Intervista a Numb
Di Nicolò Bello e Nicolò Tambosso
«Zacinto» è il tuo pezzo di debutto con l’etichetta MAKETHOUSAND di Bologna, forse anche il brano inaugurale di una tua nuova fase artistica. Siamo veramente felici di questa maturazione e curiosi di assistere alla tua crescita.
Ci chiediamo anche come stia Filippo, come ti senti all’idea di fare questo passo?
Allora, fisicamente sono all'80% mentre psicologicamente vado dallo 0% al 100% in base a ogni secondo che passa.
Filippo è in elaborazione: mi trovo in un periodo dove mi ascolto molto e cerco di trarre più cose positive possibili da ciò che ricevo. Potrebbe non sembrare ma questo processo non mi fa scrivere molto, in realtà. Sto scrivendo poco ma sto ascoltando tanto quello che c'è attorno a me e quello che c'è dentro di me.
Zacinto, che hai citato prima, parla proprio di questo: dell'ascoltare e del sentire quello che si ha dentro. Anche stare a sentire chi ci sta intorno è importante. In questo periodo ascolto gli altri e parlo molto meno del solito. Normalmente vado a periodi: ci sono dei momenti in cui parlo di più e sono più protagonista a livello verbale, mentre tante altre volte ascolto e lascio che siano gli altri a farmi capire a cosa devo rispondere.
Parlando di risposte, in questo periodo credi di essere più vicino a farti le domande giuste?
In realtà ho paura della risposta, ho paura delle risposte in generale. Penso che la domanda sia la cosa più importante, la continua ricerca di un percorso, la corsa continua verso qualcosa. Poi ci sono dei traguardi no… Forse delle soglie che attraversi, più che dei traguardi veri e propri.
Torniamo a «Zacinto»; la tua canzone ha una struttura dialogica e si sviluppa con un costante riferimento alla donna delle tue aspirazioni, dei tuoi rimpianti e dei tuoi ricordi. Apparentemente siete soli, tu e lei.
La nostra domanda è quanto ci sia di tuo in questa figura a cui ti rivolgi. Quanto è sottile la linea tra dialogo e monologo nel tuo pezzo?
Direi 50 e 50. Nella seconda parte del testo è più un monologo.
Ti faccio un esempio semplicissimo: quando mi rivolgo a una donna nella strofa, mi rivolgo sempre a lei in carne e ossa, è interpretazione molto più semplice, più leggera, non va così in profondità, o comunque quello che dico nella strofa è più in superficie. Definirei questa parte del testo più «corpo».
Invece per quanto riguarda la prima parte del brano, direi che è più «anima». Io parlo all'anima di lei, si tratta di un dialogo tra me e la sua anima. Ho in mente il nostro senso di sofferenza nello stare distanti. So che, in quel momento, una delle poche figure che può capire fino in fondo quello che sto provando è lei.
Se mi chiedi cosa ci metto di mio direi che si, è come se in quelle strofe stessi parlando un po' anche a me, no? Come se lei riflettesse quello che penso. Mi sembra proprio di rivedermi in lei, in quella parte di me che non ci sta, in quella parte di me che si preoccupa e che ha bisogno di evidenziare dei problemi.
A volte si lotta per comprendersi, ma penso che la lotta sia una componente importantissima della vita. Certo, il confronto è importantissimo e lei ha una capacità di empatizzare con me molto forte, in generale ha una forte intelligenza emotiva. Ehm... sono queste cose che ti salvano. Quando le dico... non lo so... le spiego, che sto vivendo una determinata situazione… Lei mi può dare la tua stessa identica risposta… Magari lei dice «bello», come potresti dire te, ma il suo «bello» ha un valore completamente diverso per me perché parla un linguaggio differente.
Il grande protagonista di questa traccia sono il testo e le sue parole, con particolare attenzione a come si incastrano, a quali immagini sono in grado di evocare e a quale storia permettono di raccontare.
Quanto sei disposto a scendere a compromesso nella scelta dei termini, quando si tratta delle tue canzoni e quanto tempo dedichi alla scelta delle parole?
A volte, quando scrivo determinate canzoni, avverto di non sentirle mie, anche se non in senso negativo. Ne ho parlato molto e mi sono confrontato anche con altri artisti, non sono il primo che ha questa sensazione.
In questo momento ho qualche difficoltà con le parole, tante volte mi sento quasi costretto a cesellare troppo il linguaggio, soprattutto quando scrivo testi dove ha un approccio razionale. Nei testi più cerebrali tendo a ritagliare un po' di più le parole, perché siamo in un'epoca dove non puoi sempre dire tutto quello che vuoi o come vuoi tu.
La mia etichetta non mi pone nessun limite, non è che mi dica: «questo sì e questo no». Forse è più una questione di percezione del pubblico. Sto cercando piano piano, con il contagocce, di utilizzare comunque questi termini, un esempio può essere «serendipità», una parola meravigliosa perché rappresenta un concetto bellissimo.
«Salvami!» è l’invocazione che ripeti nel ritornello di «Zacinto», per questa intervista ci siamo chiesti chi fosse la destinataria di questa preghiera.
Nel testo racconti di come tu ferisca la tua compagna perché sei angosciato, la tua richiesta di salvezza si origina nel desiderio di risolvere un conflitto interiore originato dalla nostalgia, che è la causa del tuo dolore e della tua rabbia. In questo senso sarebbe la tua compagna che può salvarti, venendoti incontro prima che sia troppo tardi. «So che ho esagerato e per questo ti chiedo scusa, ferire in quel modo sai che non è nella mia natura [...] Non sai quanto manchi voglio riabbracciarti, farlo prima che sia troppo tardi».
Questa lettura però non era abbastanza, la scelta del titolo, le immagini che scaturiscono dal tuo testo ci sembravano troppo pregnanti. Siamo certi che il desiderio sia sempre quello di essere salvato dalle tue angosce, dalla nostalgia per la terra natia e dal nervosismo che ti causa la quotidianità. Ciò che ci ha incuriosito è stata la tua scelta di affidarti all’immaginazione per essere salvato. Nella gabbia della razionalità che ti relega alla cruda realtà infatti, hai scelto di chiedere di evadere attraverso l’evocazione di un idillio Foscoliano, di un’immagine poetica. «Perché ho tutto da perdere, e ripenso alla mia Zacinto, in un recinto fatto di idee».
Ci è sembrato che non fosse solo la tua compagna che potesse salvarti, ma anche la tua capacità di immaginare un mondo nel quale fossi felice di vivere, con lei, oltre a una versione migliore di te stesso che lo abitasse.
Questa quindi è la nostra domanda: «Quanto credi possa salvarci la fantasia da «dolore, botte e tagli” che ci procura l’esistenza?».
La tua analisi è molto corretta. Beh, direi che la fantasia è un fulcro, un centro che si sposta attorno all'amore… Fantasia e amore…. La seconda quasi più della prima, direi che vanno a braccetto. Sono loro che ci salveranno o che lo stanno facendo anche già adesso.
A volte la fantasia va anche a braccetto con l'odio però, pensa al pregiudizio.
Sì, hai ragione però mettiamola così: la fantasia ci salva se è nutrita dall'amore. Questo perché l'amore per me è la ragione di ogni cosa. Sia dietro ogni cosa positiva che dietro ogni cosa negativa c'è l’amore, secondo me.
Per l’ultima domanda prendiamo in prestito una frase di «Business Class», un tuo singolo del 2022, nel quale rappi: «La mia gente il blocco lo sente, più dentro al cuore che tra i palazzi». Ci interessa questo profondo sentimento di coesione di cui parli, tra le compagnie di quartiere. Qualcosa che istintivamente legheremmo alla cultura hip hop. Negli ultimi anni il panorama musicale indipendente veronese è decisamente cresciuto, arricchendosi di diversi artisti capaci di ritagliarsi una nicchia nel mercato.
Come vivi questo sviluppo? Credi che ci sia la stessa coesione anche nella scena musicale della tua città? Penso ad Adriana, Orlvndo ecc. ecc.
Tra me, Adriana e Olly, c'è un'amicizia, ci vogliamo proprio bene. Adri è mia sorella maggiore praticamente. Per quanto riguarda la scena, c'è stato un miglioramento incredibile, parlo dei rapporti privati tra di noi.
Confrontandomi con la vecchia guardia dei ragazzi più grandi infatti. Devo dire «ragazzi» perché loro saranno per sempre dei ragazzi nonostante l’età, grazie alla loro musica. Beh, loro mi hanno sempre detto che ai loro tempi c'era stata un’enorme difficoltà ad avvicinare questa città, a renderla coesa.
Ti posso dire, e mi metto tranquillamente in prima fila, che oggi io e altri artisti siamo molto vicini. Posso pensare ad Angelo, a Koi, posso pensare ad Adriana, posso pensare a Natas, posso pensare a Dj Bars, posso pensare a Slowletti, a Geko… Più che di rapper, parlo anche di gente che ha gestito eventi: Tambo con Horto e l'Accademia dà la possibilità ai ragazzi di esprimersi; Bruce con le aperture del venerdì al The Factory e Geko con il cypher bullismo stanno facendo delle cose incredibili.
Gli artisti esistono perché hanno uno spazio per esprimersi, bisogna dire grazie a queste persone che danno la possibilità agli artisti di essere artisti. Perché senza uno spazio, senza un pubblico, non lo sei. Tra noi c'è una coesione forte, dovuta al fatto che più proponi eventi più la gente viene agli eventi e si conosce.
Io farei leggere questa intervista al nostro sindaco perché abbiamo ancora bisogno di eventi, di musica, di confronto, di cultura. Si sta già facendo qualcosa e anche voi avete fatto tantissimo. Si è vista questa cosa negli artisti, si riflette, ci vogliamo bene tutti. Io non ho difficoltà a stare una sera con Candy o Muslim, che vengono da una realtà completamente diversa, quella di Villafranca, e che fanno una musica molto diversa dalla mia. C'è comunque grande rispetto.
«Scena» significa che in un certo territorio gli artisti si conoscono. Non è nulla di più. Il fatto che si conoscano crea mercato, un mercato artistico e creativo. Per questo nasce la competizione, il rispetto, il desiderio di prendere a esempio, il confronto. Questo processo genera altra cultura.
Bravissimo, gli spazi in cui si produce cultura attingono materiale da questo processo e generano una macchina infinita. Io credo che oggi Verona non abbia nulla da invidiare... e non lo dico perché sono di qua… a realtà musicali come quella di Milano, di Bolo o di Torino. Non sto dicendo che siamo migliori. Quello che posso invidiare a queste città è la loro storia, il loro passato. Noi sappiamo che siamo qua per scrivere il nostro.
Tutti gli artisti che hai citato fino ad adesso provengono dall’ hip hop. Pensi voglia dire qualcosa?
Secondo me adesso l'hip hop sta realizzando una cosa che potrebbe suonare assurda. Oggi quasi tutte le persone che si avvicinano alla musica iniziano dal rap, tuttavia da quando è scoppiato questo fenomeno quanti cantautori sono nati? Moltissimi… senza considerare l’esplosione dell’indie. La gente oggi fa rap e poi forse matura nel pop, nell’indie, nell’R&B. Si è superata la chiusura che caratterizzava questo genere, c’è più contaminazione con meno giudizio. Alla fine scrivere in rima è più semplice, no? Parti da lì e piano piano aggiungi...
L'attitudine hip hop comunque non me la togli neanche se vado all'Ariston, capito? Vorrei che vedeste com'è che saluto le persone (ride) talvolta posso sembrare maleducato e rozzo, ma non è questo il discorso.
Nicolò Bello e Nicolò Tambosso
Intervista a Davide Shorty
Di Nicolò Bello e Nicolò Tambosso
È Sabato 25 Novembre e noi di Salmon Magazine / Horto, siamo seduti sulla poltroncina da “casting couch” del «The Factory» ovvero l’apprezzatissima sala concerti di San Martino Buon Albergo.
Si tratta della stanza da “recording” che affaccia sulla sala prove dello spazio, una zona che, in occasione dei “live”, funge anche da “Press Room” per i “Big Guests” della “venue” (sì, l’inglese ci fa sentire importanti).
Seduti su due sedie da ufficio (quelle con le rotelle sotto), sorseggiamo due birrette e chiacchieriamo un po' del più e del meno.
Attraverso il vetro dello studio intravediamo la nostra prossima vittima, gli facciamo un cenno di saluto ma con scarsi risultati…
Decidiamo dunque di prendere il toro per le corna e lo invitiamo ad entrare per fare due chiacchiere face-to-face, lui accetta e lui si siede comodo comodo (speriamo) sulle poltroncine che abbiamo provveduto a scaldare con i nostri rispettabili sederi.
Il set è pronto, l'atmosfera è calda e rilassata, i nostri volti sono distesi e pacifici. Quando siamo certi che il nostro ospite ha abbassato la guardia iniziamo a bombardarlo di domande, senza pietà.
Ciao Davide, approfondendo il tuo repertorio musicale si può notare come la tua penna sia sempre stata molto coerente con il tuo percorso artistico: dai primi pezzi ai brani usciti dopo X Factor, dalla collaborazione con i funk shui project al tuo ultimo album «fusion», sei sempre riuscito a catturare una tua dimensione di scrittura unica e cucita su misura per ogni progetto.
Ora, oggi, nel 2023, dopo quasi 6 anni dal tuo primo album, come vedi la musica con l’occhio di un Davide Shorty cresciuto e maturato artisticamente? Che rapporto hai con il Davide di allora? Cosa gli diresti dopo tutto quello che ti è passato?
Io la musica l'ho sempre vista come un'esigenza piuttosto che come il mio lavoro, è diventato il mio lavoro per forza di cose e ne sono infinitamente grato.
Nella mia vita non mi sono mai fatto troppe domande e ho sempre fatto, oggi invece sto cominciando chiedermi delle cose per la prima volta: cosa voglio raccontare? Cosa sto diventando? Cosa voglio diventare? Chi voglio essere? Cosa ho fatto per generare queste domande?
Non parlo soltanto dell'artista che voglio essere ma soprattutto della persona che voglio incarnare e di come voglio reagire agli eventi che succedono nella mia vita.
Viviamo in una società dove siamo saturati dall'informazione, o meglio, dalla disinformazione. Si fa molta fatica a capire come selezionare le nozioni e come discernere cosa è costruttivo da cosa è distruttivo. Fare un lavoro specifico di selezione di queste informazioni richiede uno sforzo mentale che spesso va al di là della nostra capienza, la nostra salute mentale viene poco tutelata, almeno nel mio caso.
Mi rendo conto, per fare un esempio banalissimo, che tutto ciò che polarizza le opinioni in sole due eventualità, richiede anche uno sforzo dal punto di vista morale non indifferente. Questa moralità delle volte ti piega, perché hai delle immagini molto forti davanti e sei bombardato da parte dei mass media. Diventa complicato proteggersi dalle opinioni precostituite e non lasciarsi risucchiare da questa polarizzazione. Perdere il controllo e la calma è molto facile.
Ecco, con la musica per me è valsa la stessa cosa. L’approccio non è mai stato solamente “vado a divertirmi” o “cerco di canalizzare delle sensazioni”. Ho sempre cercato di tradurre le emozioni più forti delle mie giornate nelle canzoni. La musica è stata la mia terapia e, per la prima volta, mi sta facendo porre delle domande in un momento in cui non è più così automatico quello che voglio raccontare.
Quando ero un immigrato a Londra avevo bisogno di raccontare la storia di un immigrato che fatica ad arrivare a fine mese, che sta imparando una nuova lingua e che sta costruendo un’identità da zero. Oggi questa identità l'ho già costruita e quella storia non è più la mia, adesso sto in Italia da cinque mesi e a Londra vado un po' meno.
Oggi guardo al Davide del 2015\2016 mentre stavo scrivendo il mio primo disco, «Straniero», con tanta tenerezza. Gli direi di prendere le cose un po' più alla leggera, senza cambiare nulla di ciò che è passato. Tutto ciò che è successo è stato necessario e mi ha portato qui. Ultimamente sto imparando ad essere grato per tutto.
Molto spesso mi si attribuisce l'etichetta di “artista sottovalutato”. È una cosa che sento dire molto spesso, non soltanto dai miei fan ma anche dagli addetti ai lavori e dalle persone con cui collaboro.
“Ah, ma tu sei molto sottovalutato, ti meriti molto di più di quello che hai”. Prima frasi del genere mi mettevano veramente a disagio e mi ponevano davanti al mio ego e ad un'ambizione non raggiunta, rendendo più faticoso a una parte della mia personalità di esprimersi.
Adesso tendo ad osservare più che a reagire, cercando di vederla da un punto di vista più spirituale, a volte riuscendoci e altre volte no.
Negli ultimi anni l'industria musicale italiana è scoppiata con l’arrivo dell’indie, delle piattaforme di streaming e della musica prodotta dalle ultime generazioni. Una tra queste è l’ondata di RnB/Soul italiano di recente tendenza, cosa ne pensi di questo fenomeno? Credi che sia solo un trend che finirà o che sarà un inizio dove gettare le basi per una nuova cultura RnB/Soul italiana? Il nostro paese è culturalmente pronto per questo fenomeno secondo te?
Io cosa ne penso? Si, penso e spero che possa essere l'inizio di un movimento ma allo stesso tempo credo che ci debba essere più aggregazione in generale nella scena.
Sarebbe bello vedere le persone supportarsi a vicenda un po' di più.
Io, insieme a Serena Brancale e ad Ainé, abbiamo creato un collettivo che ci ha agevolato a vicenda in un modo o in un altro. Sarebbe interessante vedere questo fenomeno allargarsi e prendere forma, piuttosto che assistere ad una ricerca più personale sul genere come invece vedo fare.
Culturalmente parlando è bello vedere queste nuove tendenze ispirate dall’estero anche se, prima di tutto, credo sia importante capire cos’è e da dove viene quello di cui si sta parlando.
Stiamo comunque realizzando una musica che culturalmente non ci appartiene. Personalmente questo concetto mi responsabilizza e mi fa sentire caricato del peso di non scimmiottare qualcosa che non mi appartiene. Preferisco andare a studiare per restituire dignità a una cultura.
"Porto Mondo" e “Non respiro” sono pezzi molto forti, in cui esprimi chiaramente il tuo pensiero su diversi temi politici e sociali. Quanto è importante per te veicolare messaggi di questo tipo con la tua arte? Credi che la musica, attraverso la sensibilizzazione e l’empatia, riuscirà mai a cambiare le persone? Cosa auspichi che accada nella mente e nel cuore dei tuoi ascoltatori quando cerchi di veicolare questi messaggi?
Penso sia importante nella misura in cui mi colpisce. Nel momento in cui ho bisogno di processare delle informazioni le scrivo. Per me è importante metabolizzare ciò che mi mette a confronto con me stesso. Scrivo tutto ciò che mi da dei dubbi, delle sensazioni forti e mi fa provare rabbia, come per esempio la politica.
Tutto ciò che riguarda la polarizzazione, sono delle cose che, per forza di cose, ti mettono a confronto con te stesso. Sono degli eventi che non possono passare inosservati, con cui è difficile non empatizzare, almeno per quanto mi riguarda.
Quando ho empatizzato con determinate cose mi viene spontaneo scriverne. Per me è importante quanto è importante mangiare o bere. È una cura per la mia salute mentale. È il mio strumento di espressione e mi sento fortunato ad aver trovato quella chiave per poter leggere determinate cose. Soprattutto per poterci convivere perché, ripeto, non è facile trovare un canale di sfogo quando si parla di determinati temi. Alcuni sono argomenti molto forti… Sentire cosa auspichi che accada nella mente di chi ti ascolta non è affatto affare mio.
Nato e cresciuto a Palermo, diversi tour alle spalle e ora vivi a Londra.
Come mai questa scelta? Cos’è che Londra ha che le altre città non hanno?
Io ho sempre seguito la mia curiosità. Mi sono trasferito a Londra perché la prima volta che ci sono andato mi sono sentito libero di esprimermi senza giudizi.
Palermo è una città meravigliosa e tanto accogliente ma quando si tratta di creatività ci sono tanti giudizi, le persone sono abituate a giudicare e a mettersi i bastoni tra le ruote.
Ho avuto la spinta verso Londra perché per la prima volta mi sono sentito compreso, quindi mi sono sentito libero e spinto a studiare e a capire ancora di più di quanto io potessi essere.
A Palermo mi sentivo totalmente un outsider, quasi un pazzo. Non ero compreso ma ero compresso.
E come mai ora ti ritrovi di nuovo in Italia?
Sono tornato in Italia dopo 15 anni perché è andata a fuoco una parrucchiera sotto casa rendendola inagibile. Un evento un po’ straordinario e po’ traumatico che è accaduto in un momento in cui stavo finendo il mio primo anno accademico da professore in “sample based music production and performance”, in un’università a Londra.
Mi sono trasferito a casa della mia compagna per qualche mese, fino a quando non abbiamo deciso di trasferirci giù a Palermo per rallentare un po’, dato che a Palermo la vita è molto più lenta.
Nicolò Bello e Nicolò Tambosso
MEGA TRANQUI
di: Aurora Lezzi
Mega tranqui è il loro motto: è il loro modo di prendere le cose, di vivere la vita con estrema serenità.
Si può dire anche che è stato il mood della situazione che si è creata tra di noi una volta che abbiamo preso una birretta al bar come se fossimo amici da tempo.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Sofia, in arte Livrea, e la sua band.
Se per caso su Spotify vi fosse capitato di ascoltare la playlist pubblica “Anima R&B” della scorsa settimana, sappiate che avete il piacere di leggere quest’intervista con la ragazza che era copertina.
Via con le presentazioni, come solista e come gruppo.
S: Livrea è il mio progetto solista, supportato da un collettivo che si chiama “Zona Neutrale”, fondato da me e dal qui presente Antonio Citarella (in arte Nubula), e Francesco Mameli, il mio manager dal 2021 in concomitanza con l’uscita del mio Ep d’esordio dal titolo “Luna Calante”. Nell’ultimo anno abbiamo formato questa band per essere più versatili e fare live. Abbiamo Amedeo Abdul Jabbar (alias Jabba) al basso, Giovanni Sempreboni alla batteria, Niccolò Braggio al sax, Davide Lorenzetti alle tastiere e, ancora una volta, Antonio alla chitarra. Antonio è anche il mio produttore e scriviamo insieme i pezzi.
Questo progetto ha delle radici soul e R&B: scrivo in italiano perché è una cosa che mi appartiene, per me la lingua è importantissima e sento forte un attaccamento alla letteratura e alla poesia. Adesso è in corso l’uscita dell’album d’esordio, “Il canto del villaggio”, tripartito.
Perché la scelta di dividere l’album in tre parti?
S: Il primo atto è uscito un paio di mesi fa, il secondo atto circa tre settimane fa e il 16 giugno uscirà la terza parte. È un po’ un racconto dove narro quelle che sono le mie paure e le mie demoni, avevo la necessità di scriverlo ed è fortemente autobiografico. Essendo un racconto con un incipit e una conclusione, ci piaceva l’idea di dare un filone narrativo: la tripartizione da un senso di narrazione. Ad esempio, il primo atto è più introspettivo, più oscuro e buio; nella parte centrale c’è una presa di coscienza rispetto alle paure raccontate nel primo atto, mentre nell’ultimo vi è una sorta di conclusione, la soluzione a tutti questi lati oscuri.
Per quanto riguarda l’esigenza di avere una band, com'è nata? Come vi siete trovati?
A: Era il 2017 quando ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della produzione e da due anni studio a Lucca e questo mi ha consentito di approfondire il lato tecnico. Mameli, con cui sono amici da anni, ha poi fatto incontrare me e Sofia e adesso collaboriamo da circa due anni, occupandomi della produzione come diceva Sofia poco fa.
G: Io vengo fuori dal nulla. Sono arrivato all’interno del progetto quando è arrivata la loro necessità di volere una band per suonare live. Tramite Davide mi è stata inoltrata la loro ricerca di un batterista e il progetto mi è piaciuto subito. La fatalità è stata la coincidenza di questa loro ricerca e della mia volontà in quel momento in quanto musicista, quella di voler suonare in un contesto musicale del genere per mescolare la batteria acustica con suoni elettronici. Era l’occasione perfetta.
J: Io ho conosciuto Sofia perché lavora nel bar del mio paese. È nato tutto un po’ per scherzo perché Sofia mi disse che aveva una data importante al Magnolia a Milano e io le chiesi se avesse del merch. Non aveva nessuno che si occupasse della vendita e io mi sono offerto. Ho avuto modo di conoscere meglio gli altri e, una volta scoperta la mia esperienza nel settore musicale underground ed essendo entrati in sintonia fin da subito, mi hanno chiesto di entrare nel progetto.
Quali sono le influenze che ti hanno condotta a questo genere musicale?
S: Il mio papà mi ha sempre imposto cose molto “da papà”. Crescendo ho scoperto il jazz e me ne sono innamorata, poi il blues, il reggae. Canto anche in un coro gospel, quindi subisco influenze un po’ da tutto e mi hanno tutte fatto arrivare al mio stile di adesso, ancora un genere non definito. Non mi riesco a definire di un genere “puro”.
Però, se dovessi dire “È lei/lui/loro che mi ha/hanno influenzato”?
Chi nomineresti?
S: Beh, sicuramente grandissime voci del passato, cominciando da Nina Simone, Ella Fitzgerald, Amy Winehouse, tutte queste voci soul, R&B. In Italia, invece, ti direi Lucio Battisti: per me è fondamentale.
Ultima domanda: parlami delle copertine perché sono spaziali. Mi sapresti descrivere il concetto? Nelle tracce del disco sento delle sonorità moderne e percepisco come un contrasto con la scelta dei costumi, quasi rurali.
S: Sono dei ritratti e sono tre copertine diverse, una per ogni atto. Nel primo ci sono quattro personaggi, il secondo ha i quattro di prima più altri tre diversi, mentre la terza copertina presenta undici personaggi in totale. Ad ogni personaggio è stato associato un pezzo, seguendo delle mie influenze a livello visivo. Sono tutte persone che gravitano intorno al progetto, che hanno dato una mano o si sono palesate in qualche altro video. Ad esempio c’è anche il mio make-up artist.I costumi li ho fatti tutti io, mi piace trovare le cose ai mercatini, cercare i tessuti e per ogni personaggio ho creato l’abbigliamento creando un moodboard. Mi sono spirata al mondo tradizionale ma anche a Pasolini, che mi ha travolta. Infatti ho fatto riferimento “Medea” dove Maria Callas è la protagonista, ho preso spunto dai costumi del film. Questo mondo tradizionale e ancestrale, come dicevi, va anche in contrasto con quelli che sono i suoni dell’album che anch’esso è ibrido essendoci una forte presenza suoni elettronici ma strumenti tradizionali dappertutto.
Alla fine di tutto, l’unico “peccato” che ci verrebbe da dire è che non ci sia un quarto atto del disco, ma... se volete ascoltare gli altri tre, lo potete fare in cuffia su Spotify perché il terzo atto è fuori il 16 Giugno. Oppure, direttamente live a Roma il prossimo 22 Giugno perché sono invitati al Maschiacce Music Festival, Largo Venue.
ASTA DI PRIMAVERA @studiolacittà
Come se la passa il mondo dell'arte contemporanea in questo periodo?
"Il Mondo dell’arte in questo momento, come del resto molti altri mondi, è lento e richiede attenzione e molta determinazione. Bisogna inventarsi continuamente delle cose per incuriosire e stimolare la gente. Per questo abbiamo pensato a questa asta che vorrebbe essere una festa più che un’asta."
Toglimi una curiosità; come mai, dopo così tanti anni di attività, hai deciso di indire un'asta?
"È una provocazione al pubblico distratto, non credo che farò altre aste non è quello l’intento, è un’iniziativa una tantum perché in questo momento il collezionista medio è insicuro, pensa di dover sempre seguire le mode o comprare opere di artisti conosciuti per essere sicuro di non fare brutta figura o di fare un buon investimento. Basta guardare le aste, quelle con la A maiuscola, o le fiere… se proponi un artista anche di grandissima qualità che non è sulla cresta dell’onda vedi subito che c’è poco interesse, ci chiedono sempre gli stessi nomi che fra qualche mese o anno non saranno più di moda. È come se il pubblico delle fiere o delle aste si soffermasse a guardare solo il lavoro di artisti conosciuti, senza realmente valutare le opere in sé."
Andiamo al punto: parlaci dell'asta del 9-10 Giugno.
"Allora ho avuto questa idea e ho pensato di proporre piccole opere, grafiche, fotografie di artisti che ho esposto nei 50 anni di attività, non sono certo fondi di magazzino né opere scelte a caso. La base di partenza dell’asta è sempre bassissima proprio per dare la possibilità di comprare un’opera solo perché piace, senza altri scopi. Vedremo se riesco a stimolare la gente o piuttosto se riesco a fermare lo sguardo dei visitatori sulle opere."
Sapevi che un collettivo di giovani veronesi ha indetto un'asta in un mercato dell'usato ed ha avuto un grande riscontro, facendola diventare, più o meno consapevolmente, un mix tra una performance e uno spettacolo di stand-up comedy?
"Si ho saputo dell’asta fatta in un mercatino dell’usato e l’ho trovata un’idea bellissima e divertente, vorrei che la nostra asta fosse una cosa simile, che ci fosse un’atmosfera di gioco e di scoperta."
Nel vostro caso sarà un'asta "classica" o ci saranno degli elementi di innovazione e sorpresa?
"Diciamo che quest’asta è organizzata con tutte le regole a cominciare dal battitore professionista che è un amico e ha accolto volentieri il nostro invito. C’è un catalogo con i lotti consultabile e scaricabile dal nostro sito www.studiolacitta.it. Qui sarà possibile anche registrarsi per partecipare in presenza. Per coloro che non potranno essere presenti sabato sarà possibile, nei giorni precedenti il 10 giugno inviare un’offerta che sarà tenuta in considerazione durante l’asta. Non ci saranno costi per i diritti d’asta, diversamente da come accade di solito. Le opere saranno esposte nella giornata di venerdì dalle 9 alle 18 e sabato mattina dalle ore 9. Poi alle 11 avrà inizio l’asta. All’ingresso saranno distribuite le palette numerate per fare l’offerta e chi non si è iscritto on line, cosa che caldeggiamo, potrà farlo comunque la mattina stessa."
Che tipologie di pubblico Studio la Città vuole intercettare?
"Il pubblico che vorrei intercettare sono persone che amano l’arte, ma che non hanno mai osato avvicinarsi ad una galleria pensando che sia un luogo solo per ricchi. Però mi rivolgo anche a tutti quei collezionisti esperti che hanno la voglia di riconoscere la qualità anche senza conoscere l’artista. Vedremo…"
Ne avete già in programma altre?
"Assolutamente no…"
immagini: courtesy Studio la Città
Rebel Rebel
Viaggio nel tempo
di: Aurora Lezzi
Avete presente quei locali bui dove non capisci bene quel che accade, la musica pompa dalla consolle alle casse fino ad arrivare nelle orecchie e nello stomaco a volumi esagerati, le luci sono soffuse e i flash vi abbagliano gli occhi?
No, non è l’underground di Berlino, è Verona.
Chi è che permette queste situazioni tipiche berlinesi nei tranquilli e silenziosi locali di Verona?
Si tratta del dinamico duo di djs e producers Zeitreise, e noi non potevamo che andargli a domandare come riescono a creare tutto questo. Li abbiamo notati al The Factory durante una delle loro serate live e il loro mixare questi pezzi folli e graffianti alla consolle ci ha completamente stregati.
Presentatevi, siamo curiosi di sapere chi siete!
I: Siamo Federico e Irene, in arte Zeitreise, e siamo una coppia sia nella vita sia artisticamente. Condividiamo una smisurata passione per la musica e per il mondo dell’arte in generale.
Avendo questi punti in comune ci siamo conosciuti in una delle nostre esibizioni individuali ed è stato facile creare una forte sinergia tra noi.
E la passione per questo flow e questo stile musicale tipico di Berlino? Da dove viene fuori?
F: Più che un interesse per un preciso genere musicale, ci piace focalizzarci sulla ricerca di un modo di fare musica e vogliamo proporre uno stile che ci rappresenta. Il nostro interesse nasce, quindi, dall’amore sconfinato che proviamo per la musica e dalla cura che ogni giorno abbiamo nel cercare di raffinare il nostro stile affinché possa rappresentarci al meglio.
Qual è il significato del nome?
I: Zeitreise è una parola tedesca che in italiano significa “viaggio nel tempo”. Abbiamo scelto questo nome perché fa riferimento allo stile che abbiamo cercato di far crescere negli anni, sia individualmente che come duo. Questo progetto è nato in una fase della nostra vita che si presenta ciclicamente e nella quale cerchiamo nuove ispirazioni musicali che possano alimentare la nostra curiosità.
F: In una di queste fasi dovevamo dare un nome al flusso di eventi che ha portato alla nascita del progetto e in quel periodo ci trovavamo a Berlino. Le vibrazioni di quella città sono state di ispirazione quindi abbiamo pensato di renderle omaggio con un nome in lingua tedesca.
Come avviene la ricerca accurata dei pezzi da selezionare e suonare alle vostre serate?
F: La ricerca dei brani è un incessante processo di ascolti giornaliero in cui esploriamo il vasto panorama di artisti indipendenti e cerchiamo di curare il nostro suono nelle produzioni musicali. La chiave di ricerca è semplicemente proporre brani che al meglio ci rappresentano e possano essere utilizzati quando è necessario per comunicare quello che proviamo.
Per quanto riguarda i dj-set cercate voi le date dove suonare oppure venite contattati?
I: In un panorama in cui molto spesso nei locali governano quasi incontestati mediocrità e cattivo gusto, andiamo a proporci personalmente. Allo stesso tempo chi ci ha compresi e condivide la nostra idea di proporre musica ci chiama con regolarità.
Quando nel 2021 ci siamo trasferiti nella periferia di Verona ci siamo esibiti in un locale del posto, quello che prima era il Caffè Venier, dove abbiamo conosciuto Marco Cordioli che adesso ogni tanto suona con noi.
Quindi tu, Marco, sei un’aggiunta casuale e non sempre presente. Qual è il tuo ruolo quando ti aggiungi a loro?
M: Sì, io non faccio parte del progetto ma mi diverto a suonare con loro durante le serate facendo un qualcosa di diverso. La collaborazione nasce perché loro avevano già il progetto Zeitreise, mi piacevano le loro sonorità dark, quel periodo scuro della new wave anni 70 e 80 tipico dei locali underground. Quando lavoravo lì, li abbiamo inseriti nelle serate live del locale. È venuto fuori che suonavo anche io e quando hanno espresso il desiderio di contaminare il loro dj-set con dello strumentale, una sera ho portato la chitarra e dal nulla abbiamo fatto una prova dal vivo lì su due piedi. Ci siamo trovati bene perché il mio stile con pedali e sonorità forti si mescola bene al loro: faccio interventi solisti con reef dalle sonorità distorte, acide e molto dark. Dopo questa prova da “buona la prima”, abbiamo suonato in locali dove potevamo funzionare bene, come il Malacarne e il BastianContrario.
Che conosciate l’ambiente o meno, che siate dei clubber o no, se ascolterete dal vivo questo mix potentissimo, parola di Salmoni: sarà difficile stare fermi.
Proprio per questo motivo, aspettiamo intrepidi un’altra data dove ad esibirsi ci saranno loro così, senza prendere un aereo o una macchina del tempo, ci potremo catapultare nella Berlino degli anni ’80.
L'equazione
di: Aurora Lezzi
C+C=Maxigross: quella che ci sembrava un’equazione è in realtà una delle band più conosciute di Verona e allora abbiamo deciso di incontrarli. Dopo delle chiacchiere informali, sono venuti fuori discorsi profondi e spiegazioni sul loro disco “Cosmic Res” appena sfornato il 20 gennaio e che ci hanno fatto venire i brividi.
Chi sono i componenti attualmente? Essendo un collettivo, spesso ci sono entrate ed uscite.
N: Eccoci, C+C=Maxigross. Io sono Niccolò Cruciani, suono la chitarra e canto.
Z: Io sono Zeno Merlini, suono il sassofono e ora mi hanno costretto a suonare anche ai sintetizzatori.
T: Io sono Tobia Poltronieri, suono la chitarra e canto anche io.
N: All’appello mancano Sirio Bernardi alla batteria e Francesco Ambrosini, in arte Duck Chagall, che in quest’ultimo album è stato quello che ha gestito lo studio, quindi il produttore discografico che si è occupato del disco. Questa è una nuova formazione, suoniamo insieme dall’inizio dell’estate, poi essendo un collettivo, appunto, sono passati tanti elementi e attualmente ci troviamo così.
Parlateci di questa storia lunga dieci anni o forse più!
N: Si esatto, anche più, se non sbaglio è una storia che inizia nel 2009. Il membro originario fondatore qui presente è Tobia insieme a Filippo Brugnoli e Francesco Ambrosini che adesso fa parte del collettivo ma dal punto di vista più della produzione e da studio. Magari ci accompagnerà nei concerti, prossimamente..ma per ora no. Poi Filippo è diventato padre, ha preso altre strade, sono subentrato io, altre persone, adesso Zeno e Sirio e diciamo che siamo in continua evoluzione.
T: Molto semplicemente, io, Pippo e Ambro ci conosciamo da quando eravamo ragazzini e suonavamo per conto nostro. Il primo EP uscì nel 2011 e si chiamava Singar e da lì poi l’evoluzione come ha spiegato Niccolò.
Qual è il vostro rapporto con la città? Sappiamo di una certa casa in montagna..
T: Sì, di Vaggimal potrei parlare io. Semplicemente, come forse già sapete, Vaggimal è tutt’ora la casa dei nonni di Pippo e ora dei suoi genitori. Abbiamo iniziato a usarla nei ritagli di tempo quando non ci andavano i suoi genitori e abbiamo registrato lì i primi dischi, quindi è un po’ il fulcro dove amici e amiche venivano a trovarci. Abbiamo creato tutto un bacino di amicizie mantenuto uguale ad adesso, quindi è stato un po’ l’evoluzione delle nostre vite.
Parliamo un po’ del disco. Ce lo sapete descrivere concettualmente? C’è una storia dietro?
N: Innanzitutto, questo disco appena uscito è completamente scollegato da questa fase primordiale dei C+C. Lo abbiamo scritto qui a Verona ormai due anni fa per un episodio che per noi è assolutamente importante, ovvero la morte del nostro amico Miles. In realtà non nasce come un disco commemorativo, semplicemente ci siamo trovati a suonare, improvvisando e facendo sperimentazioni con i nastri e ci siamo detti: “Ok, proviamo a dargli una forma” senza neanche pensarci troppo. Abbiamo poi pensato che il ricordo del nostro amico poteva essere una tematica ricorrente e che avremmo potuto velarla. In ogni caso ci siamo interrogati se stessimo andando troppo nel dettaglio, ma i conti alla fine ci tornavano. A volte i riferimenti sono diretti, a volte no.
Il disco sarà presto sotto un’etichetta discografica di nostri amici che secondo me stanno facendo un ottimo lavoro e si chiama Dischi Sotterranei. Siamo contenti anche di lavorare con persone nuove: loro sono molto entusiasti e ci troviamo molto bene anche a livello personale.
Ritornando sulla tematica, anche per la scrittura dei testi, abbiamo cercato di spaziare, parlando a volte in maniera intima e personale e altre volte più distaccata, non vincolante.
Viste le numerose prossime date per suonare dal vivo, come fate a trovare i posti dove esibirvi?
N: Adesso abbiamo la fortuna di avere una delle migliori agenzie booking nel nostro campo che è DNA Concerti. Lavora con artisti che personalmente amo e ci sta trovando le date e ne stanno saltando anche fuori di nuove. Suoneremo il 10 febbraio qui a Verona, poi a Milano all’Arci Bellezza il 16 Febbraio, il 17 a Modena e altre ancora, che adesso non ricordo.
E invece su RollingStone? Come diavolo ci siete finiti?
N: Abbiamo creato per loro una playlist. Il nostro ufficio stampa ci ha trovato questo sbocco con RollingStone e ci è stato chiesto di creare una playlist di brani che ci hanno ispirato connessi a Cosmic Res e abbiamo semplicemente proposto dei pezzi che ci piacciono molto.
Cosmic Res è un titolo pazzesco, da dove salta fuori?
N: Cosmic come parola inglese e Res come parola latina: ci piaceva come suonava, “Cose Cosmiche”. Lo trovavamo adatto alla tematica che trattiamo nel disco. Pensiamo che ognuno di noi manifesti una propria spiritualità e fascinazione per quello che non è tangibile, mentre il cosmo è totalmente tangibile ma è una cosa distante che conosciamo poco, un po’ ignota. Si tratta di qualcosa di scollegato dal pianeta terra, quindi come il ricordo del nostro amico e abbiamo legato il concetto della morte alla materia cosmica. I testi, invece, sono prevalentemente scritti in italiano, ma in quest’ultima fase, ci siamo riappropriati adesso della lingua italiana perché inizialmente scrivevamo in inglese in maniera inconsapevole, un po’ naïf. Il nostro amico Miles, invece, ci ha fatto capire come l’essere naïf sempre non portava necessariamente a una comunicazione chiara e diretta e quindi siamo tornati alla nostra lingua madre, riuscendo a comunicare meglio certi concetti.
Data questa dose di vibes forti, non ci resta che fare una cosa: sentirli dal vivo, per avere queste vibes direttamente sulla pelle.
Siamo fortunati, e sapete perché? La data live in quel di Verona è vicinissima, il 10 Febbraio al Colorificio Kroen.
#followthesalmon
Scimmie a Verona
Spoiler: non sono il loro gruppo preferito.
Di chi stiamo parlando? Della fichissima band veronese Arctic Attack, tribute band degli inglesi Arctic Monkeys. Per chi non conoscesse il concetto, una tribute band non è una semplice cover band che fa brani di altri gruppi, ma è una band che si dedica unicamente ad un’altra band e fa cover solo di quella: nei casi più convinti i componenti si vestono, si atteggiano, cantano, suonano e parlano come l’originale.
Qui abbiamo Filippo (voce e prima chitarra), Arrigo (batteria), Anthony (seconda voce e chitarra) ed Elia (basso): età diverse fra loro, ma forse è proprio questo il mix che rende il cocktail perfetto.
Il fatto di avere esperienze e influenze diverse li rende in tutto e per tutto simili alla versatilità degli Arctic originali.
La scelta di una band come questa è dettata infatti dalla varietà di generi musicali esplorati di album in album, cominciando dal primo disco del 2006 What People Say I Am, That’s What I’m Not fino all’ultimo, uscito il 21 Ottobre del 2022, The Car. Si tratta di guizzare da generi come il rock al pop, per poi passare al Rythm & Blues.
«Se crei una tribute band dei Queen, devi essere come loro. Non c’è niente da fare. Il bello del nostro gruppo è che non ci impegnamo nel somigliargli, la musica parla da sé. È più importante una somiglianza musicale che visiva» ci dicono.
Ed è proprio così. Stando alla versatilità di una band come gli Arctic Monkeys, si nota perfettamente come attraggano vasti e vari ascoltatori anche in termini di età, proprio come è accaduto con il pubblico presente alle esibizioni degli Arctic Attack, ad esempio all’evento Britwall ma anche al Mura Festival dove sono riusciti a far cantare, ballare e divertire letteralmente CHIUNQUE.
Come non prendersi una birra con loro per metterli un po’ sotto la lente di ingrandimento? Anche perché sono freschi-freschi: suonano insieme da soli due anni.
Perché proprio loro? Come nasce l’idea?
F: Ho pensato: “C***o, fighi gli Arctic Monkeys. Perché non fare una cover band?” Così l’ex bassista che avevamo mi ha seguito a ruota e poi abbiamo messo un annuncio su Facebook. Abbiamo trovato così la seconda chitarra e la batteria.
A: La parte migliore è quando ci chiamano appositamente per suonare. Finalmente in scaletta abbiamo tutto il repertorio, dal primo all’ultimo album. Anzi, ci manca solo l’ultimo. Un’altra idea a cui abbiamo pensato è di fare set in acustico, in ambienti più intimi, al chiuso e suggestivi.
Un fun-fact che ci hanno raccontato è la storia degli occhiali blu.
Abbiamo notato che il cantante ha sempre su un paio di occhiali con le lenti blu quando suonate live, è casuale o è una qualche specie di porta fortuna?
F: Li ha trovati mia madre per terra in un parco, a Verona. Non hanno neanche la stanghetta centrale. Si mantengono su solo grazie al mio naso chilometrico. Alex Turner ha degli occhiali da sole color ambra, io ho questi.
Ha poi girato la storia a suo favore dicendo che, essendo blu, ricordano il freddo, quindi l’artico…ma temiamo che semplicemente non voglia prendersene un altro paio.
E poi si è parlato di sushi.
Infinito: L'universo di Luigi Ghirri
Ciao salmoni! In vista della proiezione del documentario Infinito. L'universo di Luigi Ghirri che si terrà il 18 gennaio alle 21 al cinema Kappadue, è utile fare una breve intro alla sua immensa opera!
Luigi Ghirri nasce a Scandiano (Reggio Emilia) nel 1943 e inizia a fare fotografie a partire dagli anni Settanta. Diventa fotografo di fama internazionale dopo aver lasciato la sua professione di geometra che ha definito la sua concezione di paesaggio e ambiente.
Dagli anni Ottanta si concentra invece su ritratti della Pianura Padana, i territori della (mitica, misteriosa e mistica) bassa veronese che si estende tra le provincie di Mantova e Verona, fino alla campagna emiliana. Ha esposto sia in Italia che all’estero: da Los Angeles a Legnago, da New York a Caltagirone. Nelle sue fotografie è il cielo pieno di nuvole a fare da protagonista, dove i colori sono pastello e la provincia diventa il punto privilegiato da cui osservare il mondo. I paesaggi di Ghirri diventano una geografia dei sentimenti, la marginalità della provincia assume nuovi significati di grazia, malinconia e imprecisione. La sua è una poetica del meraviglioso che dimora nella semplicità e quotidianità, in cui lo spazio è desolato, ma infinito e la luce si fa fioca, ma piena di senso. Si vedono così campi, fiumi, fossi, piazzette deserte, vecchie cascine avvolte dalla nebbia, ma anche malinconiche spiagge emiliane ed alcuni scatti del sud Italia e di viaggi all’estero. I suoi paesaggi diventano quasi metafisici, lasciano trapelare significati altri e più profondi.
Il documentario Infinito. L’universo di Luigi Ghirri è una vera e propria immersione nel mondo dell’artista, è un'indagine dell’uomo e del fotografo.
Il film del regista Matteo Parisini affianca alle parole scritte del fotografo, rese tramite la voce fuoricampo dell’attore Stefano Accorsi, le testimonianze di alcune figure che hanno collaborato con lui. Sono infatti numerose le personalità artistiche che lo hanno affiancato nella vita e nel lavoro. Tra loro gli artisti concettuali Davide Benati e Francesco Guerzoni, il primo stampatore Arrigo Ghi e lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle. Tra le testimonianze anche quella dell'amico Massimo Zamboni, musicista del gruppo CCCP, con cui ha anche collaborato (si veda l’immagine pazzesca in copertina del loro ultimo super album Epica Etica Etnica Pathos). Fondamentali sono le parole dei familiari che rimandano alla dimensione più intima del fotografo. Il pensiero di Ghirri si relaziona continuamente alle immagini e video inediti provenienti dall’Archivio Eredi Ghirri.
Infinito, come tutta l’opera di Ghirri, invita a non limitare lo sguardo e a non porsi confini.
Ed è proprio questo che fanno i veri salmoni: andare controcorrente verso l’infinito e oltreee! Quindi forza, accorrete!
La proiezione si terrà il 18 gennaio presso il cinema Kappadue grazie al lavoro dei grandissimi cinema verona, circolo del cinema, urbs picta e fonderia 209.
Per non farci mancare nulla in sala sarà presente il regista Matteo Parisini e la curatrice della sua opera Adele Ghirri, figlia del fotografo.
Non è lo zoo
Caffè, quattro ciacole, “Circles” di Mac Miller come sottofondo e cominciamo la nostra intervista con i Parco Natura Morta, 100% made in Verona.
No, non è il nome dello zoo scritto male. È un’altra cosa.
Sono Lorenzo, Riccardo, Davide, Michele e Federico, dei quali abbiamo conosciuto di persona solo i primi due.
“Come nasce il gruppo? Vi conoscevate già da prima?”
L: Io, Federico e Michele siamo amici da molto tempo, anche con Davide. Però in realtà io sono l’ultima recluta, sono arrivato due anni e mezzo fa. Il gruppo era già formato, in principio erano quei tre. Prima avevano già un gruppo di stampo indie-rock inglese che poi si è sciolto, poi Federico ha deciso di fare prima un po’ di cover, finché non hanno iniziato a produrre cose inedite e originali. Piano piano, si è aggiunto questo signorino qua..”
R: Io li conoscevo già perché quando suonavo con mio fratello, ci trovavamo alle assemblee di istituto e loro facevano cover band degli Arctic Monkeys, mentre io facevo jazz. Musicalmente ci conoscevamo; era un periodo morto dove io non avevo nessun gruppo e mi arriva la chiamata di provare a suonare con loro, volevano un trombone e mi è partita la tega.
L: Quando mi sono aggiunto, alcuni pezzi dell’EP c’erano già. Poi nel marzo di quest’anno è uscito l’ EP completo.
Quindi suonate insieme da sei anni però non sono sempre stati pezzi vostri.
R: No, all’inizio era solo un provare generico, trovarci giusto una volta a settimana. Dopo è arrivata l’esigenza di uscire, ma dopo tanto tempo, forse dopo 3 anni..ci abbiamo impiegato tantissimo. Avevamo trovato una prima data per suonare ed è stata bellissima: a Bovolone, in un evento che si chiamava Dentro Il Parco Festival, suonavamo sotto un albero, davvero una bella esperienza.
L: Marzo 2022 esce l’EP. Raggruppa pezzi anche abbastanza vecchi. Quasi tutti erano pezzi nati dalla testa di Michele, abbiamo messo un po' del nostro, ci abbiamo lavorato su per tanto tempo e dopo li abbiamo resi un prodotto. R: A volte prendiamo anche pezzi vecchi e li rifacciamo perché ci vengono in mente arrangiamenti nuovi.
Titolo dell’EP? C’è un concept a livello di album?
R: In realtà, dato che in questi anni abbiamo fatto una valanga di pezzi, abbiamo deciso di racchiudere quelli che ci rappresentavano di più nel primo EP che è uscito e che si chiama Parco Natura Morta. Ci rappresenta non a livello di testi ma a livello di suoni: testi sono una cosa un po’ più intima.
L: Sì, i testi sono molto intimistici che sorgono dalle nostre vite, nel senso che sono il frutto di sentimenti, paure, come spesso succede. Il file Rouge è proprio l’espressione dell’intimo, quindi non c’è un concept preciso come altri album, il nostro è pensato secondo un suono che vogliamo portare fuori e scegliamo i pezzi che lo rappresentano in quel momento.
R: Abbiamo scelto il formato EP anche per questo motivo, mentre ora l’idea è quella di fare più avanti un secondo disco al quale stiamo già lavorando, seguire un concept ben specifico e trovare una storia. Il primo è stato più una presentazione.
Dove lo avete prodotto?
R: Qui a Verona, da Murato Records a Perona.
L: Una realtà abbastanza giovane che produce artisti locali.
R: Abbiamo registrato in studio da loro perché all’epoca avevano proprio uno studio fisso lì, ora non c’è più perché vogliono fare più produzione e meno registrazione.
Provate ogni settimana?
R: Magari... per un sacco di anni sì.
L: Ora le nostre vite sono un po’ cambiate, per esempio Michele fa specialistica a Milano e proviamo quando ci siamo.
R: L’idea è quella di riuscire a provare ogni settimana ma è difficile, dobbiamo trovare un equilibrio. Anche per questa esigenza è cambiato anche il modo di produrre che avevamo, mentre prima i brani venivano creati e si evolvevano in saletta, adesso ci siamo approcciando al metodo di registrarci sempre.
Ma il nome del gruppo, invece? Spiegateci un po’ questo fun-fact.
L: Riccardo, questa è roba tua.
R: SI, è roba mia: prima avevamo un nome africano, “I Lunga”. Il nome attuale invece ha una storia molto stupida. MI è rimasto impresso perché una sera, prima di una data con il mio vecchio gruppo, mi stavo fumando una sigaretta fuori da un ristorante e c’era un bambino che continuava a piangere perché voleva andare allo zoo, al Parco Natura Viva.
Questo bambino continuava a lamentarsi e la madre, che a un certo punto ha sbroccato, gli ha detto "Guarda che se non la smetti ti porto al Parco Natura Morta”. Con quest’associazione di parole mi è partito un trip allucinante. Questa cosa, senza esagerare, è successa forse dieci anni fa: io ero ancora alle superiori e questo nome mi è entrato nella testa. Ricordo di aver pensato “Se mai avrò un gruppo che fa musica indie rock italiano si chiamerà così”. All’inizio, quando sono entrato nel loro gruppo Whatsapp, come nome c’era “I Lunga” e il “Parco Natura Morta” gliel’ho non li convinceva tanto quando gliel’ho proposto. Alla fine è entrato nella testa anche a loro.
Queste sono le curiosità che vogliamo sapere per conoscere al meglio chi fa musica. c’è sempre qualcosa di nascosto che viene fuori.
In conclusione, non andate allo zoo ma andate a sentire loro non appena sapremo che sono in giro a suonare da qualche parte.
di: Aurora Lezzi