Dopo attori-autori del calibro di Bergonzoni e Battiston, la rassegna l’altroTEATRO si conclude con due militanti della comicità fuori dagli schemi.

Antonio Rezza e Flavia Mastrella collaborano da decenni nella produzione di spettacoli teatrali che fanno della corporeità e del movimento nello spazio la loro chiave comica. Nell’habitat creato dalle installazioni di Flavia Mastrella, Antonio Rezza si sposta in modo anarchico interpretando storie di mimica senza una vera trama.

Uno scatto di Antonio Rezza durante Anelante.
Uno scatto Antonio Rezza

L’ultimo spettacolo si intitola Anelante, è stato accolto dalla critica con favore e stasera sarà in scena al Camploy. Ma per capire qualcosa di più, noi Salmoni abbiamo voluto fare due chiacchiere con Antonio Rezza sul teatro, il cinema, gli attori e la minacciosa era del “parassitario”.

Anelante ha debuttato nel 2015 a Torino e l’avete poi portato in molte città d’Italia, come Roma, Milano, Bologna e addirittura stasera a Verona grazie alla rassegna l’altroTEATRO. Secondo te a cosa è dovuto il successo del vostro spettacolo?

Non so se si può parlare di successo. È successo perché, come dici bene, qualcosa in questo caso è successo. Sicuramente dipende dal percorso che abbiamo affrontato io e Flavia da trent’anni a questa parte, dall’irriducibilità che ci viene riconosciuta. Poi Anelante è il primo spettacolo in cui siamo in cinque sul palco… è un percorso nuovo. Il successo è dovuto al fatto che noi cambiamo strada ogni volta e chi viene a vederci se ne accorge.

E cos’ha appunto di innovativo Anelante rispetto agli altri spettacoli?

Rispetto ai nostri altri spettacoli, c’è la ricerca verso una coralità che non avevamo mai raggiunto prima. Perché, non facendo recitare gli attori che sono piuttosto dei perfomer, è più difficile per noi curare uno spettacolo corale. Invece, di innovativo rispetto al teatro corrente ha tutto, perché il teatro corrente non lo è abbastanza.

Nella scheda di presentazione di Anelante e degli altri spettacoli si legge: “(mai) scritto da Antonio Rezza”. Non scrivi testi per i tuoi spettacoli?

Non possono essere scritti: vengono prima fatti col corpo, quindi con la parola, che però è un’intenzione del corpo negli spazi che Flavia Mastrella realizza. Solo dopo vengono scritti. Sarebbe impossibile altrimenti: chi scrive prevede; chi si stanca e si sfianca non ha il tempo della previsione. Per me questo è un criterio molto più onesto.

Allora non è tutto affidato alla memoria…

C’è una scrittura alla fine. Io posso ricordare tranquillamente le migliori cose che ci vengono in mente, non serve che le scriva. Poi alla fine, prova dopo prova, vengono scritte perché bisogna rendere il testo più armonico, ma non è un testo che nasce dalla penna. A quei livelli di sforzo non sarebbe possibile. Piuttosto nasce dallo spazio che realizza Flavia Mastrella e impone, non volendo, al corpo un determinato movimento, poi il corpo in movimento crea un suono disturbato. Quindi non si può parlare di quello che io dico senza parlare dello spazio che Flavia realizza – per sé, non per me.

In effetti, sarebbe stata la mia domanda successiva. Da sempre collabori con Flavia Mastrella che con le sue sculture e installazioni costruisce le scenografie dei vostri spettacoli: quanta parte giocano queste nella creazione del lato più teatrale dello spettacolo?

Sono fondamentali. I nostri meriti si dividono a metà nella creazione. Poi quando mancano tre mesi montiamo insieme lo spettacolo come se fosse un film, quindi viene tolto tutto quello che non ci convince e fatto spazio al ritmo. Senza quello spazio io non mi divertirei a muovermi, quindi sono completamente dipendente dalle sue sculture. Dipendiamo uno dall’altro ma in modo anarchico a livello di relazione: nessuno può dire all’altro quello che fa.

Dato che li nomini, voi avete fatto anche film e corti insieme, per altro con un montaggio decisamente sperimentale. Qual è la cifra che accomuna i vostri film e il vostro teatro?

Sicuramente la musica, il ritmo. E ciò che si avvicina di più a questi è il montaggio cinematografico. Noi nasciamo col teatro e col cinema nello stesso momento, solo che il cinema è meno libero del teatro. Quando ci siamo accorti che, non volendo sottostare ad alcun compromesso, il cinema sarebbe stata la strada più difficile, abbiamo deciso di fare teatro con un metodo cinematografico e continuando comunque a fare cinema. Per esempio, faremo uscire i film che abbiamo girato negli ultimi 15 anni quando vogliamo noi. Diciamo che il teatro è più libero rispetto al cinema, non so ancora per quanto tempo, però lo è.

Cioè è stato per una necessità pratica?

È stata una scelta intelligente credo… Il film che abbiamo appena fatto, quello su Via Padova, lo stiamo distribuendo in modo indipendente. Stiamo andando contro ogni logica perché da indipendente tu non ti puoi distribuire un film, ti viene impedito… dovremmo farlo anche a Verona.

Certamente. Di recente infatti è uscito il vostro documentario Via Padova è meglio di Milano: da cosa è nata la volontà di fare un documentario e questo documentario in particolare?

Delle inchieste-interviste le facevamo già ai tempi di Rai 3 (con Troppolitani, ndr). Poi ce l’hanno letteralmente impedito, perché, nonostante avessero un grande ascolto, davano fastidio. Noi però abbiamo continuato con dei progetti nostri. Nel caso di Via Padova, la Fondazione Bertini, che ha coprodotto l’opera insieme a noi, ci ha chiesto se volevamo, durante i giorni in cui c’è la festa “Via Padova è meglio di Milano” a Milano, girare qualcosa in Via Padova intervistando le persone che capitavano a tiro: la maggior parte erano extracomunitari e meridionali, perché i milanesi lì non ci sono. Quindi abbiamo raccolto questo stimolo e l’abbiamo trasformato… Per noi se lo stimolo nasce da qualcun altro è anche più divertente.

Cosa ti ha colpito di più?

Per un lavoro del genere, più che di quello che accade, devi occuparti del movimento e dell’energia che si respira intorno. Poi in fase di montaggio ti accorgi di quello che è stato detto. Lì togliamo le incertezze agli intervistati: non vogliamo ridicolizzare l’intervistato, ma l’intolleranza. L’intolleranza sembra una barzelletta per come l’abbiamo sbeffeggiata noi. Però si rimane toccati da certe osservazioni. Sembra sempre impossibile che uno dica le cose che vengono dette nel film, che certe cattiverie siano vere… Si ride tantissimo eh, ma ci sono anche cose agghiaccianti.

I vostri spettacoli sono appunto soprattutto comici, attraverso la mimica e la corporeità. Secondo te oggi la comicità può avere un ruolo sociale?

Certo, lo ha sempre avuto. Il nostro tipo di comicità è una comicità che smotta, che sposta lo spettatore dalla sedia. Quindi non è una comicità di battute e di freddura, si muove per altre linee. È più difficile sicuramente far ridere in un certo modo che fare gli attori. Gli attori passano da uno stato d’animo all’altro senza nessun pudore. Io disprezzo spesso gran parte di quella categoria.

Immagino che non ti consideri un attore.

Io faccio il perfomer. Io faccio un lavoro ben più tecnico. Me ne frego di come sto e di come stanno gli altri. Se un attore passa dalla tristezza a interpretare un santo, a interpretare poi, che ne so, uno che alza il pugno, è schizofrenia: non puoi credere in quello che interpreti… è finzione, è menzogna, è mercenarismo. Io questo penso degli attori spesso. O sei un attore come Gian Maria Volonté e quindi sconfini nell’atto performativo, ma se sei un interprete… insomma, non riesco a capire come si possa passare da Pasolini alle fiction. O sei schizofrenico o stai in malafede.

Ok, quindi non corre buon sangue con la categoria…

In realtà, ci sono attori che stimo perché relativizzano tutto questo. Per esempio, sono molto amico di Neri Marcorè. Lui fa un discorso che non è identico al nostro, però lo fa con disincanto, con distacco. Relativizza quello che fa: sa che fa l’attore di certe cose per poi passare ad altre, però è il primo che dice che lo fa perché si diverte. Non c’è malafede sotto. Io mi riferisco ad altre persone che usano questa schizofrenia interpretativa per trarre vantaggi rispetto a quel che valgono, ecco.

Per concludere, in un corto intitolato Preaoccupatio dici: “Mentre il terziario si afferma, noi viviamo ancora nel parassitario, periodo storico trappola”. Come definiresti il nostro attuale periodo storico?

Quello è un corto del ’94, neanche me lo ricordavo. Beh, il parassitario è un’era che non finirà mai. Credo che ci siamo ancora.

Non c’è scampo al parassitario…

Io penso sempre che l’arte sia la risposta più violenta alla politica. L’unica alternativa possibile al sottopensiero politico. Se questo essere parassiti investe anche l’arte, allora bisogna essere veramente cattivi con chi è parassita. E penso che siamo invasi da gente che non capisce che l’arte va esercitata in un altro modo.

 

Giò Girardi in Salmon