…splende la luna e sta bruciando la terra,

per questa terra chi è che perde la sua vita?

Nessuno lo vede e accetta il mio dolore,

allora è per questo che le montagne e le stelle piangono.

alzati tesoro mio, il mio cervo ferito,

ancora sono sulla strada.

La mia primavera sta scomparendo.

Alzati tesoro mio, il mio cervo ferito,

splende la luna sulla curva delle tue labbra

dove finisce il mio sguardo.

Questa è l’ennesima primavera

che senza un inizio finisce,

ed è per questo che le montagne e le stelle piangono.

Alzati tesoro mio, il mio cervo ferito,

ancora sono sulla strada.”

Inizia così, con i versi di una canzone di Ahmet Kaya, famoso cantante curdo nato e cresciuto in Turchia, la mia intervista con Benyamin Somay: sono versi carichi di dolore, ogni parola recitata da Ben pesa come un macigno. La storia recente dei curdi è una storia di sofferenze, di ingiustizie; ma, come traspare dall’ultimo verso, è una storia ancora da scrivere, in un futuro incerto in cui non manca la speranza: “Alzati tesoro mio, il mio cervo ferito, ancora sono sulla strada”.

Benyamin Somay è nato e cresciuto a Neychalan, un piccolo villaggio del Kurdistan iraniano al confine con la Turchia. All’età di 22 anni ha dovuto lasciare la famiglia e fuggire verso l’Europa: un viaggio lungo e pericoloso, che l’ha portato, dopo aver sbattuto la faccia sul trattato di Dublino, a ricostruirsi una vita in Italia.

Oggi è rifugiato politico, vive a Verona, lavora nella gelateria ‘è Buono’ nei pressi di ponte Pietra, ed ha raccontato il suo viaggio nel libro Il vento ha scritto la mia storia, pubblicato da La Meridiana nell’autunno del 2017. Per un colpo di fortuna ho avuto la possibilità di conoscerlo e di riflettere con lui sulla sua esperienza: quest’intervista è il risultato di una lunga chiacchierata con Ben, e vorrei condividerla con tutti voi Salmoni.

Benyamin, per arrivare in Italia hai dovuto varcare molti confini, ed una volta qui ti sei reso conto sulla tua pelle dell’importanza che ancora oggi hanno i confini nazionali nel delineare l’identità di uno stato. Cosa ne pensi? Cosa significa confine per un kurdo?

Ti racconto un aneddoto a tal proposito: c’è una città in Kurdistan che si chiama Halabja, tristemente famosa per il massiccio bombardamento subito durante la guerra tra Iran e Iraq. Fu una strage: 5000 morti a causa delle armi chimiche utilizzate dall’esercito di Saddam Hussein. Ecco, fino a qualche anno fa ero convinto che questo paese si trovasse in Iran, poi ho scoperto che faceva parte dell’Iraq.

Per noi curdi non esiste un confine, non lo abbiamo mai avuto: qui in Europa oggi significa barriera, muro, ma per noi significherebbe avere un luogo giuridico dove vivere in pace, avere leggi che difendano i nostri diritti e possibilità di crescita. È sempre stato un sogno per il mio popolo, ma i confini stabiliti dopo la prima guerra mondiale dalle potenze coloniali hanno spezzato il sogno dei curdi: oggi essi combattono per difendere la propria identità, per avere un po’ d’autonomia, ma è sempre più difficile poter immaginare dei confini per il Kurdistan.

Nel libro racconti che durante questo lungo viaggio hai sofferto momenti di disperazione dai quali sei riuscito con grande coraggio a risollevarti, anche grazie ad alcune storie, leggende della tua terra che ti sono state raccontate fin da bambino. Ce ne racconti una in particolare?

Si, è vero. Ci sono alcune storie che mi hanno aiutato molto, sono state una luce che mi ha guidato in una notte buia. Ce n’è una in particolare, che racconto spesso anche agli incontri con i giovani: ero appena stato respinto dalla Danimarca qui in Italia , nel centro di accoglienza di Restinco a Brindisi. E’ stato per me un periodo molto difficile, in Danimarca stavo studiando la lingua e frequentavo un corso per diventare guida turistica, avevo faticato tanto per arrivare lì ed era un sogno che si stava realizzando. Per di più, venni a sapere in quei giorni dell’impiccagione in Iran di un amico che non era riuscito a scappare dal paese.

Cancelli del centro d’accoglienza di Restinco, Brindisi.

Mi è crollato il mondo addosso, per alcuni mesi ho sofferto molto, finché mi tornò in mente questa vecchia storia: “due uccellini costruirono il loro nido e faticarono molto per completarlo. Una notte però giunse un vento molto forte che distrusse il loro lavoro: gli uccellini, guardando quel che restava del loro nido, piansero e chiesero a Dio per quale motivo avevano dovuto subire quest’ingiustizia. Dio mandò un angelo, che spiegò loro che mentre riposavano nel nido si stava avvicinando un serpente, che li avrebbe ingoiati in un sol boccone: il vento li aveva salvati, avevano perso la loro casa, ma avevano salva la vita e avrebbero potuto costruire nuovi nidi”.

Ecco, è un po’ quello che è successo a me: se fossi rimasto in Iran sarei stato arrestato e giustiziato; partendo ho perso il mio nido, la famiglia, ed ho affrontato molto dolore, ma sono vivo e per questo ho sentito il dovere di rialzarmi e sfruttare le possibilità che questa seconda vita mi poneva davanti.

Nella tua vita hai svolto lavori diversi, tra cui il fornaio. Nel libro scrivi che la gioia più grande che ricavavi da questo mestiere era l’opportunità che avevi in questo modo di diminuire l’immane carico di lavoro che nel tuo paese grava sulle donne. Qual è oggi la condizione della donna curda e in che modo sei riuscito a sviluppare una sensibilità così profonda nei confronti delle donne, in un contesto in cui non era magari così facile coltivarla?

Beh, storicamente le donne curde hanno sempre avuto una libertà maggiore rispetto alle donne in altri paesi musulmani. Purtroppo però l’Iran è oggi una Repubblica Islamica e noi curdi siamo obbligati ad osservare le loro leggi: le donne soffrono molto, su di loro grava una grande quantità di lavoro domestico e sono chiuse sottochiave nelle loro case. Non hanno quindi possibilità di studiare, soprattutto non hanno possibilità di scegliere del loro matrimonio, che viene concordato dai genitori. Per me questa è una gravissima ingiustizia, ed una testimone di ciò è stata mia madre: all’età di 18 anni ha subito la scelta dei suoi genitori ed ha sposato mio padre, che non conosceva e non amava. Io sono testimone della sofferenza di questa donna, che ha vissuto una vita infelice con un uomo che non amava, e questo ha fatto molto male anche a me: fin da piccolo ho vissuto questa situazione come una profonda ingiustizia, non riuscivo a capire come mai le bambine non potessero fare ciò che potevo fare io. Spero con tutto il cuore che questo cambierà, che le donne in Iran possano avere più libertà, come prima della Rivoluzione del ’79.

Te l’ho chiesto perché in realtà in Italia si sente parlare spesso della lotta del popolo curdo e proprio la figura della guerrigliera è diventata ormai un simbolo di emancipazione nazionale e di genere. A questo proposito, racconti nel libro dell’incontro con i partigiani del PKK: hai mai pensato di rimanere a combattere con loro?

Questa è una domanda che mi fanno spesso: forse adesso ho diversi motivi per cui non ho partecipato alla lotta armata al loro fianco, ma quando li ho incontrati la prima cosa che ho visto nei loro occhi è stata la disperazione. La morte non è piacevole per nessuno, i giovani che scelgono di seguire questa strada hanno accettato la morte: la parola peshmerga significa letteralmente “avere la morte davanti”. Forse non ho avuto il coraggio necessario, però sentivo in qualche modo di essere diverso da loro: io non credo nella lotta armata, la violenza genererà sempre altra violenza.

Io oggi combatto, certo il mio impegno non è nulla rispetto al loro, ma sono diventato, come alcuni mi definiscono, ‘ambasciatore del mio popolo’. Porto il loro messaggio, racconto la storia del mio popolo e le sue sofferenze ad ogni incontro; racconto chi sono questi ragazzi, che in Occidente sono visti come terroristi, mentre sono persone che combattono per salvaguardare la propria etnia, la propria identità: questo è il popolo curdo che combatte, in tutte le sue forme.

Parliamo del tuo arrivo in Italia: nel nostro paese troppo spesso l’accoglienza è sulle spalle di associazioni volontarie o del mondo cattolico. Nel tuo caso, sei entrato a far parte di una comunità cattolica in Salento: è stato difficile per te, da musulmano, entrare così rapidamente in intimità con questa realtà religiosa?

Certamente all’inizio non è stato facile per me, perché sono stato educato come musulmano e per la prima volta incontravo il mondo cristiano. A poco a poco ho conosciuto questa comunità, mi sono affezionato e le mie paure si sono trasformate in curiosità, in voglia di approfondire la vostra religione: alla fine ho capito che tutte le fedi hanno un terreno comune, l’importante è saper amare la diversità e stare bene insieme. Io pregavo in chiesa con amici cattolici e questo è a mio parere un messaggio fortissimo. Ed è il messaggio che Don Tonino Bello ha portato con sé dalla Puglia nel suo lungo impegno per la pace, la tolleranza e l’accoglienza: gli sono molto grato per l’insegnamento che ho tratto dalle sue poesie, dalle sue parole e dalle sue opere. In tre parole è la convivialità delle differenze, il necessario nome della pace: a Gallipoli vivevo in una comunità cattolica e dividevo la stanza con un ragazzo senegalese ed uno nigeriano; mangiavamo insieme, pregavamo insieme, cantavamo insieme. Questo è il messaggio: se possiamo stare insieme su una tavola, perché tutta questa sofferenza, queste guerre, quest’intolleranza?

Don Tonino Bello a Sarajevo nel 1992

In seguito, attraversando lo Stivale con tappe più o meno lunghe, sei arrivato a Verona. Com’è stato il tuo primo impatto con la città?

Ormai tre anni fa, vivevo ancora a Gallipoli ed avevo due settimane di ferie: decisi quindi di girare un po’ l’Italia. Arrivai a Venezia, ospite di Don Nandino Capovilla, che mi propose di accompagnarlo a Verona per un incontro. Non conoscevo niente della vostra città e così accettai volentieri. Arrivammo qui e ci accolse Don Marco Campedelli nella parrocchia di San Nicolò; poi camminai un po’ da solo per la città e mi piacque moltissimo. Una volta tornato a Gallipoli, Don Marco mi disse che sarebbe venuto con il gruppo di giovani di San Nicolò nella nostra parrocchia e mi propose di raccontare la mia storia. Accettai, e strinsi subito amicizia con quei ragazzi veronesi. Tramite queste testimonianze e queste amicizie, alla fine sono finito qui!

E dal punto di vista della solidarietà, che a Gallipoli avevi trovato in così poco tempo, tanto da costruirti quasi una seconda famiglia, cosa ne pensi di Verona? Sei riuscito ad ambientarti in fretta?

Beh, sono solo due anni che vivo qui, forse è un po’ presto per risponderti! Posso dirti che in questo periodo ho conosciuto moltissimi veronesi che, come in Puglia, fanno ormai parte di questa mia grande seconda famiglia. Per fortuna non ho incontrato persone che mi hanno trattato male, fino ad ora; purtroppo però gli intolleranti ci sono dappertutto , anche in Puglia ho incontrato persone che non ne volevano sapere di accogliere migranti, che avevano paura dello ‘straniero’. Per il momento non ho notato grandi differenze, sono stato accolto con amore anche qui.

Il vento ha scritto la mia storia è una storia che parla di sofferenza, di coraggio, ma soprattutto di speranza. Come tu stesso sottolinei nel libro, hai avuto la fortuna di incontrare persone che ti hanno mostrato solidarietà, ti hanno aiutato e dato forza.

Ogni giorno sentiamo di giovani che invece non ce la fanno, rimangono impantanati nei campi profughi o nei centri d’accoglienza: che sentimenti provi nei confronti di questi giovani e dei tanti episodi di intolleranza che accadono anche nel nostro paese?

Mi fa veramente male, mi dispiace tanto. Essendoci passato anche io, so cosa significa rimanere bloccati alle frontiere nei campi profughi e nei centri d’accoglienza, rimanere soli, senza lavoro e perdere la speranza. Nel nostro piccolo ognuno di noi può fare qualcosa per questi giovani: ognuno può fare la propria parte, senza rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza. E parlo di aiutare a trovare un lavoro, un tetto sotto cui dormire: quando vedo qualcuno che dorme per strada, ricordo del freddo che ho provato dormendo in strada a Parigi, e soffro per loro.

A Gallipoli è andata così: abbiamo fatto del nostro meglio, ed uno alla volta abbiamo aiutato molte persone; proprio in questi giorni, nella parrocchia dove vivevamo, è stato aperto un centro d’accoglienza che ospiterà tanti migranti che trovano lavoro stagionale ma sono in difficoltà nel trovare un posto dove dormire. Sono davvero felice per questo, perché anche lì nella parrocchia c’era chi diffidava di questa iniziativa; ora la comunità è ancora più ricca, più variopinta, ed anche la gente del luogo è contenta di aiutare i giovani che arrivano.

Un’ultima domanda Ben: ormai delle tue avventure passate so quasi tutto, che progetti hai invece rivolti al futuro?

Beh, ho conseguito da poco il diploma di scuola media qui in Italia e molto probabilmente mi iscriverò ad una scuola serale ed andrò avanti con gli studi: è sempre stato un mio obiettivo ed ora l’ho ripreso in mano, e finché potrò porterò avanti questo percorso perché lo studio e la conoscenza sono molto importanti per me.

Il mio sogno è di riuscire a portare la mia famiglia qui, non è facile ottenere il ricongiungimento familiare ma ci proverò, per me è molto importante. Sto bene, sono stato fortunato, e so che poco alla volta questi sogni si realizzeranno!

Benyamin presenta il suo libro a Brindisi