Intervista a Gino Paoli

Di Giovanna Girardi

 

Qualche mese fa mi è capitata una cosa bellissima.

Per introdurre lo spettacolo di Enrico de Angelis in occasione dei 60 anni di Sapore di sale, ho intervistato Gino Paoli per L’Arena. Ebbene sì, Gino Paoli. Quel Gino Paoli che ha fatto la storia della musica italiana.

Quando ho sentito “Pronto” all’altro capo del telefono, non sono riuscita a trattenere un complimento del tipo: “È un grande piacere per me intervistarla, ho ascoltato così tanto le sue canzoni…”. Poi mi sono accorta della banalità e ho aggiunto, “Beh, come milioni di altri italiani”. Di tutta risposta Gino Paoli non ha risposto. Mi ha trattato lì per lì con una certa ritrosia, forse per una sua insofferenza alle adulazioni, ma poi, vista la sincerità della mia emozione (e constatato che non ero una matta sfegatata), si è ammorbidito, si è aperto con franchezza.

D’altra parte, parlando con lui, non ero solo una giornalista un po’ coinvolta. Ero la bambina che ascoltava in loop Quattro amici al bar, la ragazza del liceo che si era appassionata a Che cosa c’è, la studentessa universitaria che cercava di decifrare la metrica di Il cielo in una stanza, la giovane donna che ascoltava gli arrangiamenti morriconiani di Sapore di sale, che ripensando a La gatta ricordava luoghi iconici della sua infanzia, che ha riscoperto Senza fine grazie a un film di Virzì e Ti lascio una canzone live con Ornella Vanoni grazie ai fortunati incontri della vita. Insomma, niente di speciale in Italia. 

Per cercare di mantenere un aplomb professionale, ho dovuto fare appello alla mia serietà più del solito. E nel corso dell’intervista anche il mio mito, il nostro mito, mi ha riservato qualche confessione, riflessioni profonde, considerazioni sincere e una malcelata instancabile dolcezza, che fin dal primo singolo del ’59 muove in sottofondo le sue note e parole.

L’intervista è uscita a suo tempo molto tagliata sull’Arena (più che altro per ragioni di spazio). Così ho chiesto agli amici di Salmon di pubblicarla in versione integrale, pensando che le parole di Gino Paoli possano essere un bene pubblico.

Ecco ciò che ci siamo detti. 

Tante sue canzoni sono impresse nella storia della musica e – cosa ancora più bella – sono ancora molto ascoltate: diventano colonne sonore di film, le ascoltano i giovani. Si è mai chiesto perché?

Sì, perché non mai state di moda. Le cose di moda, quando finisce quella moda, finiscono. Dato che io non ho seguito mai la moda, di nessun tipo, ho fatto quello che mi sembrava giusto, ho scritto quello che sentivo, se le mie canzoni piacciono, piacciono sempre a qualcuno. 

Quando ha cominciato, sentiva di dover fare questo mestiere? L’ha cercato o è capitato?

È stato un caso, solo un caso. Io facevo il pittore e facevo anche il grafico per una ditta. La mia vita era già a posto per conto suo, anzi facevo quello che mi piaceva, cioè dipingere. Poi un amico mi ha chiesto di incidergli delle canzoni, mi hanno chiesto di cantarle e mi hanno offerto dei soldi, allora ho detto: “Va bene”. Inizialmente l’ho fatto come una sorta di gioco che sarebbe finito il più presto possibile, invece è durata 50, 60 anni. 

 

 

Se l’aspettava all’inizio?

No, non mi aspettavo niente all’inizio. Tieni conto che io non avevo mai scritto canzoni, improvvisamente un giorno torno a casa e mi dico: “Quasi quasi mi scrivo una canzone io” e ho scritto La gatta. La gatta è uscita come disco a gennaio-febbraio, qualcosa così, e non ha venduto niente, a parte i dischi che ha comprato mia mamma. Poi, durante l’estate, nei juke-box si sentiva solo quella. Praticamente si è lanciata da sola la canzone. Quando le persone sono tornate a casa dal mare, se la sono andata a comprare, allora è stato un successo. 

C’è una canzone fra le tantissime a cui è particolarmente affezionato?

No, perché le canzoni sono come pagine di vita. Sarebbe come se lei mi dicesse: “Preferisce quella che ha scritto a 25 anni o quella che ha scritto a 40?”. Sono l’espressione di un mondo, che naturalmente cambia. 

E invece una canzone poco o meno conosciuta delle altre, secondo lei ingiustamente? 

Non lo so, perché non mi sono mai interessato di queste cose, di numeri… le cose che so, me le hanno dette: non ho mai scritto per vendere, ho scritto perché sentivo voglia di scrivere. E poi il fatto che una canzone avesse successo era un incidente… va bene, grazie se gradite, ma io scrivo per scrivere una cosa giusta, che serve a me e che può servire a qualcun altro. 

Si sente di più musicista, autore o entrambe le cose?

Ma io… quando scrivo, scrivo tutto insieme, non è che prima scrivo la musica e poi ci metto le parole. Scrivo una frase musicale e parlata, di testo, che ha già in sé tutto quello che verrà dopo. Nel senso che devo seguire quella parte iniziale e poi si scrive tutto il resto.

Prendiamo Sapore di sale che quest’anno farà 60 anni e sarà il centro dello spettacolo a Verona. Sono d’accordo con lei che resiste al tempo ciò che non segue le mode. Secondo lei c’è qualcosa oggi che potrebbe essere fuori dalle mode e che magari riascolteremo fra 60 anni? 

Non credo, adesso no. La produzione di oggi è una produzione che ignora il testo, ignora l’emozione che uno dovrebbe trasmettere quando scrive e che dovrebbe arrivare. Adesso più che altro è una situazione molto ritmica, dove l’importante è una base per muoversi. La canzone da sentire, per provare un’emozione, non mi risulta che ci sia. Tra parentesi, di Sapore di sale la cosa buffa è che è l’unica canzone che non mi sembra d’aver scritto io. Nel senso che io tornai dalla Sicilia, dove io avevo vissuto in un posto che si chiama Capo d’Orlando, e quando arrivai a casa, mi misi al pianoforte come se me la dettassero, come se fosse già scritta, tanto è vero che poi io ho cercato di farla sentire a tutti, perché pensavo di aver scritto una cosa che avevo già sentito, insomma, può capitare. Invece no, nessuno la riconosceva come una canzone già fatta. È l’unico caso, di tutte quelle che ho scritto, che ho scritto come se qualcuno me la dettasse, come se venisse dal nulla, già pronta.

E poi l’ha arrangiata Ennio Morricone. Com’è stato lavorare con lui?

In questo caso gli ho fatto scrivere tre volte l’arrangiamento, perché non mi piaceva. Aveva fatto un arrangiamento con trombe, tromboni, eccetera e non mi piaceva per niente. Per cui gliel’ho fatto riscrivere e la terza volta ha scritto questa versione. Tra parentesi, usando un basso-chitarra che suonava il fratello di Little Tony: ce l’aveva solo lui e l’ho fatto venire per fare la ritmica, perché avevo bisogno di qualcosa per fare la ritmica… quella parte lì (e canticchia il basso di Sapore di sale “tantadadadantanta-ta, tantadadadantanta-ta”) me l’ero inventata io, non Morricone, però è stato grazie anche a questo Enrico, mi sembra che si chiamasse Enrico, Enrico Ciacci, che ha fatto tutta la base ritmica praticamente. Poi la terza volta che mi portò l’arrangiamento, mi andava bene, così l’ho cantata. 

E direi che è andata bene. C’è qualche musicista della sua lunga e intensa carriera che l’ha colpita particolarmente?

Con cui ho collaborato? Beh io ho collaborato con un sacco di gente…

Eh… lo so. 

Uno che mi era piaciuto molto… c’è tutta una storia che non le sto a raccontare adesso, è Jacques Brel. Lui voleva uno in Italia che gli traducesse le canzoni. Era amico di un certo Alain Barrière di cui avevo scritto i testi in italiano ed erano stati due successi di classifica, e allora, dato che Brel voleva avere un esito anche in Italia, mi chiamò a Parigi e mi fece sentire alcune canzoni. Così tornai e tradussi Ne me quitte pas che diventò Non andare via. Ed ebbe un certo successo in effetti, Brel era molto contento. 

E invece un musicista con cui non ha collaborato, ma le sarebbe piaciuto?

Mah, sono i brasiliani. Io ero amico con Vinicius De Moraes e mi sarebbe piaciuto collaborare con lui molto, perché era vicino a me come testa. Allora avrei voluto, però non siamo mai riusciti… siamo riusciti sì a bere insieme, ma a scrivere qualcosa insieme no. 

Dato che ha visto, vissuto e in parte scritto tutta questa storia della musica italiana, come le sembra sia cambiata la canzone italiana in questi 60 anni? 

Beh la questione è: cos’è che piace adesso? “Io scrivo per avere successo”: se si parte così, tutta la cosa non mi interessa. Non puoi scrivere tenendo presente cosa va adesso, obbligato in una prassi che non è tua, cioè a me non piace la prassi e quindi non mi piace il risultato. 

 

 

E quindi cosa suggerirebbe di fare a un giovane cantautore?

Di fare quello che sente, non quello che vogliono il mercato, il produttore, la casa discografica. Fare quello che sente e sperare che piaccia anche agli altri. Però quando tu scrivi quello che senti e ti riesce bene, sei soddisfatto anche se poi non vendi. 

E quand’è stato che la canzone italiana ha smesso di dire qualcosa, di essere interessante?

Purtroppo fortunatamente siamo stati noi, noi cantautori di allora. I cantautori di Genova, Luigi (Tenco, ndr), io, Bruno (Lauzi, ndr), quelli lì, più qualcun altro come Sergio Endrigo… c’è stato un momento in cui qualcuno ha detto: “Cazzo, ma la canzone può essere usata per esprimersi, non deve essere soltanto un genere di divertimento. Può servire per esprimere quello che sei, quello che pensi, quello che ti sta nel cuore”. E questa cosa è successa a noi nel ’60, perché semplicemente è andata così, poteva essere qualcun altro… perché prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che la canzone può essere un mezzo di espressione. Però è stato così, è successo a noi. 

Se le dicessi, per esempio, nomi come Samuele Bersani, Daniele Silvestri, Max Gazzè, che sono cantautori di una generazione successiva alla sua ma non più giovani, secondo lei lì c’è una forza paragonabile a quella che c’era quando avete cominciato voi?

No, semplicemente no. La complicazione è stata lo svilupparsi dell’industria discografica. Quando abbiamo cominciato noi era un fatto praticamente dilettantistico, guidato da Nanni Ricordi, che era un matto che voleva solo cose diverse. Quindi la questione è stata anche un’atmosfera, un momento che ha determinato tutto quanto e che ha dato a noi la grinta per scrivere in maniera personale: questo poi non è più avvenuto direi. C’è stata, sì, gente che scriveva bene. Scrivere bene è una cosa, scrivere col cuore è un’altra. Di solito quelli che scrivono, dipingono o fanno questo, muoiono e poi quando sono morti la gente si accorge che sono stati bravissimi, di solito accade così… a noi è andata bene, perché eravamo ancora vivi (ride, ndr).

Quindi era tutto bello allora?

Ha presente Gioventù bruciata, James Dean e tutto quel mondo: noi eravamo quel mondo lì. I ribelli, quelli dall’altra parte, quelli che non seguono le regole. Non c’è niente da fare: io sono andato a Sanremo e il portiere mi ha detto: “Vestito così non entri”. E mi sembra sia molto sintomatico. La gente poi è andata anche nuda, però purtroppo tutti i limiti da trasgredire, invece che trasgredirli gli artisti, gli scienziati, li hanno trasgrediti gli imbecilli e quindi è una cosa che non credo sia neanche piacevole. 

 

 

Oggi dipinge ancora?

No… dipingere vuol dire vivere da pittore, mangiare da pittore, guardare da pittore, altrimenti non si può farlo. Non sono mai stato un paintre du dimanche. Un paintre du dimanche è stato Gauguin all’inizio e va benissimo, però dopo, prima di morire, se n’è andato a cercare se stesso da qualche parte alle Isole Marchesi… capito cosa voglio dire?

Sì. E invece oggi quanto tempo passa a suonare, a cantare?

Beh dipende dalla giornata e dipende da come mi sento io… la musica è qualcosa che accompagna la tua tristezza oppure accompagna la tua allegria. La musica è qualche cosa di astratto: per questo è così bello scrivere con la musica, perché la musica evita gli equivoci della parola. La musica è una compagna che, se cominci, ti accompagna tutta la vita ed è bellissimo avere una compagna così. 

Scrive ancora?

Se scrivo ancora? Sto scrivendo quattro o cinque canzoni e non riesco a finirle, per cui non mi svegli questa cosa che poi mi sento male… 

Va bene allora facciamo finta che non abbia fatto la domanda.

Va bene. 

Ecco, direi che ho quello che mi serve e anche di più. Se fosse per me starei a parlare tutto il pomeriggio, però purtroppo devo mettermi al lavoro. Quindi la ringrazio…

S’immagini. 

Non solo per l’intervista, ma anche per le sue belle canzoni che mi ascolto spesso. 

Bene, bene. Sono contento. 

Grazie allora. 

Arrivederci. 

A presto. Spero di sentire le canzoni eh…

(ride) Prima o poi. 

Grazie ancora. 

Ciao. 


A.A.A. Cercasi candidati per la seconda edizione del PIASE contest 🎨

Il PIASE contest è un concorso di idee creato nell’ambito del progetto “Sulle tracce di Dino Coltro” premiato da Fondazione Cariverona per creare un circuito turistico che, attraverso la storia e l’immenso lavoro di Dino Coltro, contribuisce a promuovere i luoghi della PIAnura veroneSE valorizzando le sue bellezze paesaggistiche e le tradizioni storiche e culturali.

Humanitas Act – APS titolare del progetto e il partner Salmon Magazine lanciano un contest per lo sviluppo di proposte artistiche e performative (ad esempio narrativa, musica, fotografia, scultura, recitazione, ecc.) ispirate all’opera del maestro e in particolare dedicate alla civiltà contadina e ai suoi prodotti tipici.

L’obiettivo è quello di valorizzare la creatività dei giovani offrendo loro gli strumenti per progettare e realizzare attività nel contesto sociale, culturale e territoriale in cui vivono. Siamo convinti che i giovani, colto il messaggio e conosciuta l’opera di Dino Coltro, sperimenteranno un’esperienza unica e originalissima con cui avvicinare nuovi target alla propria produzione e sapranno farla diventare un volano per il territorio.

TERMINI DI PRESENTAZIONE PROGETTI: 

MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 2024

VENERDÌ 27 LUGLIO 2024 è la nuova data!

esclusivamente via mail a info.piase@gmail.com.

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