My Norway

Prima mostra italiana della street photographer norvegese Monika Bertheussen. Selezione di 31 fotografie a colori delle strade della Norvergia. Mostra a cura di Laura Cicci De Biase.


GRAN GALA’ DELLA MORTE

 

Parte prima.

Febbraio, 1882

Velluti e tappeti rossi, lampadari in vetro di Murano sui soffitti affrescati, il tintinnio delle porcellane e dei flùte di cristallo, il vociare assordante tra scoppi di risate e il fumo dei sigari che satura l’aria.

Da una parte gli uomini, i notabili con la grana in smoking e bombetta sulla testa. Dall’altra le dame, ingioiellate e profumate come matrone di case chiuse. Là in mezzo c’è pure mia madre, radiosa con una specie di corona in testa. In un angolo, ben nascosto, osservo attento con la mia gemma di liquirizia in bocca. Non ho bevuto niente, qui servono solo bollicine e a me le bollicine stanno sul cazzo.

Le nobildonne ammiccano ai giovani camerieri in livrea che le servono in guanti bianchi e sorrisi splendenti. Tresche ed eccitamenti vari tenuti nascosti tra i pizzi e i merletti delle sottovesti mentre i mariti sproloquiano di affari e politica.

Avviene tutto nel luogo più adatto, siamo a teatro in effetti. La differenza è che non sono circondato da attori, perché qui, intorno a me, stanno i fortunati. Gli scaltri, come li definisco io, quelli che hanno avuto l’accortezza di nascere in una famiglia benestante.

Fuori infatti, c’è solo miseria.

Ma stasera sono qui. L’ha avuta vinta mia madre, ogni tanto devo darle un contentino. I suoi piani per il sottoscritto erano assai diversi. Tutta colpa di mio padre, dice lei, che mi ha traviato con la carriera militare, la guerra, il patriottismo.

Al Filarmonico danno un’opera di Brahms: la Sinfonia Numero Uno.

Un altro crucco.

Due palle.

- Ho sentito molto parlare di lei.

E’ una voce che mi arriva alle spalle. E’ un uomo di mezz’altezza, vestito di tutto punto, gli occhi svegli e due baffetti tirati a meraviglia.

- Spero male, come sempre… – rispondo io allungando la mano.

- Emilio – risponde l’altro stringendola – Salgari di cognome ma visto che lei si fa chiamare solo Mastino, può chiamarmi per nome.

Mi strappa un sorriso.

- Qualche mistero da risolvere? – ammicca alla sala gremita.

- Assecondo mia madre mentre lei dev’essere un appassionato di musica…

- Di pirati e tigri della Malesia, in realtà. Lavoro per la Nuova Arena, il pane lo porto a casa scrivendo anche di serate come questa.

Ci salutiamo, il concerto sta per cominciare. Ci spostiamo dal foyer, prendo mia madre sottobraccio e andiamo a sederci nelle prime file, accompagnati dagli ultimi accordi dell’orchestra.

Bastano i primi movimenti. I tamburi e i violini che li eseguono rendono grave l’atmosfera sin da subito. Dicono che la musica faccia sognare oppure rivivere eventi passati. E’ quello che mi succede perché su queste note così crude l’angoscia mi prende lo stomaco e la mente torna a quella dannata Carica: gli spari, l’odore del terreno intriso di sangue, le schegge delle bombe sparate a qualche centinaia di metri dagli invasori.

Sento le lacrime scendere copiose, sussulto rivedendo mio padre incitare i suoi uomini prima di venir spazzato via da una palla di cannone. Anche la gamba mi fa male, delle fitte lancianti al polpaccio ferito.

Mia madre mi stringe la mano. I suoi occhi sono così dolci, non li ho mai visti così. Non posso non pensare che l’abbia fatto apposta, che mi abbia portato qui per esorcizzare i miei demoni.

La musica di un tedesco vale come mille sedute da uno strizzacervelli.

Trovo sollievo.

Il concerto è finito e mi sento svuotato. Io che odio mia madre e la sua voglia di grandeur, quante volte abbiamo litigato io e lei, a tavola, sul passato glorioso di Villa Giusti.

- Lo Zar Alessandro, Ruskin, Mozart – attacca solitamente lei.

- Goethe e quel cazzo di cipresso in giardino! – rispondo sempre solitamente io per farle del male.

Adesso invece devo qualcosa a questa dama che ancora, tornata nel foyer fumoso, spettegola felice.

- Che le è successo? – mi domanda Salgari.

- Solo fantasmi, grazie – rispondo secco.

- Beva qualcosa di forte, le farà bene.

- Di forte qui non c’è niente.

Sorridiamo entrambi, prima che una richiesta d’aiuto giunga dalla platea.

Sembra sia morto un uomo.

Ma questa è un’altra storia e ve la racconterò la prossima volta.

SmokeySalmon 

biancoenoir

 


Bianco & Noir - Dell’Acqua Morta

 

Verona, gennaio 1882

Succede sempre così.

Mi sveglio nel cuore della notte in un bagno di sudore. La gamba comincia a pulsare così devo alzarmi e camminare. I muscoli allora si sciolgono e la mente cerca di liberarsi da quella nebbia di cui sono fatti i miei incubi. Ma il loro rumore mi resta dentro, suoni che rimbombano nella testa come quello delle palle dei cannoni, gli spari di moschetto, l’attacco all’arma bianca tra le urla e le bestemmie.

Le immagini si sovrappongono.

Sono i volti di quei poveri cristi mangia patate che ho mandato a far visita al diavolo. Visi stravolti dal terrore e dal dolore, la terra umida impregnata di sangue, gli stivali affondati nel fango, lo sferragliare delle baionette con le loro punte affilate che dilaniano le carni.

Mi prendo la testa tra le mani, la scuoto e ansimo alla ricerca di un sollievo che non arriverà mai.

La mia anima è dannata.

Mi vesto in fretta e scendo.

Girovago tra i sentieri e i giardini di Villa Giusti. C’è una bella luna questa notte in un cielo senza nuvole. La sua luce è conforto al mio passo malfermo che fatica sul sottile strato di ghiaccio che qui copre ogni cosa. Il freddo punge come aghi di spillo e le lacrime scendono senza chiedere il permesso. Corrono lungo le rughe profonde che solcano le mie guance.

Sono perfidi questi demoni.

Non mollano la presa nonostante i miei sforzi di cacciarli e di combatterli. Si saranno stufati del solito percorso penso, così esco dalla villa e cammino lungo le strade deserte della città. Le campane di Sant’Anastasia rintoccano quattro volte, ci sono solo io in giro. I miei passi rimbombano lungo i muri dei palazzi che mi osservano silenziosi.

Scendo per le viuzze che portano al canale.

Lo chiamano dell’Acqua Morta e non è solo perché in quel punto l’Adige scopre questo fratello minore che lo affianca per un breve tratto. Intorno si è costruito dappertutto: abitazioni fatiscenti che gli si affacciano sopra e al fianco, una tavolozza di facciate di ogni colore e gradazione, sovraesposti e mescolati tra loro come il tanfo di escrementi e acqua fetida che salgono al cielo sotto le sembianze di una nebbia leggera.

Due piccole barche galleggiano quiete seguendo la lieve risacca del fiume.
Albeggia, la luce trema e fatica a prendere il posto della notte. Poi però, il cielo si tinge di un rosa leggero.
Dal taschino della giacca tiro fuori una sigaretta e una liquirizia. Accendo l’una e poi ficco in bocca l’altra.
Più avanti, sul Ponte Navi, c’è un uomo seduto sul parapetto.
Mi avvicino e rimango in silenzio.

L’uomo è vestito di stracci e puzza di vino. Gli manca un braccio e fa dondolare le gambe sopra le acque del fiume.

Mi guarda ed è questione di un attimo: in fondo a quegli occhi trovo la disperazione. Gli allungo una sigaretta, lui la prende e sbuffa il primo tiro che si perde nell’aria gelida.

- Ho perso una gamba – gli dico in un sussurro.
- Maledetta guerra – mi risponde facendo ballonzolare il moncherino.

Non servono tante parole.
Siamo due disperati.
Fratelli d’ombre.

- Mia moglie se ne è andata questa notte – mi dice lui sbuffando il fumo dal naso. Un colpo di tosse lo scuote – Polmonite – conclude, scuotendo la testa.
- Perché sei qua? – domando.
- Perché ho perso la speranza.

Per due reduci menomati la vita dopo la guerra è un inferno. Si è guardati con compassione e i ricordi della violenza fanno impazzire.
Il monco mi osserva: i suoi occhi sono una supplica.
Le ho capite fin da subito le sue intenzioni ma a quest’uomo manca il coraggio.

La mia mano si appoggia sulla sua schiena.
Ci guardiamo mentre gettiamo i mozziconi giù di sotto.
Il suo cenno silenzioso sa di ringraziamento.
Una spinta leggera.
Poi continuo sulla mia strada.

Ho bisogno di bere ma è ancora presto, la città fatica a svegliarsi.

Percorro via Cappello, supero la casa di Giulietta e attendo fuori dal Cafè Noir. Le campane rintoccano nuovamente, scandiscono un tempo che per me è irrilevante. Sento una lacrima bagnarmi le labbra ma forse non ho mai smesso di piangere. Nonostante tutto però, questa notte, so di aver fatto la cosa giusta.

SmokeySalmon 

biancoenoir


Bianco e Noir - BruJel

 

“Bianco e noir”, Verona: una serie di racconti a puntate. Dagherrotipi e litografie, vecchie foto in bianco e nero: ovviamente Verona, due secoli fa.
Ogni foto nasconde un mistero: l’ispettore Mastino Giusti è il protagonista.
Il Cafè Noir è la sua base, la grappa e le api le sue passioni.
Di più non posso svelare, perché sennò fate i furbi e non leggete.

 

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Gennaio 1882

Faccio scorrere le sbarre di ferro.
Entro in una stanza minuscola che conta solo una brandina, un lavandino e un buco per i bisogni nell’angolo.
La cella è vuota.
- Spariti nel nulla – mi dice il secondino.
- Spariti? – domando sorpreso.
- Entrambi. Il prete e la guardia.

L’Ispettore Martini non sa cosa dire.
L’agente Marogna mastica bestemmie.
Don Giudo Canossa l’avevo fatto metter dentro io. Un caso spinoso che mi era costato una quasi scomunica e gli sberleffi dell’intero corpo di polizia. Poi le vittime si erano fatte coraggio e avevano denunciato: il prete era uno strozzino.
Ma ora era sparito, scomparso nel nulla.
- Qualche informazione in più? Che mi dici della guardia? – domando scoraggiato.
- Nessun segno di fuga, l’agente Filippi era vedovo e a casa sua non c’è nessuno – mi risponde Martini.
- L’orologio del prete è sparito. – s’intromette il secondino - Non manca nient’altro.

Ho il viso e le mani congelate mentre cerco riparo sotto i portici.
Impugno la fiaschetta di grappa. Dalle mie labbra esce fumo, il tabacco mescolato all’aria gelida trasforma la liquirizia che ho in bocca in una fredda gemma.
Ci sono casse e fieno accatastati nel centro di Piazza Brà. Sfidano la gravità elevandosi per una ventina di metri da terra. Tra poco si brucerà tutto e la direzione che prenderà il fumo darà indicazioni sul nuovo anno. Un’usanza antica che c’entra poco con la città penso, mentre intorno a me si accalcano i notabili, la media borghesia e i militari.

Il brujel è un rito pagano e a me riti pagani piacciono parecchio.

La folla preme, i bambini scalpitano attirati da tutto quel circo, i poliziotti faticano a mantenere l’ordine. Scorgo Martini e Marogna e i loro volti rabbiosi. Mi fanno pena, quasi pena.
Sei tocchi di campana risuonano in lontananza mentre una debole luna appare tra nuvole erranti che seguono il moto dei venti.
Il fuoco viene acceso.
La folla batte le mani, la catasta ha preso fuoco senza indugi.
Alzo la fiaschetta in un cenno silenzioso al brujel e butto giù un gran sorso.
In quel momento urla paurose squarciano l’aria.

La folla arretra, le donne impaurite portano via i bambini, gli agenti scattano verso il fuoco. Mi butto avanti anch’io mentre i primi secchi d’acqua vengono buttati sulla catasta incandescente.
Tra le fiamme vedo un corpo o almeno quello che ne resta.
- Ho visto brujel migliori – sorrido all’agente Marogna.
Mi risponde smadonnando mentre deposita un corpo rinsecchito sui sampietrini. L’odore di carne bruciata è nauseabondo così mi porto un fazzoletto alla bocca mentre osservo i resti di un rosario appeso al collo della vittima. Ci sono due iniziali incise sopra – E’ il prete? – mi domanda Martini con la faccia annerita e le mani ustionate coperte da bende.
- No. E’ lo strozzino – rispondo.
Del prete, Guido Canossa, aveva solo il Don.

Sento che qualcuno mi sta osservando.
E’ da un bel pezzo che provo questa sensazione, diciamo da quando mi sono avvicinato alla vittima. Così mi alzo e mi guardo intorno, nella piazza ormai non è rimasto che qualche curioso. Uno di questi attira il mio sguardo, sta sotto il grande orologio dei Portoni e rigira nella mani un oggetto. Lo fa saltellare nella mano.

- Gran bell’orologio – gli dico fermandomi al suo fianco.
- Era di mia moglie – mi risponde l’uomo guardando alla piazza.
- Gliela hai fatta pagare - continuo mentre gli passo una sigaretta.
L’agente Filippi l’accende e mi consegna l’orologio, la prova di un amore e di un delitto.
- Ho fatto un sacco di debiti. Mia moglie si è tolta la vita per la vergogna: un marito malato dal gioco e un confessore strozzino. Quell’orologio – continua – Don Guido lo ostentava di continuo, era il suo modo per ricordarmi che ero nelle sue mani.
- Ora non più.
- Mai più.

SmokeySalmon 

biancoenoir


Bianco e Noir - Il mulino sull'Adige

“Bianco e noir”, Verona: una serie di racconti a puntate. Dagherrotipi e litografie,
vecchie foto in bianco e nero: ovviamente Verona, due secoli fa.
Ogni foto nasconde un mistero: l’ispettore Mastino Giusti è il protagonista.
Il Cafè Noir è la sua base, la grappa e le api le sue passioni.
Di più non posso svelare, questo è il primo episodio.

 

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Verona, gennaio 1882

La donna è stesa a terra.
Gli occhi sbarrati, la bocca spalancata. Mi accuccio e seguo con le dita i solchi profondi che le segnano il collo. Nella stanza il silenzio viene interrotto dai singhiozzi dell’uomo che seduto a capotavola, si tiene il volto tra le mani.
Mi alzo e mi avvicino all’assassino. Puzza di alcool, il suo fiato è distilleria e la bottiglia di vino sul tavolo lo accusa senza appello.

Le bimbe piangono in un angolo.
Sono due angeli biondi, tristi e sporchi. La nonna le tiene per mano e mi guarda: due occhi duri che sanno di inedia, disperazione e povertà. Suo marito è sulla porta: fermo, con i pugni serrati dalle nocche sbiancate.
E’ stato lui a chiamarmi, ci conosciamo da tempo. Mi ha visto crescere, nel giardino di Villa Giusti si trattava la lana e lui era uno dei migliori. Tanto che un giorno ci lasciò per un suo mulino lungo il fiume. Una sua attività, la sua conceria.

Gli austriaci se ne sono andati da poco.
A calci in culo.
La polizia è cosa nuova, i càna sono guardati ancora con sospetto: non si capisce quale sia la loro autorità. Quando penso all’ispettore Martini e al suo fido Marogna non la capisco nemmeno io. Di quest’ultimo salvo i suoi ceffoni simili a badilate e le bestemmie che articolano le sue raffinate conversazioni. Dell’ispettore non salvo nulla; a meno che l’inutilità non abbia un valore.

A Verona mi conoscono.
Investigatore dal cuore duro, dicono. I sentimenti infatti non mi appartengono, li ho persi in battaglia insieme a buona parte della gamba destra. Chiamano il Mastino perché gli basta un attimo per riconoscere il colpevole e perché lascia che la giustizia segua il suo corso: occhio per occhio, dente per dente.
Poi, tutti a casa propria.

La nonna se ne va con le due bimbe.
Nessuno saluta l’uomo che ancora piange seduto in fondo alla stanza. Il padre della donna uccisa mi guarda, attende un mio cenno di assenso. Tiro fuori il tabacco, preparo una sigaretta e metto in bocca una liquirizia. Sbuffo il fumo dalle narici e lo osservo salire verso il soffitto. Lo sguardo poi, passa dal cadavere al marito che attende la sua punizione, dal nonno che non vede l’ora di dargliela all’Adige che segue il suo corso. Lo stesso che deve avere questa maledetta vicenda.
Faccio un cenno con la testa.
Questo caso è già risolto e la legge del taglione sta per essere applicata.
Così esco e attendo che tutto sia finito.

L’urlo giunge soffocato.
Un triste epilogo di cui tutti ne eravamo a conoscenza.
Il rumore dei vetri in frantumi anticipa quello del tonfo del corpo nell’acqua. Lo vedo galleggiare solo un attimo, il rosso del sangue tinge le correnti che inesorabili lo portano sotto, a far compagnia ai pesci.

- Ti sei ferito – sussurro al padre che è appena uscito di casa.
Nella sua mano intravedo quello che resta della bottiglia.
- Giustizia è fatta – mi risponde mentre le prime lacrime gli solcano il viso.
Sono lacrime di dolore, amare. La responsabilità di quei due angeli sporchi, l’indigenza dietro l’angolo, una figlia morta ammazzata e un genero ucciso per vendetta.

- Non importa quanto in fondo sei sceso – lo conforto – Se resti vivo, prima o dopo torni a galla.

La sera sta calando sulla città.
Nell’anima sento un tormento difficile da spiegare. Le immagini della giornata si sovrappongono in un caleidoscopio di miseria e violenza.
Si gela.
Semplicemente.

Rientro alla villa.
Del grande giardino non scorgo nulla, l’oscurità avvolge tutto.
Anche le mie api riposano aspettando tempi migliori.
Li attendo anch’io, con un bicchiere di grappa in mano.

 

 

 

biancoenoir


Disincanto di Natale - Bianco e Noir

 

“Bianco e noir”, Verona: una serie di racconti a puntate. Dagherrotipi e litografie,
vecchie foto in bianco e nero: ovviamente Verona, due secoli fa.
Ogni foto nasconde un mistero: l’ispettore Mastino Giusti è il protagonista.
Il Cafè Noir è la sua base, la grappa e le api le sue passioni.
Di più non posso svelare, questo è il primo episodio.


Verona, 24 dicembre 1881.

I rintocchi della campane risuonano cupi mentre la processione si avvia lungo il viale del camposanto. I corvi svolazzano sopra le nostre teste, impeccabili nei loro smoking neri. Alzo il bavero del cappotto e abbasso la tesa del cappello di lana grezza. Stringo gli occhi per proteggermi dal turbinio della neve che scende portata dal vento e serro la presa sul mastino d’argento che sormonta il bastone d’ebano scuro. Chiudo la fila, fatico con il mio passo malfermo, gli scarponi lottano con il fango che m’inzacchera i pantaloni.
Al mio fianco Marogna cammina con il suo grugno duro, gli occhi arrossati e il respiro che si perde in nuvole di vapore. Un suo caro amico, un càna come lui, è stato trovato morto in casa sua, due sere fa.

Più avanti c’è la fossa che attende il nuovo inquilino. Intorno pochi parenti, canuti devoti che stringono il rosario e l’Ispettore Martini. La vedova è avvolta in una veste scura e il velo che le copre il viso si alza ad ogni folata di vento. I suoi occhi, neri come il cielo che incombe sopra di noi, sono più freddi di questo vento che ci sbatte contro. Il suo sguardo mi regala un brivido che percorre la schiena.

Non vedo lacrime. Ognuno di noi elabora le perdite in maniera diversa: c’è chi si dispera, chi sospira alla vita che verrà dopo la morte, chi brinda al defunto. Lei, la donna in nero, non lascia trasparire nulla.
- Mastino… – mi sussurra Marogna – Manca il fratello.
E le sue parole risuonano come il peggior atto d’accusa.

Il prete sproloquia sulla caducità della vita. Le preghiere riempiono l’aria in questa vigilia di Natale. E’ buffo, penso, in un giorno che prelude alla vita stiamo celebrando la morte.
Sarà il mio sesto senso ma quell’uomo è stato ucciso.
In pochi qui lo sanno, a parte me s’intende.

Il cielo si fa ancora più scuro portando nubi cariche di gelo. La cerimonia è finita, la bara viene calata nella buca e le litanie di rito accompagnano i becchini, attori consumati che portano a termine il loro lavoro.
Il suono che giunge annichilisce.
Non mi resta che render giustizia al morto, per questo mi hanno chiamato: sistemo sulla Terra quello che più avanti toccherà a Dio giudicare.

- Seguimi – sussurro a Marogna mentre ci incamminiamo verso casa.
La vedova ci precede, ha il passo spedito, la camminata di chi ha qualcosa da nascondere.
Le stiamo dietro, faccio fatica ma non mollo.
La donna svolta a destra, traffica con le mani nella borsetta ed entra in casa.

L’Adige sotto di noi scorre tumultuoso.
Siamo dello stesso animo, io e Marogna.
- E’ casa loro – mi dice l’agente.
Non ha ancora elaborato il lutto, il suo collega ora abita al Monumentale.
- Lo so – rispondo.

C’è una locanda lì vicino.
Propongo un brindisi in onore del defunto. Prendo il bicchiere e mi verso una dose abbondante di grappa. La sento scendere ad infiammarmi gli intestini: riprendo colore, calore, forza.
Marogna fa lo stesso.
Beve ma è come se non sentisse nulla.

La grappa rinfranca.
Così torniamo in strada mentre il vento sibila rabbioso.
- Passiamo dal fratello – propongo avviandomi.
C’è un dubbio che m’assilla. Se troverò la risposta che cerco questo caso sarà chiuso.
Marogna non capisce. Non è colpa sua, alle volte proprio non ci arriva. E’ un campagnolo al quale hanno fatto indossare la divisa. L’acume non gli appartiene ma i suoi sberloni sono un’arma micidiale.
- Non possiamo andare subito da lei – dico come a spiegargli un’ovvietà.

La casa del fratello non è distante.
Saliamo al piano e non troviamo nessuno.
E’ la conferma che cercavo.
- Dalla vedova – dico all’agente mentre torno sui miei passi.

Non c’è bisogno di bussare.
Da dentro la casa giunge un lieve sussurrare.
- Buttala giù – ordino a Marogna che mi guarda stralunato.
E’ una frase che è un invito all’azione, al càna basta un calcione e la porta s’abbatte sul pavimento insieme a cardini e calcinacci.
Un botto tremendo.

Solo per noi a quanto pare.

La donna infatti non si scompone.
Non ci degna di uno sguardo.
Sullo sfondo un camino acceso rischiara una stanza spoglia che odora di muffa e di chiuso.
Mi aspettavo di trovarli insieme, la vedova e il fratello.
Ma di certo non credevo di vederli in questa situazione.
L’uomo infatti è imbavagliato, stretto da corde che gli imprigionano braccia e gambe ad una sedia. Lo sento mugolare, atterrito.
Ci credo che se la stia facendo sotto.
La vedova nera ha un coltello in mano.

Accade tutto in un attimo.
Assisto come in un brutto sogno a Marogna che le si getta contro e la immobilizza. Il coltello vola lontano mentre il prigioniero, in un riflesso condizionato dalla paura, si butta all’indietro e vola a terra con la sedia.
Sbatte la testa, una tega tremenda.
In un attimo sono sopra di lui, pronto a dare un soccorso che non serve perché il colpo gli è stato fatale.

- Era il fratello – conferma Marogna tra una bestemmia e l’altra.
La donna confessa tra le lacrime: il matrimonio finito ancor prima d’iniziare, la passione per l’altro uomo che però non la corrispondeva.
La follia l’ha portata ad uccidere due persone.

Brutta faccenda le tresche amorose.
Se consumate in famiglia diventano tragiche e non è questione di statistiche: la realtà dei fatti è più che evidente.
Poi c’è la follia alla quale non si può dare spiegazione.
Così metto in bocca una liquirizia, prendo il tabacco dal taschino della giacca e mi preparo una sigaretta.

Villa Giusti è casa mia.
Fervono i preparativi del Natale: cenone con la nobiltà veronese.
Mia madre ha organizzato tutto nei minimi dettagli.
Mia madre…
Il rapporto con lei assomiglia a quello di un eroe che sfida l’Idra: c’è sempre una nuova testa da tagliare, una nuova incomprensione da risolvere, un nuovo litigio da intraprendere.
Non andiamo d’accordo.
Mai.
Nella carica di Custoza ci ho rimesso una gamba e ho perso mio padre, il Generale. Lottavamo per valori più alti di un tè nei salotti del Caffè Dante.
Quei crucchi bastardi me l’hanno ammazzato.
Una palla di cannone ha frantumato le nostre vite.

Sento le campane del Duomo suonare.
La mezzanotte è vicina e la cena è già iniziata.
Io ho altre cose a cui pensare.
Alla grappa per esempio.
E ai miei demoni privati.

Smokey Salmon

biancoenoir