Civitanova Marche 06.08.2022: il primo corteo antirazzista d’Italia

Sabato 6 agosto, insieme ad altre centinaia di persone provenienti da tutta Italia sono stato a Civitanova Marche per commemorare Alika Ogorchukwu e denunciare il razzismo sistemico alla base del suo assassinio.
L’intenzione era quella di scrivere una sorta di reportage della manifestazione, ma la complessità di quello che è accaduto avrebbe richiesto tempi di elaborazione ben più lunghi per evitare racconti sterili o parziali. Ciò che ho potuto fare invece è stato riflettere sul mio ruolo di bianco, antirazzista, che forse, sabato ha partecipato al suo primo corteo antirazzista in Italia. Eppure di manifestazioni antirazziste ne ho fatte tante. Cosa è cambiato sabato? Certo, forse per la prima volta in Italia l’organizzazione e la conduzione di una manifestazione nazionale antirazzista è stata portata avanti completamente da persone razzializzate. Ma non è solo questo il motivo.

Sabato, per la prima volta, ho potuto davvero riflettere sul mio ruolo di “alleato” nell’antirazzismo. Il termine “alleato” ha tante declinazioni antropologiche e politiche nella storia dell’antirazzismo. Una di queste, credo sia molto importante in questi giorni per chi, da bianco, si occupa di antirazzismo. Questo termine è “straniero”, una parola che al netto dei suoi usi impropri e stigmatizzanti dell’ultimo periodo, ha un potenziale politico e di azione potentissimo.

“Civitanova mi ha offerto l’occasione per rendermi conto del privilegio e della responsabilità che deriva dal mio essere “straniero” rispetto all’antirazzismo.”

Ma soprattutto la giornata di ieri ha avuto una funzione pedagogica fondamentale: le persone che ho conosciuto, quello che è successo, quello che ho visto mi han dato degli strumenti fondamentali per capire e agire a partire dalla mia condizione di nella lotta antirazzista.
Ad esempio, alla fine del corteo che ha attraversato le strade di Civitanova, proprio davanti al luogo dell’assassinio, è partita una canzone di Tommy Kuti, un rapper afroitaliano. Il pezzo è stato composto in 24 ore, subito dopo la morte di Alika e il ritornello della canzone diceva: “poteva essere mio padre”. Negli interventi ma anche nelle chiacchierate con chi c’era alla manifestazione c’è stato un continuo richiamo a genitori e ai parenti. Una modalità per esprimere dolore, sofferenza, paura ma anche per costruire un rapporto intergenerazionale negato dalla società: abbandonare la propria famiglia, i suoi valori, la sua lingua, la sua cultura come ha detto una partecipante al corteo, pare essere necessario per diventare “italiani”. Io rispetto a questo sono “straniero” perché durante tutta la manifestazione questi pensieri non mi hanno mai sfiorato.

Un ulteriore esempio: un ragazzo di origine nigeriana, conosciuto nel pullman che da Verona ci ha portato a Civitanova, ha detto che nei giorni scorsi non riusciva più a lavorare, aveva perso appetito e si sentiva depresso. Non riusciva a smettere di pensare a quanto successo ad Alika. Molte delle persone con cui ho parlato durante il corteo mi hanno detto la stessa cosa. Erano ossessionate da quanto successo. Io rispetto a questo ero “straniero”. Provavo rabbia e vergogna per quanto accaduto ma la mia vita privata e la mia salute non sono state intaccate.

Infine ho visto tante persone razzializzate piangere, abbracciarsi, sostenersi a vicenda. Ma anche provare rabbia, elaborare, cercare un senso a ciò che è accaduto. Tra chi è intervenuto c’erano persone che non avevano mai parlato in pubblico che hanno tirato fuori una forza impressionante superando ansie e paure. L’incontro di ieri non è stata una semplice manifestazione ma un vero e proprio rituale collettivo per dare una forma a un dolore lancinante e che si ripropone quotidianamente per i soggetti razzializzati. Un rituale di elaborazione del dolore attraverso la rabbia, la protesta, la proposta politica. Io in quello spazio ero “straniero”. Le dinamiche che hanno mosso la mia partecipazione erano civiche, politiche, sociali ma la mia carne non era coinvolta in ciò che è successo.

“L’essere “straniero” nelle questioni riguardanti l’antirazzismo è sicuramente la forma di privilegio bianco più chiara che si portano addosso quelli come me.”

Ma è proprio a partire dal riconoscere questo privilegio che si può e deve costruire un posizionamento. Straniero difatti non vuol dire estraneo. Se la vita delle persone bianche non è stata direzionata, informata, decisa dalle strutture del razzismo sistemico, questi da “stranieri” possono tuttavia riconoscerle e combatterle. E se il razzismo è un fenomeno che riguarda tutta la società agisce in forma diversa sulle persone. E se dolore, rabbia, rivendicazione possono essere parole che muovono tutte e tutti coloro che si dichiarano antirazzisti nella pratica dovrebbero essere termini quali “empatia”, “compartecipazione”, “cura”, “aiuto” a muovere chi il razzismo non lo vive sulla carne.

Questo è ciò che è successo a Civitanova, nel primo corteo antirazzista della mia vita. Ma a Civitanova ho capito anche un’altra cosa che riguarda chi da bianco si occupa di antirazzismo: una persona, un movimento, un’istituzione retta da persone bianche non può arrogarsi la pretesa di determinare cosa sia razzista e cosa non lo sia. Nei giorni precedenti alla manifestazione il sindaco di fratelli d’Italia si sbracciava a dire che la morte di Alika non fosse dovuta al razzismo. Ma non era l’unico: anche tanti “compagni”, in primis dalle Marche (ma non solo), di solito in prima linea contro le ingiustizie sociali, hanno preso posizioni ambigue e paternaliste per marcare una distanza rispetto alla posizione del coordinamento antirazzista nazionale. E, nei fatti, a parte alcune significative eccezioni, hanno disertato la piazza.
Mobilitarsi per il razzismo soltanto quando dietro ci sono croci celtiche o iscrizioni in partiti di estrema destra è una scelta (miope) che, seppure dice tanto su chi la compie, è legittima. Sentirsi in diritto di definire modi e modelli per cambiare l’ordine delle cose sulla pelle di chi l’ineguaglianza la vive è un retaggio culturale di un certo modo di fare politica che risulta invece insostenibile.

Se ieri si è inaugurato una nuova forma di antirazzismo in Italia è necessario per i movimenti che si dicono “alleati” apprendere la loro condizione di “stranieri”. Altrimenti, come ieri, ha più senso che restino “estranei”.

Giuseppe Grimaldi, Ph.D
Research Fellow in Cultural Anthropology