Di Nicolò Bello e Nicolò Tambosso

 

È Sabato 25 Novembre e noi di Salmon Magazine / Horto, siamo seduti sulla poltroncina da “casting couch” del «The Factory» ovvero l’apprezzatissima sala concerti di San Martino Buon Albergo.

Si tratta della stanza da “recording” che affaccia sulla sala prove dello spazio, una zona che, in occasione dei “live”, funge anche da “Press Room” per i “Big Guests” della “venue” (sì, l’inglese ci fa sentire importanti).

Seduti su due sedie da ufficio (quelle con le rotelle sotto), sorseggiamo due birrette e chiacchieriamo un po’ del più e del meno.

Attraverso il vetro dello studio intravediamo la nostra prossima vittima, gli facciamo un cenno di saluto ma con scarsi risultati…

Decidiamo dunque di prendere il toro per le corna e lo invitiamo ad entrare per fare due chiacchiere face-to-face, lui accetta e lui si siede comodo comodo (speriamo) sulle poltroncine che abbiamo provveduto a scaldare con i nostri rispettabili sederi.

Il set è pronto, l’atmosfera è calda e rilassata, i nostri volti sono distesi e pacifici. Quando siamo certi che il nostro ospite ha abbassato la guardia iniziamo a bombardarlo di domande, senza pietà.

Ciao Davide, approfondendo il tuo repertorio musicale si può notare come la tua penna sia sempre stata molto coerente con il tuo percorso artistico: dai primi pezzi ai brani usciti dopo X Factor, dalla collaborazione con i funk shui project al tuo ultimo album «fusion», sei sempre riuscito a catturare una tua dimensione di scrittura unica e cucita su misura per ogni progetto.

Ora, oggi, nel 2023, dopo quasi 6 anni dal tuo primo album, come vedi la musica con l’occhio di un Davide Shorty cresciuto e maturato artisticamente? Che rapporto hai con il Davide di allora? Cosa gli diresti dopo tutto quello che ti è passato?

Io la musica l’ho sempre vista come un’esigenza piuttosto che come il mio lavoro, è diventato il mio lavoro per forza di cose e ne sono infinitamente grato.

Nella mia vita non mi sono mai fatto troppe domande e ho sempre fatto, oggi invece sto cominciando chiedermi delle cose per la prima volta: cosa voglio raccontare? Cosa sto diventando? Cosa voglio diventare? Chi voglio essere? Cosa ho fatto per generare queste domande?

Non parlo soltanto dell’artista che voglio essere ma soprattutto della persona che voglio incarnare e di come voglio reagire agli eventi che succedono nella mia vita.

Viviamo in una società dove siamo saturati dall’informazione, o meglio, dalla disinformazione. Si fa molta fatica a capire come selezionare le nozioni e come discernere cosa è costruttivo da cosa è distruttivo. Fare un lavoro specifico di selezione di queste informazioni richiede uno sforzo mentale che spesso va al di là della nostra capienza, la nostra salute mentale viene poco tutelata, almeno nel mio caso.

Mi rendo conto, per fare un esempio banalissimo, che tutto ciò che polarizza le opinioni in sole due eventualità, richiede anche uno sforzo dal punto di vista morale non indifferente. Questa moralità delle volte ti piega, perché hai delle immagini molto forti davanti e sei bombardato da parte dei mass media. Diventa complicato proteggersi dalle opinioni precostituite e non lasciarsi risucchiare da questa polarizzazione. Perdere il controllo e la calma è molto facile.

Ecco, con la musica per me è valsa la stessa cosa. L’approccio non è mai stato solamente “vado a divertirmi” o “cerco di canalizzare delle sensazioni”. Ho sempre cercato di tradurre le emozioni più forti delle mie giornate nelle canzoni. La musica è stata la mia terapia e, per la prima volta, mi sta facendo porre delle domande in un momento in cui non è più così automatico quello che voglio raccontare.

Quando ero un immigrato a Londra avevo bisogno di raccontare la storia di un immigrato che fatica ad arrivare a fine mese, che sta imparando una nuova lingua e che sta costruendo un’identità da zero. Oggi questa identità l’ho già costruita e quella storia non è più la mia, adesso sto in Italia da cinque mesi e a Londra vado un po’ meno.

Oggi guardo al Davide del 2015\2016 mentre stavo scrivendo il mio primo disco, «Straniero», con tanta tenerezza. Gli direi di prendere le cose un po’ più alla leggera, senza cambiare nulla di ciò che è passato. Tutto ciò che è successo è stato necessario e mi ha portato qui. Ultimamente sto imparando ad essere grato per tutto.

Molto spesso mi si attribuisce l’etichetta di “artista sottovalutato”. È una cosa che sento dire molto spesso, non soltanto dai miei fan ma anche dagli addetti ai lavori e dalle persone con cui collaboro.

“Ah, ma tu sei molto sottovalutato, ti meriti molto di più di quello che hai”. Prima frasi del genere mi mettevano veramente a disagio e mi ponevano davanti al mio ego e ad un’ambizione non raggiunta, rendendo più faticoso a una parte della mia personalità di esprimersi.

Adesso tendo ad osservare più che a reagire, cercando di vederla da un punto di vista più spirituale, a volte riuscendoci e altre volte no.

Negli ultimi anni l’industria musicale italiana è scoppiata con l’arrivo dell’indie, delle piattaforme di streaming e della musica prodotta dalle ultime generazioni. Una tra queste è l’ondata di RnB/Soul italiano di recente tendenza, cosa ne pensi di questo fenomeno? Credi che sia solo un trend che finirà o che sarà un inizio dove gettare le basi per una nuova cultura RnB/Soul italiana? Il nostro paese è culturalmente pronto per questo fenomeno secondo te?

Io cosa ne penso? Si, penso e spero che possa essere l’inizio di un movimento ma allo stesso tempo credo che ci debba essere più aggregazione in generale nella scena.
Sarebbe bello vedere le persone supportarsi a vicenda un po’ di più.
Io, insieme a Serena Brancale e ad Ainé, abbiamo creato un collettivo che ci ha agevolato a vicenda in un modo o in un altro. Sarebbe interessante vedere questo fenomeno allargarsi e prendere forma, piuttosto che assistere ad una ricerca più personale sul genere come invece vedo fare.

Culturalmente parlando è bello vedere queste nuove tendenze ispirate dall’estero anche se, prima di tutto, credo sia importante capire cos’è e da dove viene quello di cui si sta parlando.

Stiamo comunque realizzando una musica che culturalmente non ci appartiene. Personalmente questo concetto mi responsabilizza e mi fa sentire caricato del peso di non scimmiottare qualcosa che non mi appartiene. Preferisco andare a studiare per restituire dignità a una cultura.

“Porto Mondo” e “Non respiro” sono pezzi molto forti, in cui esprimi chiaramente il tuo pensiero su diversi temi politici e sociali. Quanto è importante per te veicolare messaggi di questo tipo con la tua arte? Credi che la musica, attraverso la sensibilizzazione e l’empatia, riuscirà mai a cambiare le persone? Cosa auspichi che accada nella mente e nel cuore dei tuoi ascoltatori quando cerchi di veicolare questi messaggi?

Penso sia importante nella misura in cui mi colpisce. Nel momento in cui ho bisogno di processare delle informazioni le scrivo. Per me è importante metabolizzare ciò che mi mette a confronto con me stesso. Scrivo tutto ciò che mi da dei dubbi, delle sensazioni forti e mi fa provare rabbia, come per esempio la politica.

Tutto ciò che riguarda la polarizzazione, sono delle cose che, per forza di cose, ti mettono a confronto con te stesso. Sono degli eventi che non possono passare inosservati, con cui è difficile non empatizzare, almeno per quanto mi riguarda.

Quando ho empatizzato con determinate cose mi viene spontaneo scriverne. Per me è importante quanto è importante mangiare o bere. È una cura per la mia salute mentale. È il mio strumento di espressione e mi sento fortunato ad aver trovato quella chiave per poter leggere determinate cose. Soprattutto per poterci convivere perché, ripeto, non è facile trovare un canale di sfogo quando si parla di determinati temi. Alcuni sono argomenti molto forti… Sentire cosa auspichi che accada nella mente di chi ti ascolta non è affatto affare mio.

Nato e cresciuto a Palermo, diversi tour alle spalle e ora vivi a Londra.
Come mai questa scelta? Cos’è che Londra ha che le altre città non hanno?

Io ho sempre seguito la mia curiosità. Mi sono trasferito a Londra perché la prima volta che ci sono andato mi sono sentito libero di esprimermi senza giudizi.
Palermo è una città meravigliosa e tanto accogliente ma quando si tratta di creatività ci sono tanti giudizi, le persone sono abituate a giudicare e a mettersi i bastoni tra le ruote.

Ho avuto la spinta verso Londra perché per la prima volta mi sono sentito compreso, quindi mi sono sentito libero e spinto a studiare e a capire ancora di più di quanto io potessi essere.
A Palermo mi sentivo totalmente un outsider, quasi un pazzo. Non ero compreso ma ero compresso.

E come mai ora ti ritrovi di nuovo in Italia?

Sono tornato in Italia dopo 15 anni perché è andata a fuoco una parrucchiera sotto casa rendendola inagibile. Un evento un po’ straordinario e po’ traumatico che è accaduto in un momento in cui stavo finendo il mio primo anno accademico da professore in “sample based music production and performance”, in un’università a Londra.

Mi sono trasferito a casa della mia compagna per qualche mese, fino a quando non abbiamo deciso di trasferirci giù a Palermo per rallentare un po’, dato che a Palermo la vita è molto più lenta.

 

Nicolò Bello e Nicolò Tambosso