*Questo reportage narrativo è nato durante il corso ‘Scrittura dal vero’ tenuto da Nicola Feninno alla Scuola Holden di Torino. È stato scritto nell’estate 2022.

di Francesca Moscardo

Sono in ritardo quel tanto che basta per sentirmi in dovere di avvisare. Chiamo Luisa. 

«Allora mi faccio un altro goto» risponde tranquilla in vivavoce. Il suo tono basso e cantilenante mi fa pensare a un tessuto prezioso. «Ti aspetto». 

Mi divincolo tra le vie del centro e parcheggio lungo il fianco di Sant’Anastasia, la chiesa più grande della città. È un pomeriggio di luglio e Verona è piena di turisti, ma il locale di Luisa è chiuso e non riceve nessuno. Tranne me. 

Mi avvio a piedi con un moto centripeto verso sinistra, seguendo un automatismo dettato dall’abitudine: vicolo, vicoletto, porta. La scritta “Piano Bar” sulla tenda a calotta mi ricorda che qui un tempo un pianista suonava ogni sera. Da fuori ha tutta l’aria riservata di un club privé e nella posizione in cui si trova ci vai solo se lo conosci. 

Il neon rosa dell’insegna è spento: in fondo sono solo le cinque del pomeriggio.

«Quel posto “brulicava” di personaggi che arrivavano da tutto il Triveneto per fare una serata», mi ha confidato A. durante un aperitivo domenicale a Castel San Pietro, sulla terrazza panoramica della funicolare. «A una certa ora non c’erano tanti locali dove potevi andare. Il Madonna Verona era uno di quelli e stavi lì anche fino al mattino». Lì divanetti di seta rossa, luce soffusa e un horror vacui di oggetti; qui aria e sole accecante che illumina ogni cosa. 

Fatico a decifrare l’uomo che ho di fronte, un fisico asciutto da maratoneta e l’atteggiamento discreto di chi parla poco e osserva molto. Gli chiedo qualche aneddoto: lui dice senza dire e mi chiede di restare anonimo. È molto conosciuto a Verona, mi spiega. «Succedevano tante cose, incontri particolari. Era come essere in un’altra dimensione, la percezione era un po’ diversa».

Madonna Verona. Su Wikipedia sarebbe una pagina di disambiguazione: 1. la statua romana della fontana al centro di Piazza delle Erbe; 2. la maschera del Carnevale veronese ispirata alla statua; 3. l’omonimo locale storico. 

A condensare tutto in un significato univoco c’è Maria Luigia Vassanelli detta Luisa, classe 1937, la persona che sto per incontrare.

È lei Madonna Verona, la donna dalle mille vite, l’icona rivoluzionaria di un centro di provincia. Una signora con la quinta elementare nominata Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana grazie ai suoi bar, che hanno fatto la storia della città in un’epoca in cui le donne imprenditrici non avevano spazio: uno, due, tre, quattro Boomerang e infine il Madonna Verona, l’unico che le è rimasto.

Spingo la porta, che ‘muggisce’ in modo familiare. Luisa mi saluta di spalle dal fondo del bar, sta trafficando dietro al bancone e vedo solo i suoi capelli bianchi. È strano entrare qui di giorno, negli ultimi tempi il locale apriva alle 22:00. 

 

Mi guardo in giro, è tutto al suo posto: la fontana di marmo rosso al centro, la riproduzione della statua di Piazza Erbe, la costellazione di divani semicircolari e pouf dove languire per ore davanti a un calice, la parete a specchio che raddoppia la luce calda degli abat-jour e la teoria infinita di cimeli appesi ovunque. Legno scuro, oro, bordeaux. E poi, scendendo tre gradini, l’altra sala con il pianoforte a coda ormai silente. Da qui sono passati personaggi famosi come Celentano, Capossela, Aldo Fabrizi, cantanti, attori, politici e i ricchi della città che al Madonna Verona avevano il proprio caveau per tenere i liquori più costosi. Qui è sempre un’ora – e un’era – indefinita.

Luisa prende una bottiglia, due bicchieri e mi raggiunge. Ci sediamo a un tavolino qualsiasi, non il “suo” là nell’angolo, dove come una matrona riceve gli ospiti. «Bevi un goccio di Prosecco con me?» chiede. 

Quella che ho di fronte è una nonna con gli acciacchi dell’età che vuole andare in pensione. Non chiuderà davvero lo storico locale ma, come per la maschera del Carnevale, passerà lo scettro alla figlia. «Mi sento obbligata ma non nel senso brutto del termine, perché fa parte della storia della città» mi ha detto Paola di recente da uno di quei sofà rossi, triangolata da me e sua madre attorno allo stesso tavolino come in una singolare seduta medianica, dove non si evocano spiriti ma ricordi. «Non puoi lasciar perdere una cosa del genere. Chi c’è, se non io, che può rispettarne la memoria? In onore di quello che lei ha fatto, in onore di quello che c’è da fare». È comunque la fine di una leggenda: il Madonna Verona non sarà più lo stesso senza il suo genius loci.

Mi rendo conto di conoscere poco di Luisa: chi c’è sotto le sue infinite maschere?

«Sono nata nel posto più bello del mondo: in un mulino sull’Adige». Luisa ha un ricordo gioioso della sua infanzia legata al fiume, alfa e omega della sua esistenza. Prima di tre fratelli in una famiglia povera, ha dovuto fare presto i conti con la paura delle bombe e le file per il pane. «Non avevamo da mangiare, però c’era un calore in casa!».

Da grande avrebbe voluto fare il chirurgo, ma non erano i tempi per le grandi ambizioni: doveva darsi da fare nell’osteria dei genitori. «Io volevo scappare perché non mi piaceva, allora c’era una nuvola di fumo costante perché tutti fumavano e io ho sempre odiato il fumo. Un giorno ero sulla porta, è passato un bel ragazzo, mi ha guardata e ha detto: “Che peccato che lavori all’osteria, perché io odio le osterie”. Ho deciso che l’avrei sposato. È stato il padre dei miei tre figli». 

Luisa è abituata a raccontarsi, a ripetere gli stessi aneddoti a interlocutori sempre diversi. «È durata poco perché mi picchiava e io finivo in ospedale». 

A cadenza regolare il rumore della macchina del ghiaccio sovrasta la voce di Luisa: «Io dicevo “A me non va bene. Appena i bambini saranno in grado di tenere in mano il cucchiaio io ti lascio”. E l’ho fatto. Paola aveva tre anni, Umberto sei. Me ne sono andata coi bambini». In mezzo aveva avuto Giampaolo, morto a pochi mesi. Era la fine degli anni ’60 e il divorzio non esisteva ancora. «Sono stata la prima a Verona, ma ero già scappata di casa».

«Si avvertiva immediatamente che era forte, attenta, sveglia. Luisa era conosciuta da tutta Verona come una bellissima donna, era molto ambita». Alberto zittisce Alexa prima di continuare. «Ero un agente della Spirit, importante azienda liquoristica che forniva i prodotti più prestigiosi agli american bar. E quindi Luisa faceva parte dei miei clienti, non aveva intermediari».

L’uomo accanto a me sul divano di velluto Tiffany è alto, prestante, e non fatico a immaginarlo come un giovane tombeur-de-femmes. Mi fa vedere una foto sul cellulare: è lui negli anni ’90, elegante insieme al figlio già avviato alla stessa professione. «Mostrala a Luisa e dille: “Ti ricordi?”». 

L’appartamento è fresco, luminoso, quasi minimale. Chissà se il tavolino-bar dietro di me contiene anche i liquori che rappresentava lui: Ballantine, Cointreau, Cognac Martell, Beefeater per i gin tonic. Alberto si sbilancia: «Avevo la sensazione, nel parlare con Luisa – con la battuta facile, il sorrisino sempre pronto e malizioso – che avesse negli occhi un lontano senso di malinconia, quasi di rassegnazione».

È nel punto più buio della sua vita che Luisa trova una forza inaspettata; inizia la sua impresa con il bar senza nome di una pompa di benzina. Dura poco. Le mancano i mezzi, ma ha buone idee e due figli da mantenere. 

«Ho cominciato a firmar cambiali». D’istinto alzo la testa: il soffitto del Madonna Verona è tappezzato di cedole sotto vetro che attirano sempre l’attenzione dei nuovi avventori. Le ho viste ogni sera che sono entrata qui, ma solo adesso le osservo con gli occhi di Luisa. «Se mai dovessi sentirmi triste, basta che guardi le cambiali». 

In questo modo rileva un locale sfitto che aveva servito i militari della base NATO e lo chiama Boomerang. «Perché se un cliente si trova bene, torna». I clienti non solo tornano, ne fanno il centro della movida veronese degli anni ‘70. Alla fine i Boomerang saranno quattro.

«Luisa ha inventato il concetto di catena prima che arrivassero gli americani a insegnarcelo e il caso dei Boomerang è geniale». Diego è stato l’ultimo cameriere di Madonna Verona e mi racconta tutto mentre condividiamo le patatine fritte del chiosco davanti allo Stadio. Ha scelto di affiancare Luisa nell’ultimo periodo per un motivo preciso: «Quando mi ricapita di fare un master in Business Administration gratis?», dice ridendo. «Lei parla di clienti ben vestiti, bicchieri e bottiglie di Prosecco, il carico e scarico della merce, il listino e tutto quanto. Nella mia testa c’è una sorta di traduttore: quando lei mi parla di bicchieri di Prosecco io penso ai moduli software che devo realizzare; quando mi parla di clienti qualificati io penso a come qualifico i miei clienti». 

La compostezza di questo ragazzo in camicia e ben rasato è a metà tra il maggiordomo e il praticante di arti marziali. Diego, in realtà, è manager di una solida azienda nel settore informatico. «Non ho mai trovato un locale come Madonna Verona. Luisa ha fatto l’opposto di ciò che ti insegnano all’università: se n’è fregata delle regole, ha ragionato fuori dagli schemi e creato una strategia a 360° sempre efficace». Per esempio l’attenzione al decoro nel vestire e al dialogo. «Lei ha imparato a stare con tutti. Ho visto cene al Madonna Verona con il politico di destra, di sinistra, di centro, il prete: tutti erano lì per lei a bere un bicchiere insieme. Riesce in maniera magica a unire le persone».

Luisa rilevava locali che non voleva nessuno e, come un Re Mida, li trasformava in tendenza. Diego non riesce a spiegarselo: «Ha applicato le sue intuizioni con un successo che io guardo ancora come caso di studio. Potrei stare in silenzio e imparare per i prossimi trent’anni. È una donna moderna nata nell’epoca sbagliata».

Al Madonna Verona le ore vengono scandite dalle campane di Sant’Anastasia, distante sì e no cinque metri da muro a muro. Luisa l’ironica, la maliziosa, quella che ti legge le carte, ha per vicino di casa il parroco. 

«Quando mi hanno proposto questo spazio qui non c’era niente. Mi piaceva moltissimo, però era attaccato a una chiesa e io volevo fare piano bar». In bocca a Luisa ogni aneddoto diventa epico. Andò da don Cappelletti a chiedere il permesso: «Però non le ho detto che lo chiamerò Madonna Verona». La Madonna in questione è solo profana, non blasfema, e il prete, dopo aver indagato sulla sua reputazione, la lasciò fare. Il patto di reciproca tolleranza era concluso. 

Dal canto suo Luisa è una vicina di casa quasi inesistente. Abita da sola nel palazzo di proprietà della Curia di fronte al locale e Zeno, il suo dirimpettaio laico di qualche anno fa, al telefono me la descrive affettuosa e prodiga di inviti a cena al Madonna Verona. «Quelle poche volte che era in casa era silenziosa e riservatissima, ma praticamente abitava giù al locale perché aveva l’abitudine di andare a letto molto, molto tardi. Io dormivo quando rientrava, ma poteva essere anche verso le sette di mattina».

Luisa vive in una dimensione tutta sua. Quando le chiedo “Che anno era?” ci deve pensare, fa confusione, risponde “quarant’anni fa”. A volte si aggiunge degli anni all’età reale, così per gioco. Per una come me abituata a fare ricerca storica, è disturbante non poter tracciare una linea cronologica con date certe. Ricordo le parole di Diego: «Non ha senso sapere quando è nato il Madonna Verona. È sempre esistito: è un simbolo».

Riguardo un’intervista su YouTube del 2018. Era un evento aperto a tutti: il locale strapieno di affezionati, Luisa in ghingheri sul divano rosso mentre beve Prosecco e risponde al microfono. Una volta che le si dà il via, lei apre la diga dei ricordi che vanno dalle vicende cupe agli aneddoti gustosi, come Vinicio Capossela che suonava al piano bar o l’acquisto di un Porsche color oro. Ma ha anche preso la patente dell’ambulanza e quando le chiedono se non dorme mai, lei risponde che così la Morte non può coglierla a letto. «No g’ho tempo de morir!».

Nel silenzio della mia camera riascolto le interviste che ho fatto nelle ultime settimane: cerco un denominatore comune o almeno un filo da seguire per raccontare una storia, ma appena penso di averne ricostruito la figura, Madonna Verona si frantuma di nuovo. Ogni persona che mi parla di lei aggiunge un livello di complessità imprevisto e fatico a far coincidere l’immagine della signora anziana che ho di fronte con le rocambolesche avventure che racconta.

Chiedo aiuto a Filippo, musicista e conoscitore dell’underground veronese. «Luisa è cinematografica. Quando lei parla parte il film, il posto si anima e diventa un altro mondo». Beviamo un caffè pomeridiano in una sala biliardi: arredamento anni ’80, temperatura polare, rumore di stecche sul panno verde. «È d’obbligo sedersi e parlare con lei, fa parte dell’esperienza. Riesce a trasportarti in questo passato veramente incredibile.».

Faccio una ricerca su Google: non trovo quasi nulla. L’intervista su YouTube è il risultato più esaustivo; oltre a quella qualche articolo locale, poche foto di Luisa, tutte recenti.

Dove sono le sue biografie? Dove le foto dei personaggi famosi che frequentavano i leggendari locali? 

Madonna Verona viaggia su frequenze diverse, il suo medium non è digitale. È un mito analogico; se non l’hai conosciuta puoi solo affidarti alle testimonianze orali.

Un giorno d’agosto Luisa mi fa una sorpresa. Siamo nel ristorante vicino al suo locale, dove lei è di casa; fa un cenno verso il sacchetto appeso alla sedia: «Ti ho portato delle fotografie. Le guardiamo dopo». Finito di pranzare ci spostiamo all’esterno su un tavolo apparecchiato con una tovaglia a quadri. «Per vederle bene ci vuole la luce».

Man mano che Luisa mi passa manciate di foto, le cose che racconta, assurde e irreali, diventano nitide: giovane mamma con i bambini, in abito da sera, sull’ambulanza, signora del Carnevale; e poi il cavallo Stinger, il levriero Sirio, il fantomatico ma concretissimo Porsche dorato. È tutto vero. E non importa se la data sul retro di una foto del Boomerang n. 1 è in anticipo di almeno sei anni sulla linea del tempo che ho tracciato: è sempre esistito.

«Hai fatto un sacco di cose» le dico.

«Ho vissuto» risponde mentre assorbo ogni fotogramma. E poi: «Cosa resterà delle foto fatte con questi telefonini?». 

Me lo chiedo anch’io, Luisa, che cosa resterà.

Mentre torno alla macchina mi accorgo di un bagliore familiare. Rosa. 

Alzo la testa: l’insegna è accesa.