasta, come si fa il formaggio, eccetera… ho trovato poi questa terra, e ho scoperto che forse la mia idea non era così utopica, forse tutto era possibile.”

Mi sembra di capire una cosa: hai iniziato a pensare all’ecovillaggio quando la tua necessità di ritorno alla natura si è fusa con l’idea che sarebbe stato meraviglioso tornarci in tanti, tornare insieme: più persone con più necessità, ma anche con più potenzialità. Io l’idea di ecovillaggio me la figuro così: un ritorno alla natura comunitario. Sbaglio?

“C’è molto altro, ma sì, l’idea di ecovillaggio è quella di un vero e proprio villaggio dove ognuno ha una casa, separata dalle altre, e crea una rete sociale e produttiva che riesce, più o meno, ad autosostenersi. A me piace definirlo così un ecovillaggio: un luogo dove le persone più disparate vivono in comunità intenzionali nel rispetto reciproco, nel rispetto dell’ambiente che le circonda e del contesto che le ospita

Poi, ovviamente, nessun ecovillaggio è uguale ad un altro: ogni gruppo va a sviluppare il modello di vita che più gli si confà. La filosofia di fondo è quella di cercar di vivere insieme, uscendo dal paradigma dello sfruttamento ed entrando in quello di prendersi cura.”

Ma questo non lo vedi, un po’, come un ritiro dalla società? Come un rifiuto di volerla cambiare per ritirarsi in un idillio dove tenere i problemi all’esterno?

“Per alcuni forse è così ma noi vogliamo fare qualcosa di diverso: noi abbiamo scelto di vivere nel tessuto sociale di cui facciamo parte, anche per questo siamo così vicini a Soave. Scegliamo di essere parte di questo mondo e non di fuggire, scegliamo di stare tra le persone e di regalare a chi vuole un luogo dove imparare a lavorare la terra, a fare il formaggio, ad avere a che fare con le api…

Noi vogliamo trovare un modo diverso per stare insieme, tutti, non per ritirarci in solitudine.”

Ma se io, domani, decido di costruire un ecovillaggio, non ho idea nemmeno dove iniziare a fare in modo di produrre qualcosa dalla terra. Come hai fatto tu?

“Subito è stato un dramma in effetti, mi hanno dato in mano la gallina e io ho cercato di capire dove avrebbe fatto l’uovo. Quando ho comprato delle capre sapevo che avrei fatto il latte, ma come si munge una capra? Come si nutre una capra perché faccia proprio il latte che vuoi tu?

Anche qui, la risposta la dà la comunità: ho iniziato a provare da solo, poi sono andato a prendermi il latte per fare il formaggio, ho iniziato a chiedere a questo e a quel contadino come facevano loro a risolvere gli stessi problemi che avevo io. Tutti sono stati gentilissimi e tutti mi hanno dato consigli essenziali. Già all’inizio, forse, mi sentivo parte di una comunità… oggi sono in grado di farmi il formaggio da solo, quasi un chilo al giorno. So portare le capre al pascolo, gestire le api, e molto altro… tutto questo studiando e parlando con chi prima di me e da sempre faceva questo lavoro.”

DSC01958

Ok ma di queste cose tecniche io non ci capisco niente, ho bisogno di fare della filosofia, di capire cosa sta dietro a tutto questo: qual è, per te, lo scopo finale di tutto quello che stai provando a fare con Cascina Albaterra? E perché stai meglio ora che quando facevi foto?

 “Perché reputo che questo sia importante per me, ora. Preferisco alzarmi alla mattina alle sei e dover fare il latte, studiare e dover conoscere tutti i nomi delle piante – ti assicuro che è molto impegnativo – tutta questa consapevolezza di quello che prima mi sembrava non esistesse nemmeno, mi dà molto di più della macchinetta.

Lo scopo ultimo? Credo siano sempre e comunque le persone. Adoro vedere gente che viene a vedere, ad aiutare, ad imparare qualcosa. Vorrei insegnare alle persone a far entrare la natura nelle loro vite, anche piccole cose, non c’è bisogno di fare scelte radicali: che imparino a coltivarsi i pomodori nel poggiolo. Chi viene qui può liberamente imparare tutto quello che facciamo. Vorrei e vorremmo cambiare le vite a partire da questi piccoli gesti.”

Il 30 luglio Cascina Albaterra terrà una giornata di open day, in cui sarà possibile scoprire la realtà che sta divenendo. Vi consiglio di venire, noi di Salmon ci saremo di sicuro.

Perché?

Perché tutti abbiamo una vocazione e una necessità di ritorno alla natura, le gite in montagna, al mare, le immersioni al lago, le foto dei fiori, i tramonti che amiamo assaporare, tutti questi sono segni di questa necessità che riusciamo a sfogare solo a piccole dosi.

Due sono le strade che abbiamo per tornare all’essenzialità della terra: perderci dove finisce la società, oppure imparare a gestire e rispettare il crescere degli esseri viventi vegetali o animali dalla natura stessa. Imparare, o re-imparare, un sapere che l’umanità è stata costretta a creare nei secoli e che, grazie alla settorializzazione della società, ci siamo permessi di dimenticare.

Se sentiste la necessità di seguire questa seconda strada sappiate che ora avete una spalla su cui appoggiarvi, che si chiama Mattia e che si chiama Cascina Albaterra.

E, credo, non sono mai stato tanto vicino dal sentire fisicamente il brivido di una rivoluzione che ha inizio.

 



Le frequenze disturbanti

 

Una coscienza con le cuffie; un grillo parlante bastardo e cinico, che ti sbeffeggia per ogni cosa tu faccia o pensi. Si incazzano se dici loro che fanno rap o noise.
Non vogliono essere categorizzati in nessun genere, forse perché uno non basta.
Devono riempire i vuoti con parole, suoni e immagini più o meno disturbanti e torrenziali, proposte con una veemenza a tratti ripugnante. Sono un gruppo che fa emergere il tuo lato masochista: ecco perché tutti coloro che li ascoltano un po' li odiano e un po' li amano.
Ecco cosa sono gli Uochi Toki, band alessandrina composta da Matteo “Napo” Palma (voce, disegni e testi) e Riccardo “Rico” Gamondi (Elettronica).
I loro concerti sono un vero trip, vedere ed ascoltare per credere(partire da 1:04).

Ho avuto il piacere di poter chiacchierare con Rico, lo smanettone: quello che usa le macchine per capirci. Ci parla del progetto fumettistico in cantiere, del loro rapporto con la musica e con la tecnologia: il tutto ben scandito da excursus filosofici che vertono alla ricerca di un piacere nel creare quasi fine a sé stesso.
Bella djente e belli salmoni, consiglio caldamente di ascoltare la loro intervista nel player qui sotto per capire di cosa parlo.

Se non vi basta l'intervista questa sera si esibiranno al Colorificio Kroen, in via Pacinotti 19 a Verona.
Ci vediamo lì.
Stay Salmon

Salmonello


Hidden Verona: Soffitta Veronetta

Soffitta Veronetta

Mercatino dell'usato / Second hand market
Soffitta Veronetta | via Arduino 4a | 37129

Soffitta Veronetta è qualcosa tra un antiquario e un negozio dell’usato.

Almeno a prima vista.

Tutto parte dalla location: Soffitta Veronetta, è a Veronetta.

Almeno a prima vista.

Soffitta Veronetta è Veronetta, nel senso che ne è parte, nel senso che è situato nel cuore del quartiere. Si potrebbe proprio dire che ne è il cuore.

Almeno a prima vista.

In realtà Soffitta Veronetta non è il cuore di Veronetta, ma ne è una metafora o un ritratto della mente: colori, stramberie a non finire, originalità, soprese nascoste dietro sorprese, vecchio dimenticato da riscoprire.

Armadietti colorati come botteghe etniche, lampadari cosmici come pali della cuccagna, bizzarri strumenti (di qualsiasi genere) come stretti vicoli dai buffi portoni e sorrisi come sorrisi, in negozio o per strada, non importa.

Tutto questo grazie a Stefania e Nicola, che con maestria scoprono (tolgono la polvere) e riportano a nuova vita perle dimenticate.

Bellissima, Soffitta Veronetta.