Qualche giorno fa, risvegliati dal tepore del primo sole di marzo, si è deciso di cogliere l’ occasione per andare a camminare sulle montagne ancora coperte dalle nevi invernali; pedule, maglioni di pile, borracce e panini dal salumiere, poi via in salita verso i dolci pendii della Lessinia.
Ecco che, come sempre durante una passeggiata, la mente umana carbura a gran velocità ed inevitabilmente sorgono domande che spesso allontaniamo, questioni esistenziali della serie “chi sono? Da dove vengo e dove sto andando?”: una volta arrivati alla meta, con ogni probabilità la Malga di passaggio, si rompe il magico silenzio che avvolge la montagna e la voglia di condividere queste riflessioni la fa da padrona. Ed è proprio così che, birretta alla mano e panino con soppressa nell’altra, ci siamo chiesti quale ragione ci spingesse a camminare fino al tal rifugio per poi girare i tacchi, o meglio le pedule, e tornare in città, senza uno scopo apparente, senza riportarsi indietro un qualcosa di tangibile che giustificasse la nostra fatica ed il nostro tempo speso là.
Insomma, quale scopo, quale soddisfazione spinge l’ uomo a caricarsi uno zaino in spalla e camminare?

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Cominciamo delineando il contesto in cui è nato il camminatore moderno: fino al XVIII secolo si viaggiava a piedi solo per motivi religiosi o di lavoro; tutte le altre camminate di più giorni erano vagabondaggi. Poi subentrò una distinzione di classe: se vai a zonzo e sei di buona famiglia allora sei un eccentrico, un artista, forse addirittura un pensatore. Se invece stai per strada e sei del popolino, allora sei un criminale, un accattone, un fuggiasco. E’ solo con il XX secolo, e specialmente dopo la Grande Guerra, che il camminare diventa uno svago per il tempo libero di tutti, compresi i ceti meno abbienti: ne sono un esempio i boy scout inglesi (1907), l’ Unione Operaia Escursionisti Italiani (1911) o l’ Associazione Proletari Escursionisti (1919). La Grande Guerra d’altronde è uno spartiacque culturale talmente importante che nemmeno la viandanza poteva sfuggirle: al termine di essa si impone in tutta Europa il modello economico capitalista e la ricostruzione dei paesi dilaniati dal conflitto è affidata ad una sempre più pervasiva attività industriale, nel segno della quale le grandi città rinascono profondamente cambiate sia sul piano urbanistico che su quello prettamente sociale. Così, mentre da un lato aumentano le tensioni sociali ed acquisisce sempre maggior rilievo il lavoro che permette di entrare di diritto nella nuova ‘società dei consumi’, dall’altra si fa sempre più evidente in ampi strati della popolazione europea un senso di malessere rispetto alle condizioni lavorative, alle effimere possibilità di svago presenti nelle nuove città, ai nuovi miti proposti nel mondo occidentale ormai del tutto secolarizzato.
Emergono così un nuovo culto del tempo libero ed una progressiva attrazione verso gli spazi ed i tempi che non hanno ancora subito le grandi trasformazioni dettate dall’uomo moderno: “Giova trovarsi in luoghi dove l’uomo è piccolo e Dio è grande: l’immagine della sua grandezza è impressa sul volto della natura. In città tutto è uomo, e uomo soltanto. Egli sembra muovere e governare ogni cosa, ed essere la Provvidenza delle città”. Queste le riflessioni del reverendo inglese Sidney Smith a cavallo tra XIX e XX secolo, nelle quali l’elemento religioso si fonde con una più generale insofferenza verso le città industriali, dove il tempo non è più scandito dal naturale alternarsi delle stagioni e di notte e dì, ma dagli orari di lavoro necessari per ottimizzare la produttività, dove le grandi costruzioni dell’uomo delineano lo spazio circostante celando l’immenso progetto architettonico che è la Natura. E’ perciò per riappropriarsi di spazi a cui non apparteniamo più che noi topi di città sentiamo la necessità di rientrare in armonia, almeno sporadicamente, con la natura: è qui che, dimenticati gli smartphone, messe da parte l’ansia e le futili distrazioni di ogni giorno, riusciamo a riordinare le nostre priorità ed a renderci conto del poco che basta per vivere con serenità. Ma perchè non raggiungere il rifugio di montagna, il casale in collina, il faro sulla scogliera in automobile? Perchè camminare?

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Rieccoci dunque ad affrontare il quesito di partenza, ed è il momento di abbozzare delle risposte: Charles Dickens scrisse che “nessuno può vedere, sperimentare, o pensare come chi viaggia contento con le proprie gambe”. Questa frase riassume perfettamente l’unicità ed il valore dell’ esperienza del camminare: il viandante cammina perchè in questo modo si regala immagini dettagliate e con le giuste proporzioni, perchè sperimenta il funzionamento di tutti i sensi, tesi per registrare perfettamente ciò che sta attorno, ed infine perchè pensa, riflette più che in ogni altro contesto ( per obiezioni a quest’ultimo punto rivolgersi ad Aristotele ed alla sua scuola peripatetica). D’altronde camminare è un’ azione insita all’uomo come e più che parlare, e se la storia della nostra evoluzione è segnata dalla decisione, consapevole o meno, di erigersi sugli arti inferiori e di porre un piede avanti all’altro significa che questo gesto ha un valore fondamentale nella nostra esistenza: guarda un uomo camminare, e guarda come egli rivela il proprio orgoglio, o la determinazione, la tenacia, la curiosità, o addirittura il proposito che ne guida l’incedere. Incontro al proprio destino non ci si può andare in treno, in macchina, ma solamente camminando; a questo proposito lo scrittore Paolo Cognetti ne Le otto montagne, libro per gran camminatori ed amanti della montagna, mette in bocca al giovane protagonista Pietro questa riflessione, a cui egli arriva durante un’ escursione in quota: “il passato è a valle, il futuro a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa”. Ecco perchè, in definitiva, ci piace caricarsi uno zaino in spalla e camminare in montagna.