Salmon Responsoriale #1

 

 

Salmo Salar, noto in italiano come salmone dell'Atlantico o semplicemente come salmone, è un pesce osseo d'acqua dolce e marina tipico dei mari temperati e freddi del nord Atlantico. Nasce in acqua dolce, vicino alle sorgenti dei torrenti di montagna; vive prevalentemente in mare per poi risalire il fiume fino al punto in cui è nato, si accoppia, depone le uova e muore. Ecco, come il nostro pesce ispiratore, facciamo le cose a modo nostro. Nasce così questo nuovo appuntamento mensile, una specie di editoriale, il Salmon Responsoriale. Tratterà argomenti casuali, ma interessanti, verrà sempre pubblicato l'ultimo Martedì del mese.

 

 

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E anche noi partiamo dalla fine.

Da una specie di manifesto per capire noi cos'è Salmon Magazine e spiegarlo anche a voi.

In primis, Salmon Magazine è un gruppo di professionisti che attraverso un approccio pragmatico e strumenti di volta in volta più funzionali, promuove il lato contemporaneo, innovativo, creativo e inclusivo di Verona e Provincia.

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Quanto detto si traduce oggi in:

- una pagina Facebook che segnala, almeno una volta al giorno, la più interessante iniziativa della giornata

- un sito web che raccoglie quotidianamente il top delle iniziative locali della settimana e un magazine online vero e proprio, con contenuti originali, creati per approfondire le realtà nascoste di Verona.

- un profilo Instagram che pubblica, quando gli capita, le foto fighe della Verona meno patinata

- un profilo Twitter, emanazione sintetica della pagina Facebook

- un account Whatsapp (+39 329 0703406) che una volta alla settimana vi molesta con la chicca della settimana

- quando ci sono i soldi, una pubblicazione cartacea tascabile, curata da una coppia fotografo/grafico che per 3 mesi girano l'underground locale, lo raccontano e ne fanno una selezione che viene pubblicata su carta e distribuito dal lago alla Lessinia in 20000 copie

- alla bisogna, reportage live.

- attività di talent scouting tra i più promettenti e giovani creativi - in un'incredibile attività di avviamento networking e sinergie

- photoshooting e video

- ideazione e organizzazione workshop e corsi di formazione

- progettazione e organizzazione di eventi

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E il manifesto di Salmon Magazine?

Salmon Magazine è un collettivo creativo che ha scelto l'anonimato, per quanto possibile.

Salmon Magazine è libero e promuove solo ed esclusivamente quello che considera meritevole.

Salmon Magazine è Verona e provincia, ma, se per caso, ogni tanto, ci sono eventi fuori città che meritano di essere fatti conoscere, li aiuta.

Salmon Magazine è super partes.

Salmon Magazine fa azione politica nel senso civico del termine, ma non nel senso "partitico".

Salmon Magazine è trasversale perché ci esaltiamo se al centro sociale ci va la famiglia borghese di borgo trentini e alla mostra d'arte contemporanea ci vanno i butei dell'Hellas.

Salmon Magazine è per il turista, al quale vogliamo far vedere che oltre all'Arena e a Romeo e Giulietta ci sono molti molti molti altri fenomeni che fanno figate di valore assoluto, anche internazionale.

Salmon Magazine ama le differenze e non vede l'ora di lavorare con e per i migranti.

Salmon Magazine ama il bello e quindi, nel limite del possibile, gli interessa curarsi, farsi figo e parlare in maniera brillante ed arguta.

Salmon Magazine ha un approccio positivo alla vita e i goti li vede sempre mezzi pieni.

Salmon Magazine è femmina, maschio e tutti i genere possibili e immaginabili.

Salmon Magazine è di tutti e chiunque può intervenire, suggerire, influenzare, ispirare, scrivere e pubblicare.

Salmon Magazine è soggettivo e suscettibile di errori.

Salmon Magazine è fluido come il fluido in cui nuota e non può fermarsi mai. Adesso è qua, ora non lo è più.

Salmon Magazine è branco. Il vostro.

 

Salmon Lebon

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Dente in concerto: l'intervista

La penultima data del tour di Dente è stata particolarmente importante. È stata particolarmente importante perché era a Verona, grazie a Emporio Malkovich che ha organizzato l’ormai consueto concerto prima di Natale.

Se l’anno scorso sono venuti i Verdena con la loro aggressività sperimentale e la malinconia acida, quest’anno era tutto più in sordina. Giuseppe Peveri, in arte Dente, contamina l’ambiente circostante con leggerezza infantile e delicata autoironia: le stesse con cui spara coriandoli da una pistolina giocattolo su Noi e il mattino o con cui chiama il suo sito www.amodente.com. E le stesse che si trasformano in magia durante Coniugati passeggiare.

Dente con i Plastic Made Sofa al Pika Club
Dente con i Plastic Made Sofa al Pika Club

Nonostante le spinte rock dei Plastic Made Sofa, band di accompagnamento, al Pika Club il cantautore di Fidenza ha mantenuto la sua allure, con un repertorio di brani tratti dai vari album. Cosa sia questa simpatica allure un po’ anni ’50 e ’60 non è facile a dirsi senza vedersi. Per questo, abbiamo pensato di fargli qualche domanda.

 

Hai appena terminato il tour per promuovere l’ultimo album: un bilancio? Sei soddisfatto?

Sì, sono molto contento e molto positivo, stranamente... di solito non sono una persona positiva. Ci sarà una seconda parte del tour nel 2017, ma intanto ho ritrovato delle belle energie, che non provavo da un po’, perché ero fermo da un po’ di tempo. Il desiderio di uscire di nuovo, di suonare di nuovo c’era, e l’ho colmato abbastanza bene.

L’album sta andando bene (il vinile era al secondo posto delle vendite secondo FIMI)... si intitola Canzoni per metà: cosa significa?

È una frase a doppio senso: significa sia canzoni scritte per delle metà sia canzoni a metà, o meglio, che possono sembrare lasciate a metà. Cosa che non sono perché, quando hai detto quello che volevi dire, possono anche finire lì.

Dopo aver lavorato per un periodo con le major, hai pubblicato Canzoni per metà con la tua etichetta, Pastiglie: come mai questa scelta?

Volevo provare cosa vuol dire avere un’etichetta e poi volevo velocizzare tante decisioni: se tu sei la tua stessa etichetta per decidere ti bastano pochi secondi. Se invece è un’etichetta esterna bisogna aspettare, avere il consenso di questo, di quell’altro, quello telefona a quello che manda una mail in America che torna indietro con la nave: ci si mette un po’ più di tempo. Invece così si velocizzano tante cose.

L’album esordisce con Canzoncina, dove dici chiaro e tondo: «I cantautori non vendono più»… una frase per certi versi poco incoraggiante. Cosa consiglieresti tu ai giovani cantautori?

Si sa che i dischi non vendono più... È una realtà: la musica oggi si ascolta in modo diverso e il disco sarà inteso sempre più come gadget, come oggetto da avere. Mi sembra stupido andare contro questa tendenza. Quello che io consiglio e ho sempre consigliato è di farsi ascoltare in tutti i modi, suonando dal vivo soprattutto, senza farsi troppi problemi su dove come e per quanto si suona. Se uno vuole suonare e vuole farsi sentire, lo fa a qualsiasi cifra, in qualsiasi posto, a qualsiasi condizione. E poi un’altra cosa che dico e che non dice mai nessuno, ma che mi piace dire perché è non si dice mai, è che se la cosa non funziona dopo svariati tentativi, bisogna farsi delle domande.

E abbandonare?

Insomma, ci sono alcuni che vengono da me dicendomi: «Sono dieci, quindici anni che propongo la mia musica, la faccio sentire, suono, giro, ma non è successo niente». Probabilmente la musica che proponi non funziona, o non piace, molto semplicemente... Questa cosa non la mette mai in conto nessuno, ognuno si sente di fare la cosa più bella del mondo.

Scrivi e canti da sempre in italiano: è stata una scelta o ti viene in modo naturale?

Mi viene in modo naturale… è la mia lingua, mi piace molto e mi esprimo attraverso questa lingua. Esprimermi in un’altra lingua come l’inglese, per quanto poco la possa sapere e comprendere, quindi non avendo una padronanza così alta, mi è sempre sembrata una sciocchezza, un po’ senza senso. Io mi esprimo in italiano, è la mia lingua.

Dente al Pika Club
Dente al Pika Club

Chi c'è fra le tue influenze musicali?

Fin da ragazzino, ho ascoltato sempre tantissima musica: mi sono innamorato della musica ascoltandola. Le primissime cose che ascoltavo erano “indotte”, diciamo, quelle che non scegli, che ascolti perché le ascoltano in casa ed era la musica italiana degli anni ’60. I miei genitori avevano vent’anni negli anni ’60 e hanno continuato per tutta la vita ad ascoltare la musica degli anni ’60. Da lì mi sono innamorato di Lucio Battisti, ho cominciato a comprarmi le sue cassettine ed è iniziato il mio viaggio nella musica. Poi da ragazzo ho ascoltato tantissime cose che venivano dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra... La musica del passato è quella che più mi piace e forse si sente che ricerco in quella culla: le cose che si facevano una volta esercitano un fascino non indifferente su di me. In particolare, la musica degli anni ’60 per me ha una magia irripetibile.

Quando hai cominciato a scrivere le prime canzoni?

Da molto giovane, da ragazzino. Ho cominciato a scrivere delle poesiole: non suonavo all’inizio, ho iniziato a suonare la chitarra a vent’anni. Scrivevo queste cosine qui, e alcune sono diventate poi delle canzoncine quando ho preso in mano la chitarra. Ho sempre usato la musica per esprimere quello che volevo dire... Non sono mai stato un chitarrista da spiaggia, non conosco le canzoni degli altri. Ho solo utilizzato il mezzo per poter cantare quello che avevo scritto.

Quando scrivi parti dalle parole o dalla musica? Se c’è una regola…

Non c’è una regola. A volte di qua, a volte di là. Spesso contemporaneamente.

Dato che il nostro magazine si chiama Salmon ci ha colpito molto l’immagine del disco. È stato probabilmente per pensare a noi… 

Sicuramente.

Come l’hai trovata?

È un’opera di un artista argentino, Federico Alfonso: l’ho vista su internet e l'ho contattato. Mi piaceva molto l’idea del collage perché il disco è un po’ un collage, dato che l’ho suonato tutto da solo e ho incollato le varie parti insieme. Quindi, partendo dall’idea del collage, questo in particolare mi è piaciuto molto, perché va contro la natura, contro la natura mitologica addirittura: è una sirena al contrario, con la faccia da pesce e il corpo da donna. Come la donna pesce al contrario, il mio disco è un po’ una cosa che va da un’altra parte rispetto a quello che ci si aspetterebbe.

Canzoni per metà, Dente
La copertina di Canzoni per metà, uscito lo scorso ottobre

 

Giò Girardi in Salmon


Disincanto di Natale - Bianco e Noir

 

“Bianco e noir”, Verona: una serie di racconti a puntate. Dagherrotipi e litografie,
vecchie foto in bianco e nero: ovviamente Verona, due secoli fa.
Ogni foto nasconde un mistero: l’ispettore Mastino Giusti è il protagonista.
Il Cafè Noir è la sua base, la grappa e le api le sue passioni.
Di più non posso svelare, questo è il primo episodio.


Verona, 24 dicembre 1881.

I rintocchi della campane risuonano cupi mentre la processione si avvia lungo il viale del camposanto. I corvi svolazzano sopra le nostre teste, impeccabili nei loro smoking neri. Alzo il bavero del cappotto e abbasso la tesa del cappello di lana grezza. Stringo gli occhi per proteggermi dal turbinio della neve che scende portata dal vento e serro la presa sul mastino d’argento che sormonta il bastone d’ebano scuro. Chiudo la fila, fatico con il mio passo malfermo, gli scarponi lottano con il fango che m’inzacchera i pantaloni.
Al mio fianco Marogna cammina con il suo grugno duro, gli occhi arrossati e il respiro che si perde in nuvole di vapore. Un suo caro amico, un càna come lui, è stato trovato morto in casa sua, due sere fa.

Più avanti c’è la fossa che attende il nuovo inquilino. Intorno pochi parenti, canuti devoti che stringono il rosario e l’Ispettore Martini. La vedova è avvolta in una veste scura e il velo che le copre il viso si alza ad ogni folata di vento. I suoi occhi, neri come il cielo che incombe sopra di noi, sono più freddi di questo vento che ci sbatte contro. Il suo sguardo mi regala un brivido che percorre la schiena.

Non vedo lacrime. Ognuno di noi elabora le perdite in maniera diversa: c’è chi si dispera, chi sospira alla vita che verrà dopo la morte, chi brinda al defunto. Lei, la donna in nero, non lascia trasparire nulla.
- Mastino… – mi sussurra Marogna – Manca il fratello.
E le sue parole risuonano come il peggior atto d’accusa.

Il prete sproloquia sulla caducità della vita. Le preghiere riempiono l’aria in questa vigilia di Natale. E’ buffo, penso, in un giorno che prelude alla vita stiamo celebrando la morte.
Sarà il mio sesto senso ma quell’uomo è stato ucciso.
In pochi qui lo sanno, a parte me s’intende.

Il cielo si fa ancora più scuro portando nubi cariche di gelo. La cerimonia è finita, la bara viene calata nella buca e le litanie di rito accompagnano i becchini, attori consumati che portano a termine il loro lavoro.
Il suono che giunge annichilisce.
Non mi resta che render giustizia al morto, per questo mi hanno chiamato: sistemo sulla Terra quello che più avanti toccherà a Dio giudicare.

- Seguimi – sussurro a Marogna mentre ci incamminiamo verso casa.
La vedova ci precede, ha il passo spedito, la camminata di chi ha qualcosa da nascondere.
Le stiamo dietro, faccio fatica ma non mollo.
La donna svolta a destra, traffica con le mani nella borsetta ed entra in casa.

L’Adige sotto di noi scorre tumultuoso.
Siamo dello stesso animo, io e Marogna.
- E’ casa loro – mi dice l’agente.
Non ha ancora elaborato il lutto, il suo collega ora abita al Monumentale.
- Lo so – rispondo.

C’è una locanda lì vicino.
Propongo un brindisi in onore del defunto. Prendo il bicchiere e mi verso una dose abbondante di grappa. La sento scendere ad infiammarmi gli intestini: riprendo colore, calore, forza.
Marogna fa lo stesso.
Beve ma è come se non sentisse nulla.

La grappa rinfranca.
Così torniamo in strada mentre il vento sibila rabbioso.
- Passiamo dal fratello – propongo avviandomi.
C’è un dubbio che m’assilla. Se troverò la risposta che cerco questo caso sarà chiuso.
Marogna non capisce. Non è colpa sua, alle volte proprio non ci arriva. E’ un campagnolo al quale hanno fatto indossare la divisa. L’acume non gli appartiene ma i suoi sberloni sono un’arma micidiale.
- Non possiamo andare subito da lei – dico come a spiegargli un’ovvietà.

La casa del fratello non è distante.
Saliamo al piano e non troviamo nessuno.
E’ la conferma che cercavo.
- Dalla vedova – dico all’agente mentre torno sui miei passi.

Non c’è bisogno di bussare.
Da dentro la casa giunge un lieve sussurrare.
- Buttala giù – ordino a Marogna che mi guarda stralunato.
E’ una frase che è un invito all’azione, al càna basta un calcione e la porta s’abbatte sul pavimento insieme a cardini e calcinacci.
Un botto tremendo.

Solo per noi a quanto pare.

La donna infatti non si scompone.
Non ci degna di uno sguardo.
Sullo sfondo un camino acceso rischiara una stanza spoglia che odora di muffa e di chiuso.
Mi aspettavo di trovarli insieme, la vedova e il fratello.
Ma di certo non credevo di vederli in questa situazione.
L’uomo infatti è imbavagliato, stretto da corde che gli imprigionano braccia e gambe ad una sedia. Lo sento mugolare, atterrito.
Ci credo che se la stia facendo sotto.
La vedova nera ha un coltello in mano.

Accade tutto in un attimo.
Assisto come in un brutto sogno a Marogna che le si getta contro e la immobilizza. Il coltello vola lontano mentre il prigioniero, in un riflesso condizionato dalla paura, si butta all’indietro e vola a terra con la sedia.
Sbatte la testa, una tega tremenda.
In un attimo sono sopra di lui, pronto a dare un soccorso che non serve perché il colpo gli è stato fatale.

- Era il fratello – conferma Marogna tra una bestemmia e l’altra.
La donna confessa tra le lacrime: il matrimonio finito ancor prima d’iniziare, la passione per l’altro uomo che però non la corrispondeva.
La follia l’ha portata ad uccidere due persone.

Brutta faccenda le tresche amorose.
Se consumate in famiglia diventano tragiche e non è questione di statistiche: la realtà dei fatti è più che evidente.
Poi c’è la follia alla quale non si può dare spiegazione.
Così metto in bocca una liquirizia, prendo il tabacco dal taschino della giacca e mi preparo una sigaretta.

Villa Giusti è casa mia.
Fervono i preparativi del Natale: cenone con la nobiltà veronese.
Mia madre ha organizzato tutto nei minimi dettagli.
Mia madre…
Il rapporto con lei assomiglia a quello di un eroe che sfida l’Idra: c’è sempre una nuova testa da tagliare, una nuova incomprensione da risolvere, un nuovo litigio da intraprendere.
Non andiamo d’accordo.
Mai.
Nella carica di Custoza ci ho rimesso una gamba e ho perso mio padre, il Generale. Lottavamo per valori più alti di un tè nei salotti del Caffè Dante.
Quei crucchi bastardi me l’hanno ammazzato.
Una palla di cannone ha frantumato le nostre vite.

Sento le campane del Duomo suonare.
La mezzanotte è vicina e la cena è già iniziata.
Io ho altre cose a cui pensare.
Alla grappa per esempio.
E ai miei demoni privati.

Smokey Salmon

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Nessi di Alessandro Bergonzoni

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Esiste una realtà dove le parole giocano fra loro e, una dopo l’altra, a grande velocità, generano immagini che si fondono, si trasformano ed esplodono di nuovo in un gruppo di lettere, non prima di restare congelate nella memoria dando vita a storie assurde. Qui si ride, si ride a crepapelle; talvolta si riflette. Il filo del discorso scorre vorticosamente, prende forma e si ritrae all’improvviso nei gesti di un attore dai lunghi capelli grigi scarmigliati.

Quello è Alessandro Bergonzoni. E questo è uno dei suoi monologhi.

Nato a Bologna nel 1958, Alessandro Bergonzoni debutta come attore e autore di teatro da giovanissimo. A soli 24 anni, dopo l’Accademia Antoniana e la laurea in giurisprudenza, inaugura con Scemeggiata i temi ricorrenti dei suoi spettacoli, ovvero il mondo dell’assurdo e i giochi linguistici. Presto si cimenta con altri media, come la radio, la televisione e soprattutto la scrittura - oltre a rubriche sulla stampa locale e nazionale, il suo primo libro Le balene restino sedute si aggiudica il premio come miglior libro comico al Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighiera. Organizza seminari nelle università di tantissime città italiane eccetto Verona e viene spesso invitato al Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo. Lavora col cinema, dove fra gli altri interpreta il direttore del circo nel Pinocchio di Benigni, e da qualche anno si dedica perfino all’arte plastica.

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Una creatività versatile che vuole comunicare, insomma. Non a caso l’ultimo spettacolo, arrivato al Camploy grazie alla rassegna l’altro TEATRO, s'intitola Nessi. Difficile essere sicuri di che nessi si parli, dati i continui salti logici e analogici sul palco. Ma, come suggeriscono alcune parti del monologo, i nessi potrebbero essere quelli che ci legano nel profondo alle persone: sia a quelle prossime, con cui ormai dimentichiamo di comunicare, sia a quelle lontane, che magari sono sotto le bombe ad Aleppo.

Per questi repentini agganci all’attualità non si può parlare esattamente di fuga dal reale. Nelle esperienze parallele dentro alla testa di Bergonzoni c’è sempre, come tematica di fondo, una riflessione che l’autore ritiene urgente per i nostri tempi (il penultimo spettacolo s’intitolava appunto Urge – assai replicato, è uscito anche al cinema). Con Nessi, il problema è che siamo sempre «suinternet, questo concetto maiale, dove non si butta via niente e invece si dovrebbe buttare tutto».

Sono giochi di parole, sì, ma con un senso profondo. Le due ore di monologo di Bergonzoni funzionano come uno sguardo da un’altra prospettiva: dall’interno del mondo del possibile aperto dal linguaggio, dove concettuale, letterale e corporeo si mescolano in piena libertà generando un senso, che resta allo stato nascente. Sembrerebbe quasi di stare leggendo filosofi o artisti del Novecento, e invece no. Siamo oggi a teatro e si ride a crepapelle.

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Giò Girardi in Salmòn


Book_oncini: Mio Salmone domestico

 

Una rubrica sui libri, davvero? Una piccola promessa e una sincera premessa

Lo scrittore (ma vale per tutta la catena alimentare fino all'ultimo e infimo scribacchino) deve fare un patto con i suoi lettori. La regola aurea di qualsiasi corso di scrittura creativa, diciamo terza slide dopo "Cos'è la scrittura creativa".

Quindi, un patto lo facciamo anche noi. Queste non sono recensioni. Sono cose belle, alcune bellissime, altre disperate che certe pagine hanno saputo trattenere meglio di altre.

I libri capitano. Questa è la grande verità che già vi sta facendo accartocciare le sopracciglia. E arrivano, il più delle volte non richiesti, come una specie di amore.

Quindi, bando alle ciance, ed ecco quello che non avete chiesto. Ovvero, un libro sui salmoni

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La prelibatezza: "Mio Salmone Domestico" di Emmanuela Carbé (che, per dire, è pure veronese) (2013, Laterza)

Pagine: Pochine. 116+ "Tavole per esercitazioni a casa" (disegnate "sulle peggiori carrozze di Trenitalia" dall'autrice stessa)

Tempo di masticazione: 2 sere (oppure 2 pause pranzo e mezzo oppure un sabato di pioggia senza Netflix)

Da provare: Quando finisce un amore. E si sta male. Ma anche quando si scambia un nuovo inizio per un precipizio.

Sapore: Salato di perfetta ironia, aspro in alcuni punti con durezza. Dolcissimo, però. Assomiglia al tamarindo.

Umami: Pagine 105-106

Assaggi: 

  1. "Mio salmone domestico c'è sempre una crisi. ha passato ultimi mesi che pareva una burla. Prima si conficca un vetro sotto il piede poi centodiciotto poi tonsillite acuta maggio dico maggio poi compra mocassini timberland che gli creano bolle enormi che gli creano stati confusionali che gli creano nevrosi io gli ho detto ti manca che parli ai lupi e alle zanzare e ti fanno beato".

 

  1. "Allora, gli dico, prendi un oggetto qualsiasi, tipo questo sasso, e gli metto un sasso accanto, e poi gli dico, fallo diventare il bisogno della tua vita, forse starai meglio."

 

Sentite già uno sfregolio allo stomaco? 

 

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Anche noi l'abbiamo sentito questo appetito silenzioso. Perché abbiamo deciso di assecondarlo?

Il titolo non è stato determinante (un po' sì, dai). Il salmone in questione è Crodo, coinquilino imprevisto e dispotico di una ragazza che soffre di "claustrofobia urbana" e si ricorda "cose molto precise e piccole, ma le cose giganti sono distratta, le perdo". Insomma, è la storia di un'amicizia comica e sofferente. Vissuta nella quarta fila dei cinema, con le forbici in mano a ritagliarsi affetti. Come compagnia, una marea di oggetti che prendono vita. Pesci pinzatrice, polpi "cattivissimi", il poster di Eleonora Duse che "salmone domestico se ne è invaghito. Ma Duse sembra interessata a Sagomadigattuso"( che è, per dire, un cartoncino disegnato). A volte si punzecchiano, altre si rendono reciprocamente la vita impossibile, perché, sempre reciprocamente, si dicono la verità. Lui, in sostanza, affronta con lei lo strazio quotidiano di ritrovarsi soli dopo una fine.

 

(Tentate) note tecniche:

Il linguaggio è irregolare, a tratti quasi accidentato, che insegue la fatica dei passi dei due. E che pian piano si risolve e trova la via della chiarezza sintattica e narrativa. L'autrice prende in giro a turno: Crodo, la ragazza e te, lettore, che affoghi in frasi senza punteggiatura e tenti di prendere aria alla fine di periodi strani e avvolgenti. Finché lei, la ragazza, riesce a ritornare alla sorgente; non le servono più le parole degli altri. E tutte quelle del salmone, sagoma sfaccettata della sua fragilità. Sembra aver trovato la sua sintassi, ed è, forse, per il momento pronta a fare sua la difficile sfida di ogni cambiamento che si rispetti, "mai dritto e sempre dritto ad ali incerte". C'è Calvino, dicono i migliori tipo qualcuno de La Stampa.  Quelli di minima&moralia nelle frasi spezzate e negli "attentati sintattici" della Carbé dicono di aver trovato la frammentazione, la dispersione che oggi ci tocca in sorte (come il pianista americano Keith Jarrett che scriveva pezzi sbriciolati, perché "la nostra epoca non si merita più le melodie"). Se vi piace, potete infilare anche quelle cose liquide di cui va parlando pure Bauman, da un po'.

 

Illustrazioni tratte dalle "Tavole per esercitazioni a casa". disegnate dall'autrice - come si diceva - sulle peggiori carrozze di Trenitalia con l'Ipad e quei programmi di grafica che tanto vi deliziano
Illustrazioni tratte dalle "Tavole per esercitazioni a casa" disegnate dall'autrice - come si diceva - sulle peggiori carrozze di Trenitalia con l'Ipad e quei programmi di grafica che tanto vi deliziano

 

Una specie di morale (snobbate, se credete)

L'assenza si nutre di oggetti, di cose, di calzini dimenticati nei cassetti. E loro, le robe, che silenti assistono ai nostri diletti e ai nostri massacri, diventano anche, qualche volta, le protagoniste di una tentata rinascita. Nominarle, in questo libro che è "un diario di figure", secondo gli esperti, è l'unica via per stare tra di loro anche quando ci tradiscono. L'esperienza punge in faccia è c'è il tremendo bisogno di chiudere le imposte, le finestre e tutto l'ambaradan. Ma guardare il mondo dietro a un vetro chiede il conto ad un certo punto. E puoi stare nel mare, certo, ma se non ti azzardi a uscire dal tuo dentro, dalla tua boccia, mica la senti sulla faccia la trasparenza. Quello di non provare mai è "un modo, tuttavia, struggente di stare al mondo", per dirla come sola riesce a dirla la Carbé. E chi di noi non ha mai ingaggiato una battaglia per procura con se stesso? Chi è riuscito, davvero, a perdonarsi dopo una fine? Siamo spezzettati sempre, ma a volte ancora di più. Come la ragazza infranta, regina di questo volumetto, che si sforza, tra tic linguistici, manie elencatorie e fobie da ritagliare, di riappiccicarsi i pezzi sfilacciati di ciò che è stata e del futuro che aveva immaginato. E, piano, dice a quelli di noi che ancora stanno chiusi nei ricordi, che si può fare. Che mettere la testa fuori è un azzardo che si può fare.

 

Salmonita


Sockeye: intervista a Jack, di Buns Burgers

 Un McDonald mascherato da ristorante gourmet

(cit. un commento su Trip Advisor)

Abituato com’ero al grigiore della bassa padana, così viscerale che pareva aver intorpidito la limpidezza dei miei occhi, trovarmi d’un tratto sulla strada per la Valpolicella, inondato dal sole, dai colori dell’autunno sulle colline e dalla freschezza dei finestrini abbassati, mi fece venire l’acido lattico all’entusiasmo, tanto ero stimolato in un sol colpo a viver di bellezza.
L’incontro di cui vado a raccontare è un incontro sensoriale, in cui le parole, sebben molte e ben dette, sono state la parte più debole. Incontrare Giacomo, creatore dei panini di Buns, a casa sua, significa essere immersi in molti più stimoli di quanti se ne possa cogliere ascoltandolo parlare.

L’unità di tutti i mondi consiste nel formare sistemi di segni emessi da persone.
Gilles Deleuze

La casa di Giacomo non ha il campanello, o meglio, sono io che non ho capito come e se funzionasse effettivamente quel campanello; viene ad aprirmi il mio ospite e mi accompagna in una cantina.

“Questa è casa, mi sono sistemato bene, ma è provvisorio, sopra ci stanno i miei nonni”

Effettivamente Giacomo, che d’ora in poi chiameremo Jack, vive in un luogo che se preso da una gru immaginaria e spostato sulla Highline a New York potremmo definire un loft. Solo che siamo sulle colline di Verona, e la casa di Jack si affaccia su una corte. Non ci sono mura a dividere le stanze, non c’è un letto – dorme sul divano letto – e la cucina è grande come lui, ma quella casa è un museo delle intenzioni e della vita di Jack: Goonies alla tv, una pila di libri di tutte le cucine del mondo, un giradischi con del rap, una libreria dove ho ritrovato i “Piccoli Brividi” (“ma io li odio quelli”, mi dice Jack) libri sparsi di design e del genio di Luca Barcellona, una tavola immensa e un’altra, più piccola, apparecchiata per noi. Essere in quella casa è come essere all’interno dell’angolo di cuore di Jack, da cui scaturiscono le passioni: è tutto esposto e, sapendo dove cercare, tutto quel che di importante appartiene alla sua vita, è su quelle mura e su quei quattro mobili.

Andiamo in cucina, dove il tavolo è cosparso di materie prime che si trasformeranno in manicaretti: formaggio, cipolle caramellate, zucca, riso e crostini.

In grassetto le mie "domande".

“L’idea di Buns è nata, in qualche modo, anche qui, amavo far da mangiare per gli amici, e una volta ho fatto un hamburger con della carne che avevo preso qui vicino. Due miei cari amici, che già avevano un negozio a Verona, dopo cena mi hanno fatto una proposta concreta…e quella proposta aveva già a che fare con l’apertura di un’hamburgeria.”

“Buns è stato qualcosa di nuovo a Verona, nato forse ancor prima che arrivasse da noi la moda delle hamburgerie, e ancora è qualcosa di abbastanza unico e isolato in questo panorama.”

“Buns è un ristorante a tutti gli effetti veronese, faccio hamburger ma a Verona, con prodotti che vengono da Verona e frequentato da butei di Verona”

“Sì forse questa è la differenza con le varie altre hamburgerie, anche se, devo dirtelo gli hamburger più buoni che ho mai mangiato li ho mangiati Al Mercato e da Tizzy’s a Milano ”

“Aggiungerei anche l’Osteria del Borgo a Verona, dove lavora Andrea Colognato, il mio cuoco preferito di Verona: non è un hamburgeria, ma per qualche mese hanno fatto un hamburger che è stato uno dei miei riferimenti più importanti. In Buns c’è tutto il mio retaggio però: sto ancora andando in una gastronomia qui vicino, i Sapori del Portico, per imparare tutto sul mondo dei formaggi da un maestro come Giuseppe Bernardinelli, ho studiato moltissimo in varie realtà della zona come si gestisce la carne, e quale carne scegliere”.

“Capisco la passione, capisco l’impegno, la dedizione e la voglia di imparare…ma non sarà meccanico ora fare tantissimi hamburger a sera?”

Tutto il mio retaggio è lì dentro ora. Sono uno che si impone, purtroppo o per fortuna, sono un po’ maniaco del controllo però da un certo punto di vista penso che la mia idea si vede che sta funzionando. Quindi, non voglio lasciarmi scappare niente. La mole di lavoro di Buns, pur essendo sì meccanica, mi ha fatto capire che amo molto anche il lato gestionale di quest’avventura.”

La prima impressione che mi ha dato Jack è di essere entusiasta e folgorato (in senso buono, letteralmente folgorato) da quello che fa, da quello che sta facendo e da come il suo progetto si sta evolvendo, talmente entusiasta da sembrare supponente, a tratti. Il confine tra “tirarsela” e “crederci con tutto sé stessi” è sottile come una fettina di cheddar, e, per me, Jack è stato salvato da tutto quello che mi distraeva dalle sue parole.

Questo è un incontro sensoriale, ho scritto, e così è stato. Fortunatamente avevo il microfono a registrare lo sbrodolìo di parole di Jack, perché in pochi istanti la mia coscienza si è spostata sui suoi gesti: su come maneggiava le cipolle e il formaggio, sul suo lavarsi le mani ogni due minuti, sul come tagliava il formaggio sul tagliere e sul suono del coltello sul legno, su come palpava la zucca e come apriva, versava e serviva il vino. La folgorazione di Jack, era d’un tratto incarnata, visibile, in una ritualità manuale che forse è comune a tutti i cuochi, ma che per me, in quel momento, aveva il sapore di un cerimoniale.

Mentre partecipo a tutto questo, spunta d’un tratto il nonno di Jack che passando davanti alla cucina ci grida:
“Eh! Sio boni de far da majar!?”

Ho la bocca piena di formaggio, un formaggio fatto cagliare con i cardi, sto ascoltando Una Minima” di Fabri Fibra, dal vinile di Jack quando mi racconta la storia più assurda della sua vita, la storia che passa da un vecchio baule in casa sua, un giornale di satira, veronese degli anni ’80 e Buns, oggi. Un incrocio esistenziale così fitto che non posso che introdurre con chi scrive meglio di me.

Certo, se si tratta unicamente dei nostri cuori, il poeta ha avuto ragione parlando di fili misteriosi che la vita spezza. Ma è ancor più vero che essa ne tesse senza posa tra gli esseri, tra gli avvenimenti, che li intreccia, li raddoppia per far più fitta la trama, tanto che fra il menomo punto del nostro passato e tutti gli altri una ricca rete di ricordi lascia solo la scelta delle vie di comunicazione.
Marcel Proust

Primo intreccio. Si parte da una scoperta: il giovane Jack, rampante studente di "Linguaggi dei Media" alla Cattolica di Milano, trova, in un baule nascosto, in quella che adesso è la sua taverna, una maglietta di Verona Infedele. Verona Infedele è una rivista satirica nata a fine anni ’80, con sede in via Mustacchi 8, e pubblicata quasi clandestinamente fino a fine anni ’90. È qualcosa di grosso, Verona Infedele aveva collaboratori del calibro di Milo Manara ed è diventata famosa per aver anticipato dei nomi dei condannati per Tangentopoli. Estasiato per la scoperta dei numeri originali conservati dal padre, Jack scende dalla soffitta impolverata e -memore di quando girava per il Carnevale di Verona proprio sul carro di Verona Infedele - si precipita dal suo professore, e assieme decidono che Verona Infedele sarà l’argomento della sua tesi di laurea.

Secondo intreccio. Tutto felice per la laurea ottenuta, giovane spensierato e dedito alle arti, Jack aiuta Stefano Battistella con la produzione dell’album “Interrato dell’acqua morta”, progetto che terrà Giacomo impegnato per alcuni anni e, di cui, sento ancora tracce di orgoglio nel suo racconto.

Terzo e ultimo intreccio. BUNS. Abbandonata la carriera da giornalista, abbandonata la musica, Jack viene convinto ad aprire Buns, e lo apre, casualmente, proprio all’interrato dell’acqua morta.

E quindi? Mi chiederete.

I più esperti di urbanistica veronese ci saranno già arrivati, ma Verona Infedele, che Jack ha riscoperto anni e anni prima di pensare a Buns, il giornale che è stato la sua tesi di laurea – sbloccandolo dall’arido deserto dell’assenza di idee per la tesi in cui si era infossato -, aveva sede in via Mustacchi 8, che è già interrato dell’acqua morta, e che è la porta di fronte all’uscita della cucina di Buns, dove ogni sera Jack riposa tra sessioni di hamburger.

Giacomo ha troppo entusiasmo da non riuscire a tenerlo a bada, Buns è solo una fase, importante ed essenziale della sua vita, ma potrà cambiare un giorno o l’altro, esattamente come è cambiata la sua voglia di scrivere e diventare giornalista e come è cambiato il suo rapporto con il mondo della musica. Ma nella variabilità, e precarietà, di intenti di Jack, c’è una costante, un luogo che sempre l’ha accompagnato e che sempre è spuntato quasi improvvisamente in ogni avventura in cui si prodigava.
Tre dei momenti più importanti hanno un assoluto, un punto fermo, una costante, e racconti come questo sono quello per cui vale la pena di andare a intervistare la gente con Salmon, per farsi raccontare di come le cose che valga la pena raccontare non siano i successi, i risultati, l’Angus – non solo almeno, ma siano quelle dinamiche incredibili che creano, in chi le vive e in chi le ascolta, un sentimento di sacralità verso un percorso di vita.

Come un marchio, che ricorda che la bravura non è tutto, e che qualcosa dei risultati che si ottengono non dipende da te, ma da chissà cosa.

Vi lascio la ricetta, scritta da Jack, di tutto quel che ho mangiato. Non ne ho parlato perché dai crostoni alla cipolla al risotto alla zucca è stato tutto assurdo, forse tutto l'immaginario che, in me, aveva creato con i suoi gesti precisissimi si è incarnato nei piatti in tavola, nei morsi, nel gusto, nella consistenza delle pietanze: mi sono commosso...lasciate perdere Buns, fatevi amico Jack e fatevi invitare a pranzo da lui:

CROSTONI

Ingredienti:
Pane a fette
Cipolle
Monte veronese Vecchio (io ho usato un 24 mesi presidio slow food perchè ne assaggi un tochèto e ti par d’essere sdraiato in un campo a Erbezzo in un pomeriggio di fine Luglio)

Procedimento:

Tagliare il pane bianco a rettangoli. Tagliare le cipolle a rondelle e farle rosolare con un filo di olio extravergine di oliva e un pizzico di sale. Quando le cipolle saranno ammorbidite aggiungere qb di zucchero di canna e far caramellare. Godersi il momento della caramelizzazione, che è uno spettacolo per tutti i sensi. Disporre le cipolle caramellate sul crostone di pane bianco e aggiungere una fettina di Monte veronese vecchio. Cuocere in forno per 10 minuti a 200° C gradi. Resistere alla tentazione di mangiare subito il crostone. Il monte dopo 10 minuti in forno ustiona qualsiasi palato, anche il più avezzo alle alte temperature.

RISOTTO ALLA ZUCCA CON MORLACCO

Ingredienti:
Riso Vialone Nano
Burro
Zucca
Morlacco (che è un formaggio incredibile con una storia incredibile e forse avendo detto così tante volte la parola incredibile vi avrò incuriositi e andrete a cercarlo nell’internet)

Procedimento:
Pulire la zucca e tagliarla a pezzettoni. Condire con olio extravergine di oliva, sale, pepe e rosmarino. Disporre su una placca e cuocere in forno per 15 minuti a 180 °C. Controllare ogni tanto lo stato della cottura sbirciando nel forno per avere una cottura perfetta ed evitare il brusìn alle estremità.
Tostare il riso con il burro quindi aggiungere la zucca. Un po’ alla volta aggiungere mestoli di brodo fino ad arrivare alla cottura desiderata. Mescolare continuamente, che con il riso l’è un attimo e ci si ritrova con metà teia incrostata. Spegnere il fuoco, aggiungere il Morlacco a cubetti e mantecare. Attenzione: per mantecare come Dio comanda bisogna stare attenti: darci dentro sì, ma con delicatezza. Bisogna far montare il formaggio senza però spapolàr tutto. A mantecatura ultimata versare due dita di Valpolicella Classico, mescolare e coprire con un panno per due minuti (questa sarebbe la magia vera e propria del piatto e anche la parte scenica per gli ospiti a tavola. In questo caso io ho anche spento le luci inventando una clamorosa storia sul fatto che il risotto al buio vien più buono). Servire e magnàr. Che la vita è una, le gioie poche ma di riso a Verona ne abbiamo a buso.

Ci abbiamo bevuto dietro un From Black to White di Zymè (cantina che è letteralmente sotto la taverna dove vivo) e un Valpolicella Classico biologico di Speri.

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.