COSÌ GIUSTO PER FARE 4 CIACOLE

C’è una cosa più di tutte per cui Salmon Magazine è veramente imbattibile: conoscere idoli. Una delle conoscenze più sorprendenti che abbiamo fatto negli ultimi 12 mesi è quella di Hakim Bensalah. Non stiamo qua a tesserne le lodi oltre il dovuto perché il modo migliore per capire cosa intendiamo è andare a cena nel suo micro-ristorante in Via Muro Padri, Veronetta: MADRES.

Ci sta però raccontarvi dell’altro. È stato grazie a lui, infatti, che una settimana fa circa ci siamo imbarcati in un volo diretto a Marrakech, Marocco. Con lui nella patria dei marocchini, quelli che ci portano i tappeti a casa, quelli che spacciano il fumo, quelli che vendono la qualsiasi nelle spiagge italiane, quelli che si ubriacano perché a casa loro non hanno l’alcool, quelli che sono malati di figa perché a casa loro le hanno incappucciate.

 

Ecco, siamo andati a casa loro grazie al fatto che Hakim stesso è un marocchino. Anche se è uno dei cuochi più incredibili che mai incontrerete nelle vostre vite, sebbene la sua cucina passi dal Giappone all’Antica Roma, dal Marocco appunto a Copenaghen, lui è figlio di marocchini.

Bene, sono stati 5 giorni incredibili. Non staremo qua a tediarvi con tutte le morali che la nostra esperienza in Marocco ci fa venire voglia di farci e farvi, ma vi suggeriamo solo di andarci.

E se per caso ve lo sarete dimenticati come avevamo fatto noi, tornate ad apprezzare l’enorme utilità che può avere il viaggiare. Per capire il mondo che avete attorno, per capire Veronetta e i suoi abitanti, per capire quanto sono gravi certi pregiudizi che ci inculchiamo a vicenda, per capire quanto siamo minuscoli e microcefali, per capire quanto il turismo può essere un problema più che la soluzione, per capire quanto è ingiusto che per noi italiani il viaggio Andata e ritorno per e dal Marocco, e in quasi tutti i paesi del mondo, è un click. Per un marocchino o, meglio, per la stra-grande maggioranza di loro, è assolutamente impossibile. Ed è assolutamente ingiusto.

Chi se lo ricorda Hamid Ronchi, vissuto in Valpolicella zona Torbe alla fine degli anni 90?


134 volte grazie

GRAZIE!!

134 grazie per tutti quelli che in un periodo così difficile hanno supportato Salmon Magazine attraverso le T-Shirt! Eravamo molto preoccupati, non avevamo mai fatto del merchandising prima perché avevamo sempre avuto paura di un super mega flop.
Ora non sappiamo dire se 134 sono tante o poche magliette. A noi, però, ci emoziona pensare che 134 di voi abbiano fatto lo sbatti di metter mano al proprio portafoglio e siano andati sul sito a procedere con la transazione, aspettare settimane perché la mandassimo in stampa e venire a ritirarla in negozio. Tutto questo per il Salmon: stupendo, veramente!

Un mega grazie anche ai 3 screanzati di Gaffe Studio: se non ci fosse stato il loro entusiasmo, se non ci fosse stato il loro spunto iniziale, se non ci fosse stata la loro abilità grafica, se non ci fosse stato il loro senso estetico, se non ci fossero state le loro idee precise non l’avremmo mai fatta.
Quindi 135 grazie.

Anzi 136, perché un 5 alto va anche a Marco e a tutto lo staff di Pixel aka Spaceneil. Super cordiale e super competente nel gestire questa pratica così confusionaria: grazie mille gnari di Veronetta!

E poi grazie a tutti quelli che hanno creduto anche nella mappa di Veronetta.
È fighissima, siamo super felici del risultato ottenuto. Solo grazie al supporto di tanti amici di questo quartiere mitico, siamo riusciti a realizzare un qualcosa che causa Covid sembrava compromesso. Rimanendo liberi da ogni condizionamento, liberi di scrivere ed esprimere a modo nostro l’amore per Veronetta e Verona in generale.

A tal proposito: siamo stati in giro, porta a porta, a parlare con tutte le piccole realtà di vicinato. Vi possiamo assicurare, non è un periodo easy: ci sono famiglie di piccoli imprenditori che sono veramente in grossa difficoltà. Negozi, bar, osterie… in grossissima difficoltà. Ci sono tanti lavoratori che sono a casa in cassa integrazione (nel migliore dei casi). Tante attività costrette a chiudere perché impossibilitati ad andare avanti. C’è tanta più gente che s’aggira come fantasmi, senza più nulla.

Non prendiamo sotto gamba questo periodo; è difficile, difficilissimo, ma dobbiamo stare attenti. Per cui, mai come adesso, pensiamo bene dove spendere i nostri soldi e, soprattutto, seguiamo le pratiche anti-covid. Scusate il momento “tristezza”, ma solo se sappiamo fare tutti la nostra parte, possiamo uscire fuori bene da questo periodo del cazzo

Inoltre, un pensiero alla lotta contro le discriminazioni razziali: le vite di chi ha un colore di pelle diverso dal nostro sono importanti anche a Verona.

Infine, un pensiero a Betta de la Vecia Veroneta: tanti di voi se la ricorderanno, sempre sorridente e disponibile, sempre carica e allegra. Ha lasciato un grande vuoto nel nostro quartiere e soprattutto ai suoi cari; teniamola sempre nei nostri ricordi!

 

Scarica qui la mappa di Veronetta in PDF


Tour da Salmon: Veronetta

Cos'è il "tour da Salmoni di Veronetta"?
È un tour a costo zero, veloce e tutto fronzoli: se vuoi conoscere un territorio parti dai dettagli, lasciati andare e un pochino perditi.
Fatti solleticare da Veronetta, lascia che ti bisbigli un segreto insolito e guardala arrossire.
I classiconi possono aspettare.
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Avvertenze: organizza questo tour in ordine sparso, non pratico, non consequenziale: non mettere in ordine i punti, non ottimizzare il percorso, goditi il passare 2-3-4 volte dalla stessa via, osserva, elabora un tuo pensiero e giudizio critico, lascia il percorso, riprendilo, condividilo, fallo da solo, ripeti l’esperienza e assapora come varia la percezione, fallo con il sole, fallo con la pioggia, fallo concentrandoti sugli odori, fallo in bicicletta oppure, ignora ogni consiglio.
In una frase: fallo come vuoi ma fallo.

Location: Veronetta

Tempo di percorrenza: da 15 minuti a 3 generazioni

Dislivelli: ocio ad alcune scalinate davvero potenti

 

VIA ALLE TAPPE!

Vicoletto Cieco Croce di Malta
Sarà la vicinanza con il centro scommesse più chic di Verona e provincia, sarà il fatto che in quella viuzza non ci batte mai il sole o sarà quel che sarà, ma questo vicolo ci ha sempre ispirato sensazioni alla bassifondi di Bladerunner.
NB. Se sei nel vicolo e passa la polizia, “vai in prigione direttamente senza passare dal via.”

 

I Matitoni di via XX Settembre
Tra 15 anni, quando la nostre prole, eventuale nipotame o fratelli piccoli andranno tra le mura di questa ex-cartoleria a fare aperitivo, ci piace immaginare che almeno i Matitoni saranno ancora al loro posto.

Nota postuma: i Matitoni non ci sono più. Che siano in restauro presso quanche studio affiliato al ministero dei Beni Culturali? O sono stati comprati da un ricco collezionista d'arte?

:(

 

 

 

Si stava meglio quando c'erano loro.

 

Antichità e Restauro in Via S. Giovanni in Valle
Un’occhiata alla vetrina e poi dentro a chiedere se hanno il libro della Storia Infinita o Jumanji (prima edizione).

 

 

“Il traffico siete voi”
Andate, leggete, pensate e lasciate un fiore.

Nota postuma: rimosso da qualche zelante imbianchino. La poesia rimane, e se una notte volete andare a ripozionarla con una decisa spraiata di colore non dite che vi abbiamo istigato.

 

 

Insegna “pesce fresco e surgelati”
Il carretto passava e quell'uomo gridava, “surGelati”. Insegna premio design 2008. In via S. Nazaro since memoria.

 

 

Il camion e L’In’s
Una storia d’amore che si manifesta ogni settimana.
Un tir arriva in Via S. Nazaro e con una manovra millimetrica si infila dentro l’In’s in un atto amoroso fatto di aderenze e carezze tra giranti. Poesia e consumismo: al contempo una critica al sistema e un invito a volersi bene incondizionatamente.

Solo foto by Google Maps. Non è semplice intercettare questo magico momento. Tu sei riuscito? Vuoi mandarci la tua foto?

 

 

Portabici UniCredit
Lucchetti arrugginiti, catene consumate e rottami incompleti. Il triangolo delle bermuda dei bicicli, il cimitero del “costa di più sistemarla che ricomprarla”
Anche qui lascia un fiore; non la bicicletta.

 

 

Meridione life sottoscala
La scala di S. Nazaro è un capolavoro. Se ci vai, prima di schiacciare il gradino numero 1 guardati intorno e respira la vibe meridionale di un vicolo monopolizzato da famiglie del sud Italia: That’s Amore! Poi visto che si siete salite la scala per studiare i tetti di Veronetta.

 

 

Il negozio di lampadine e sua insegna

Lazzarin, una luce nella notte di Veronetta. Eh sì qui si vendono bulbi luminosi dal giorno seguente in cui furono inventati. Menzione speciale all'insegna con la "S" capovolta e la scritta OSRAM che, come avranno già notato i più fini latinisti, al contario è MARSO.

 

 

Terrazza don Calabria
Salendo da via Scala Santa si arriva al non modesto complesso del Don Calabria. Se non ci vai alle 4 del mattino dovresti trovare aperto. Accedi al terrazzo panoramico e goditi forse la miglior vista possibile e immaginabile su Veronetta.

 


Veronetta all'occhio di Salmon

Antefatto.

Ci piace passare le serate in Veronetta.

Ma cosa essere "Veronetta"?

Essere tutta quell’area compresa tra lo storico perimetro delle antiche mura ad est estendendosi a sud da Porta Vittoria adiacente il cimitero fino alla chiesa di San Giorgio unica cupola della città e prospiciente a nord-est le verdi collinette comprendendo anche lo Castello San Pietro noto punto d’avvistamento sulle Toresele (ciapa fià).

Quindi Veronetta non è proprio etta. Il suo nome conduce sorprendentemente ai francesi: durante la loro occupazione nel periodo delle guerre napoleoniche (tra il 1801 e il 1805), “Veronette” stava ad indicare quella zona occupata dagli austriaci al di là del fiume; con una punta di sano schifismo del tipo "noi c'abbiamo Giulietta, l'Arena e voi non c'avete niente, puah VERONETTE; PUAH!"

Un quartiere che mostra quindi i segni di un passato pieno di storia, anche cruda, ma che adesso guarda avanti. Tra le tante cose è strano, e allo stesso tempo affascinate, pensare che dove adesso c’è asfalto una volta c’era un canale d’acqua chiamato “dell'Acqua Morta” (che, guarda caso, oggigiorno, corrisponde alla via Interrato dell’Acqua Morta). Veron(ett)a ha un legame stretto con l’acqua per il fatto che proprio in quella zona, in passato, venivano svolti vari lavori artigianali che richiedevano l’utilizzo di grandi quantità d’acqua, come la tintoria e la tessitura. Altro che baretti e casin, spusa e color! Questo quartiere era famoso in tutta Europa per l’esportazione di lana e seta, se ci fossero stati i social il berreto di lana di Veronetta se la giocherebbe ai like su Instagram con Buns Burger.

Insomma, una zona che nella storia a collezionato così tanti aneddoti che ne sono ammaliati anche i nerdoni più classicisti. Le chicche sono tantissime, una facile facile, forse la sapete, è che nella chiesa di San Tomaso [per intenderci dove parcheggi (se sei fortunato a buso) quando te vè a fare ape ai Portegheti ! ! ! ] c'è un organo suonato da Mozart nel 1770 (no robe de balon dell1985). Quel Mozart, non il fratello scarso, non il cugino acquistito non l'omonimo, non il travestito con il nome d'arte altisonante. E cosa direbbe W.A. se potesse camminare oggi per  Veronetta? Cosa direbbe dello stile dello studente fuorisede? Borsa di tela co le macie e l’occhialetto studiato ad hoc mentre si dirige in Frinzi a pregare tutti i santi per gli esami? SEHR GUT! Ben fato! Ho detto Frinzi? La Frinzi una volta era proprio parte di un monastero, quindi location azzeccattissima per studiare come un monaco e pregare tutti gli dei della storia per un 18ino. Ma non è tutto rose e organi: questo quartiere, che ha saputo evolversi nel tempo in modo originale tra street culture, hipsterismo con un tocco di international, oggi è oggetto spesso di non simpatici stereotipi a causa dell’elevata presenza multietnica.

A noi salmoni, l'atmosfera che ti travolge fin dal primo passo in zona, grazie a un profumo di curry mischiato a quello della pearà e a una musica afro vs il dialetto, piace. Passeggiare per le vie di Veronetta è come essere dentro un documentario di Piero e Alberto Angela alla scoperta dei luoghi più affascinanti del Pianeta, spaziando dall’architettura alla natura, dalla storia all’arte, dall’attualità al futuro della città. Per chi ancora non conoscesse questo quartiere il nostro consiglio è questo: esplorate senza meta e senza razio, a caso. Per il primo assaggio del quartiere ve lo consigliamo.

La volta dopo però mappetta Salmon in mano e via con furore alla scoperta del quartiere più carataristico di Verona.

Nota Bene: la mappa non è ancora uscita. La stiamo facendo. Intato abbiamo fatto un'altra cosa, che puoi indossare con orgoglio e che puoi acquistare qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima maglietta di Salmon, in assoluto, disegnata da Gaffe e realizzata da Pixel e sì è collegata a Veronetta e lo spieghiamo qui.


Perché mappare Veronetta

di Irene Viviani

Dopo una passeggiata alla scoperta della Lessinia, giungiamo fino alle porte della città per un
aperitivo in Veronetta, precisamente in Via Venti Settembre, per i più solo Via Venti, un po’ la via Mazzini de noialtri.
Una zona tanto amata quanto odiata, tanto evitata quanto frequentata, che vive di una
reputazione che non merita, ma che per noi salmoni ha un sapore speciale. Una casa colorata che accoglie tutte le
diverse anime che popolano questo quartiere: universitari, lavoratori, residenti e immigrati, creativi
squattrinati e gran signori veronesi. Veronetta un ostello che ospita, nei propri spazi storie, profumi, colori e sorrisi da tutto il mondo.
E come ogni viaggio on the road che si rispetti, abbiamo deciso di fare tappa in ostello e di
dedicare una pagina del nostro diario di bordo a questo quartiere che in troppi pensano di conoscere e aver inquadrato nel bene e nel male: dal canto nostro noi alziamo la pinna e dichiarando ingnoranza urliamo: vogliamo saperne di più!
Impossibile mappare Veronetta annoiandosi: qui si svolgono gli eventi più contemporanei nei
luoghi e nei locali più alternativi, dove le menti più folgorate si radunano per dare a Verona quel
tocco international/alternative/hipster/multiculturale/cool che, oggettivamente, manca. Oltre a
tutte queste robe da ciapadi, Veronetta vanta di una caratteristica speciale che la
contraddistingue da tutte le altre zone della città: è autentica (aka per i veri duri). Abbiamo fatto due ciaccole con una persona che il quartiere lo conosce come le sue tasche, in lungo e in largo, avanti e dopo Cristo: Pierluigi Grigoletti (Associazione Dèsegni e Cocai) che come prima perla ci offre il seguente stimolo, “Veronetta è una New York in miniatura dove delle volte si sta in trincea e delle altre volte ti sembra di essere in centro storico. È la terra delle contraddizioni. Veronetta non è per fighi, è per persone vere”, le quali, spiega Pierluigi, “hanno scelto di uscire dal proprio guscio con la volontà di entrare in
contatto con l’altro diverso da loro”. Queste persone se ne fregano della citazione shakespeariana e riscoprono in Veronetta tutto il mondo che c’è al di fuori delle mura (a volte reali a volte ideali) di Verona. Noi salmoni abbiamo accettato la sfida e da veri duri vogliamo capire cosa significa mappare un quartiere autentico. Vogliamo mappare Veronetta non perché sia una figata in sé, ma perché dodata di una sua identità viva e pulsante. Noi vogliamo immergerci testa e piedi, fare il pieno di chicche e riempirci la bocca di stupore e meraviglia.

Venite anche voi a sporcarvi le mani?


GIORGIO BERTANI, EDITORE - Storia di un documentario

Di Tobia Poltronieri

(in memoria)

Un pomeriggio dello scorso settembre camminavo verso casa con in mano una copia del Mistero Buffo. L’avevo appena comprata alla Libreria del ‘900, nella celeberrima edizione Bertani. Tra a me e me pensai che come minimo sulla strada di casa avrei incontrato il suo editore. E così fu. Pochi minuti dopo lo vidi camminare lentamente verso di me dalla parte opposta della strada all’altezza della chiesa di San Tommaso, che poi scoprii essere il suo luogo “ufficiale” per le letture dei quotidiani. Mi avvicinai a lui mostrandogli la copertina del libro e gli dissi semplicemente “Salve”. Era confuso e contento allo stesso tempo. Cominciò subito a raccontarmi che quella era la terza edizione del 1974, che valeva moltissimo (nonostante io l’avessi pagata pochi euro) e mille altre informazioni che ho dimenticato, non strettamente collegate al libro. A rendere reale quel momento per la mia mente ci pensò l’amico fotografo Stefano (Bellamoli) che passava di lì in quel momento, a cui chiesi di farci una foto. Bertani e io non ci presentammo, e dopo svariati “Arrivederci” a cui seguivano entusiastici ritorni alla carica (letteralmente ci salutavamo e poi Bertani tornava indietro da me e Stefano per ricominciare a parlare) ci salutammo per davvero.

(foto di Stefano Bellamoli, 13 settembre 2018)

Avevo già incrociato Bertani negli anni precedenti, come quasi tutti quelli che vivono a Veronetta. Solo una volta però, qualche mese prima, c’eravamo fermati a parlare a lungo, nello specifico su una biografia di Garibaldi da lui pubblicata dopo che aveva attaccato bottone con me, la mia compagna e una nostra amica con una scusa qualsiasi. Dopo aver scoperto che le ragazze erano sarde cominciò un simpatico monologo su Garibaldi e la Sardegna. Quando poi dovemmo salutarlo cordialmente per andare a prendere l’aereo ci salutò sgarbatamente immaginando che ci fossimo stufati di parlare con lui (o meglio ascoltare quello che aveva da dirci).

Tornato a casa col Mistero Buffo in mano iniziai a pensare che forse quella simpatica coincidenza potesse nascondere un bel segnale da seguire. Cercai in internet informazioni su di lui. Niente. Nessun approfondimento. Solo vecchi articoli di quotidiani di qualche decennio fa a parte uno recente pubblicato da Il Giornale, non proprio brillantissimo.

Mi chiesi come fosse possibile. Mi sembrava assurdo che nessuno avesse mai scritto niente su Bertani, sulla sua incredibile storia, su quanto fosse importante ciò che aveva fatto non solo per la nostra città ma per la cultura internazionale. A partire naturalmente dal celeberrimo Mistero Buffo. Passando per le vicende politiche e umane, dal rocambolesco sequestro del 1962 (credo il primo della nostra storia) fino al tentato suicidio in piazza per denunciare l’ennesima bancarotta della sua casa editrice. Appresi queste notizie spulciando dai pochi articoli caricati automaticamente dai siti dei quotidiani nazionali, e pian piano questa storia incredibile che camminava a pochi passi da casa mia mi chiedeva di essere raccontata. Volevo conoscerla io per primo! Capii dunque che quel libro dovevo scriverlo io. Ma io non scrivevo libri. Forse esisteva un’altra maniera per raccontare quella storia.

Mandai subito un messaggio al mio amico regista Giovanni Benini. Pochi minuti dopo era confermato: avremmo girato un documentario su Giorgio Bertani, l’editore.

Da quel momento come mi succede spesso in queste situazioni tutto per me era chiaro, fattibilissimo, palpabile e assolutamente entusiasmante nonostante mancasse qualsiasi concretezza, a partire dal fatto che non avevo idea di dove vivesse. E che forse prima di cominciare avremmo dovuto chiedere il permesso almeno al soggetto del documentario stesso!

Pochi giorni dopo il magico incontro dovetti partire per un viaggio, perciò cominciai per davvero la ricerca un mese dopo, appena tornato a Veronetta. In primis chiesi informazioni a mia zia che conosceva editori veronesi a lui legati, i quali però purtroppo non avevano sue notizie da molto tempo. Non risponde più al telefono, dicevano. Andai alla Libreria Libre da Lia e anche lei mi disse la stessa cosa, nonostante fosse amico di famiglia. Non lo incrociavo per strada da un po’ e mi preoccupai. Trovai dunque il suo numero sull’elenco telefonico. L’unico Giorgio Bertani che viveva in Veronetta. Chiamai una prima volta, nessuna risposta. Aspettai qualche giorno, richiamai verso ora di pranzo e… risponde! Non mi fu difficile fissare un incontro, Bertani disse che aspettava una mia chiamata (?) e che mi conosceva (cosa improbabile visto che non c’eravamo mai presentati). Naturalmente pensai che mi stesse confondendo con qualcun altro, ma posticipai l’eventuale chiarimento al caffè che avremmo avuto poche ore dopo nel bar sotto casa sua.

Arrivai puntuale per le 15. Bertani era già seduto al tavolo. Mi presentai e lui esordì dicendomi che, visto il ritardo, se ne stava quasi per andare. Io guardai l’ora ed essendo le 15:03 pensai che dovesse essere una persona molto puntuale. Capimmo in pochi secondi che si era scordato di mandare indietro di un’ora l’orologio (l’ora legale era cambiata qualche giorno prima) e che quindi per lui erano le 16. Insomma per la sua percezione, senza tenere conto dell’orario convenzionato con il resto del mondo, avevo tardato di un’ora. Era stato decisamente molto gentile e fiducioso del mio arrivo!

Iniziò così un pomeriggio veramente intenso e colmo di parole e pensieri, in cui dopo essermi presentato, passai le seguenti due ore ad ascoltare, talvolta intervenire brevemente per poi tornare ad ascoltare. Mi aspettavo un “dialogo” del genere e quindi in partenza ero ben disposto all’ascolto. Non mi aspettavo però che quella frenetica e imprevedibile sequenza di argomenti e discorsi potesse tendere all’infinito. Senza pause. Sarà che io ero accondiscendente e non avevo voglia di calcare la mano e imporre la mia presenza (dopo aver comunque chiesto io l’incontro) ma non riuscii a dire praticamente niente, né tantomeno ad approfondire il motivo per cui l’avevo chiamato.

Ero affascinato e allo stesso tempo travolto (non per forza piacevolmente) da questo fiume in piena di discorsi spesso scollegati tra loro, che sgorgavano dalla figura di un barbuto vecchietto di bassa statura con basco, bastone, vestiti sgualciti e tascapane (da cui estrasse una raccolta di scritti dell’amato Pasolini) che trasformava una tazza di caffè in un frappè di zucchero, ovvero si vantava di aver trovato la sua salvezza: svuotare in una tazzina di caffé svariate bustine di zucchero per raggiungere il fabbisogno di energie necessarie per “vivere” ogni giorno al costo di un euro.

Affascinato perché sapevo che dietro quel flusso di parole si nascondeva una vera vita, sicuramente avventurosa, talvolta violenta, certamente degna di essere vissuta. Travolto perché non capivo come districarmi in mezzo a quella corrente trascinante senza sembrare maleducato; non mi piace interrompere le persone quando parlano. Optai quindi per quel primo incontro “conoscitivo” di accontentarmi semplicemente di essermi presentato e di aver passato del tempo informale con lui.

Uscimmo dal bar e io credetti che la nostra chiacchierata fosse giunta al termine quando avvenne un ulteriore momento magico e misterioso, credo collegato alla telefonata di quella mattina (quando mi disse che aspettava la mia telefonata). Mentre mi raccontava un aneddoto che adesso non ricordo nel dettaglio mi disse “questo ti può essere utile per il tuo progetto”. Non capii mai a cosa si riferisse. Era come se sapesse già tutto. Quella semplice frase mi sconvolse, e non ebbi il coraggio di chiedere per che cosa potesse essermi utile. Non avevo ancora parlato a Bertani della mia idea di raccontare la sua storia, né tantomeno del documentario, quindi credetti che mi stesse ancora confondendo con un altro.

Ma non feci in tempo a meravigliarmi di quella frase che Bertani guardando oltre le mie spalle mi disse “ok stai tranquillo, ci stanno seguendo”. Mi prese a braccetto e mi intimò di camminare normalmente. Ovviamente non avevo idea di cosa stesse succedendo, ed ero abbastanza certo che non ci stesse seguendo nessuno. Girammo l’isolato sempre a braccetto proseguendo con molta lentezza (si sorreggeva su di un bastone) e in mezzo al turbinio di informazioni venni a conoscenza del fatto che gli avessero tolto la corrente perché non poteva pagare le bollette da mesi. E che avrebbe scritto a non so chi per farsi aiutare in quanto personalità di spicco della cultura italiana (cosa che ritengo giusta, in ogni caso). Era triste ma non disperato. Mi chiese di cambiargli l’ora sull’orologio da polso. Mi invitò a vedere casa sua. Fu decisamente pesante vedere una casa buia che non può essere illuminata. Il che è un controsenso ma è la realtà. Che è un controsenso a sua volta. Bertani dopo le 17 (era fine ottobre) non vedeva più nulla tra le sue mura, a parte percepire le forme degli spazi grazie alla preziosa luce proveniente da un lampione orbitante davanti alla finestra di camera sua. Ci avvicinammo alla suddetta finestra e Bertani mi chiese di sbirciare dalla finestra, facendo finta di guardare casualmente in giro, e di notare se dalle finestre davanti ci stessero spiando o meno. Non capivo. Da un momento all’altro era spaventato. Effettivamente davanti alla sua finestra dall’altra parte della strada spiccava la facciata della sede della Guardia di Finanza. Ma non c’era nessuno alle finestre di fronte. Bertani credeva che lo spiassero da lì, ed era fermamente convinto che avessero costruito l’edificio proprio per tenerlo sotto controllo! Cercai di sviare l’argomento provando a tranquillizzarlo ma non era una situazione facile. Solo immaginare di lasciarlo a casa da solo in mezzo al buio assoluto era già di per sé triste e deprimente. Aggiungiamo anche paranoie persecutive ed era veramente troppo, non sapevo come gestire una cosa del genere.

Mi diede un numero di un suo assistente sociale di riferimento nel caso gli fosse successo qualcosa. Bertani non aveva il cellulare. E avevo percepito dai discorsi precedenti che moglie, figli e parenti erano lontani e distanti, non so dove, perché e per come. Senz’altro era evidentemente un uomo abbandonato a se stesso, materialmente povero, esteticamente trasandato, fisicamente acciaccato e mentalmente provato. E assolutamente inerme. Per quanto io fossi armato delle migliori intenzioni ero pur sempre uno sconosciuto che l’avevo accompagnato a braccetto per Veronetta e a poche ore dalla mia presentazione mi trovavo dentro il suo buio appartamento.

Non ricordo come lo salutai, mi chiese drammaticamente di aiutarlo a sistemare l’unica lampadina a pile che aveva in casa ma era irreparabilmente disintegrata dopo essere caduta a terra nel buio. Le pareti della sala erano foderate di libri, come potevo immaginare. Al centro della sala intuivo una grande tavolo colmo a sua volta di libri accatastati maldestramente, come in un trasandato mercatino dell’usato. Passammo anche da un ripostiglio in cui conservava gli ultimi avanzi delle sue edizioni. Erano veramente pochissimi volumi tenendo conto di a quanto ammontino le sue pubblicazioni. Lasciarlo in quel piccolo appartamento mi fece molta tristezza, e mi lasciò un grande senso di inermità, come succede quando si incontra qualcuno che sta peggio di noi ma non si può fare nulla: proviamo ad empatizzare, e quando tutti abbiamo abbassato le mura di difesa ci accorgiamo che non c’è niente da fare, e quindi non ci resta che andarcene.

Mi disse di chiamarlo la mattina verso le 8 per sapere come stava, cosa che promisi di fare ma non feci. Avevo bisogno di capire cosa avevo appena vissuto in appena due ore. Non avevo mai conosciuto una persona in questa maniera.

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Impiegai un mese per elaborare quell’incontro intensissimo, che ancora oggi mi trasmette la stessa forte energia, vitale e mortale allo stesso tempo. Passai dal chiedermi se non stessi approfittando di una persona in difficoltà per creare una storia che rischiava di scavalcare la persona in questione (cosa che non volevo) fino a credere di non avere abbastanza forza per affrontarlo nuovamente e stare affianco alla sua vita strabordante. Realizzai però che ne valeva assolutamente la pena in quanto il mio era un tentativo, un umile desiderio di raccontare una storia che credevo fosse necessaria per molti, utile per tutti, per ricordare, imparare e comprendere il nostro presente. Dalla nostra contrastata Verona fino alla dolorante Italia. Quest’uomo aveva attraversato quasi un secolo nascendo tra le due guerre e dedicando la propria vita alla cultura e alla politica, quando queste erano indissolubili e parti integranti della vita di ognuno. Il fatto che fosse stato abbandonato e dimenticato da tutti, anche dai suoi possibili sostenitori, ne era tragicamente una perfetta e simbolica conclusione che parla chiaramente da sé.

Ancora una volta lo chiamai al telefono e fissai velocemente un caffè qualche ora dopo. Solo queste prime due volte che non ci furono difficoltà a incontrarlo.

Mi preparai all’incontro, premurandomi questa volta di gestire attivamente la conversazione incanalandola direttamente verso la motivazione per cui gli avevo chiesto di incontrarci, evitandomi così di finire ad ascoltare quaranta minuti di monologo sulla costruzione di case in Veronetta e sulla visita del Presidente della Repubblica all’Università di Verona.

Riuscii dunque a raccontargli la nostra idea generale, ovvero di realizzare un documentario su di lui, girato da me e un amico regista con esperienza nel campo dei documentari. So che può sembrare assurdo ma non potei andare più affondo di questo; Bertani approvò con discreta gioia senza però mostrarsi poi interessato ad approfondire la questione. Provai anche a dirgli che ero interessato a curare un suo eventuale archivio, visto che questo non esisteva in alcuna maniera, ma non diede alcun peso alla proposta, cambiando subito argomento (non pareva una questione delicata, semplicemente non pareva importante per lui).

Da quel caffè il 30 novembre è passato tanto tempo. Nel mentre che la mia vita procedeva e i concerti mi tenevano lontano da Verona e dal progetto cercavo con il regista Giovanni di mantenere in tensione il filo del discorso. Dovevamo incontrarlo tutti e due e proporgli un progetto pratico. Ogni tanto provavo a chiamarlo al telefono ma non rispondeva. Talvolta rispondeva ma diceva che era incasinato e che dovevo richiamarlo più avanti. Sembrava sempre meno interessato. Lo incontrai casualmente davanti alla chiesa di San Tommaso mentre leggeva sulla sua panchina preferita, bagnato dal sole del pomeriggio. Mi fece i complimenti per il mio cappotto e mi disse che sembravo proprio un signore: ora ero autorizzato ufficialmente a dargli del tu. Probabilmente gli ero sembrato abbastanza adulto da meritarmi questa confidenza. In ogni caso mi aveva fatto piacere. Poi casualmente arrivammo a parlare di compleanni e gli chiesi in che giorno fosse nato. Mi rispose “il 10 luglio” e sussultai per un attimo. Non avevo mai incontrato qualcuno nato nel mio stesso giorno. Mi congedai e gli dissi che l’avrei chiamato per il documentario e lui si lamentò che era passato troppo tempo. Aveva ragione, ma il ritmo delle cose è sempre imprevedibile.

Chiamai ancora e nulla, posticipava perché era occupato con le sue assistenti sociali, diceva. Addirittura una volta me ne passò pure una al telefono perché mi presentassi, le disse che al telefono c’era “il musicista” e la annoiata voce femminile prese la cornetta per sentire la mia voce imbarazzata che ripeteva che ero un amico di Giorgio e che facevo il musicista. La donna mi ringraziò e dall’altra parte della cornetta corresse Giorgio che la chiamava col nome sbagliato.

Un pomeriggio mentre mangiavo un gelato con un amico sulla sua famosa panchina arrivò Giorgio. Effettivamente stavamo occupando la sua postazione, ma fu gentile dal declinare la nostra proposta di lasciargliela. Chiacchierammo un poco, mi mostrò un invito del comune a presenziare a un incontro sulla storia veronese in quanto cavaliere di vattelapesca e ci salutammo. Pareva discretamente solare e in linea con lo stato di salute a cui mi ero abituato.

Il tempo passava, Giovanni il regista mi rimproverava di aver aspettato troppo (aveva pienamente ragione) e suggerì di andare con Giorgio al grande corteo contro il Congresso Pro Famiglia del 30 marzo. Lo chiamai subito, il giorno prima della manifestazione, e glielo proposi. Giorgio però era scosso, aveva avuto la brillante idea di andare da solo il giorno prima in Gran Guardia ed esigere di partecipare al congresso al grido di “lei non sa chi sono io” ai vari addetti della sicurezza (e diceva che molta gente e giornalisti l’avevano riconosciuto e intervistato). Naturalmente era stato allontanato, probabilmente in malo modo, ma chi può saperlo; l’unica certezza sono sicuramente i modi “calorosi” di esprimersi del nostro editore. Giorgio non se la sentiva di declinare il nostro invito nonostante fosse palesemente confuso e impaurito dall’accaduto, così pensai non fosse il caso di insistere e rimanemmo d’accordo che eventualmente ci saremmo sentiti la mattina dopo prima di andare alla manifestazione. All’ultimo mi chiese se potevo fargli il favore di comprare i giornali locali per lui dove ci sarebbe stato l’articolo che parlava dell’accaduto del giorno precedente. Dissi che ero occupato e che purtroppo non ce la facevo così lui troncò d’improvviso la telefonata, infastidito come fece quella prima volta quando dovemmo interrompere la chiacchierata perché si stava facendo tardi per andare all’aeroporto.

Quella fu l’ultima volta che chiacchierai con Giorgio. Una sera, non più di due mesi fa, scesi di casa con degli amici, e camminando velocemente per via Carducci me lo trovai a fianco. Sorpreso lo salutai con gioia, ma ero di fretta e non mi potei fermare per scambiare una parola.

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Oggi mentre scendevo di corsa sulla mia bici dalle colline della Valdonega verso il luminoso Adige, dopo un pranzo con la mia amata nonna, un’altra persona con una vita lunga, intensa, d’altri tempi e di tutti i tempi, la cui presenza sarebbe già abbastanza sufficiente per riempire un libro oltremodo avvincente, pensavo che non potevo credere a quello che avevo appena visto. Nella schermata del cellulare vedevo un link che non avevo voluto aprire. Me l’aveva mandato il regista. Diceva che Giorgio era morto.

Nella mia breve vita di trentenne forse sono stato fortunato, forse sono semplicemente cieco e sordo, ma credo di aver avuto poco a che fare con la Morte. La Morte che ti riguarda direttamente e personalmente nell’intimo, s’intende. Ricordo come fosse ieri quando sono tornato a casa dal ginnasio sabato 23 novembre 2002 e mia madre mi aspettava per dirmi che il nonno Tazio se ne era andato, dopo una lunga ed estenuante malattia. Tutti i mesi e gli anni di sofferenze, che mi mostravano un mondo nuovo e diverso, che non mi piaceva ma esisteva ugualmente, erano svaniti con una semplice frase. Il nonno se ne era andato. Tredici anni dopo un caro amico, non solo un grande musicista, con cui avevo condiviso la mia vita universitaria veneziana, se ne andava prima di compiere trent'anni per un male incurabile.

Quella volta proprio non me l’aspettavo, immaginando da qualche parte della mia coscienza che morire a vent'anni ora, in questo mondo evoluto e perfettissimo, fosse impossibile.

Oggi ho sentito una strana sensazione scendendo dalle colline verso la città, come se non avessi ancora colto qualche punto, come se il senso di incompletezza e inadeguatezza che ancora pervadono il mio corpo non fossero causati semplicemente dalla tristezza per l’improvvisa assenza di Giorgio. Forse anche stavolta mi ero convinto che non se ne sarebbe andato prima delle mie previsioni, di certo non prima del documentario che avrebbe raccontato la sua storia e la visione della Storia dalla sua visuale, tentando di onorare e sistemare allo stesso tempo la confusione che lo ha accompagnato soprattutto in questi ultimi anni di vita (un po’ tanto ambizioso, lo ammetto).

Non ho voluto leggere nessuna notizia in rete, nessun necrologio su quotidiani locali che l’hanno sempre ignorato e che sono sempre ignoranti, nessun ricordo da chi l’ha lasciato al buio nello scorso lungo inverno, non posso sopportarlo. Sono andato davanti a casa sua, e avvicinandomi alla sua via mi immaginavo di trovare un corteo come piaceva a lui o un sit-in vecchia scuola per tenere vivo il suo ricordo almeno per oggi. Ovviamente la via era deserta e tutto esisteva silenziosamente come ci si aspetterebbe da una domenica estiva.

Tornato a casa ho sfilato dalla mia libreria un libro da lui pubblicato nel 1987 del misconosciuto poeta veronese Giuseppe Piccoli (morto suicida dopo una tragica vicenda familiare) che ho trovato assieme a molti altri volumi della sua casa editrice abbandonati in un negozio dell’usato di provincia.

Avrei voluto chiedergli che ne pensava di questo libro incredibile e del suo maledetto autore, avrei voluto chiedergli di Bifo, di Rella, di Fo e dei grandi con cui ha lavorato e che ha contribuito a rendere i personaggi che conosciamo oggi. Avrei voluto chiedergli che ne sarebbe stato di tutti i suoi libri, e avrei proprio voluto realizzare il suo archivio, per salvaguardare il duro lavoro dell’editore italiano culturalmente più importante che abbiamo avuto tra noi fino a poche ore fa. Avrei voluto fare un documentario su di lui per raccontare la sua storia incredibile. Ma quello, per fortuna, lo posso ancora fare.

Ciao Giorgio, e grazie di tutto!

Tu scendi questa scala

e sali al cielo

dove cento palloncini rossi

fissati da diecimila gnosi

galleggiano verso l’etere di dove

uno sguardo forse allusivo

all’adulta materia degli adulti

gioca con la perplessa fantasia

che goccia dai tuoi occhi come luce

azzurrina… Non fosse 

che il palloncino e il dio

scoppiano d’amore

appunto nell’etere lassù.

Giuseppe Piccoli

(da Chiusa poesia della chiusa porta, p. 120, Bertani Editore, 1987)

 


Martina racconta è Cucina

Proseguendo nel nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che popolano il quartiere di Veronetta, siamo andati a fare due chiacchiere con Martina, proprietaria con il marito Alessandro di “è Cucina”, scuola di cucina coi fiocchi in via XX settembre. Ecco cosa ci ha raccontato...

Ciao Martina! Prima domanda classica: quando e come avete aperto?
Siamo aperti da 10 anni, abbiamo festeggiato da poco il decimo anniversario dal primo corso di cucina. Abbiamo iniziato con due corsi a settimana, ora abbiamo 130 corsi a semestre! Inizialmente eravamo mio marito, mio fratello ed io, è una passione di famiglia perché il nonno era pasticcere; tutti e tre venivamo da lavori diversi, mio fratello è architetto, la mia grande passione è sempre stato ballare, sono stata ballerina qui e a Parigi e poi sociologa, mio marito Alessandro invece è arredatore di interni e in effetti è lui che ha messo le mani nel locale; un giorno siamo passati qui davanti, la falegnameria era in vendita, abbiamo sbirciato dentro e ci è saltato in testa di partire con questo progetto. Quando l'abbiamo visto la prima volta era distrutto, ma era ampio e molto luminoso e si è deciso di ristrutturarlo.

Ballerina, sociologa, pasticcera...
Si, sempre lavori creativi, manuali, dove è implicato il corpo. Per me dalla danza alla cucina il salto è stato dolce, spontaneo: pensa che ho fatto una performance di danza-cucina con cui ho vinto un premio ed ho partecipato ad un festival a Edimburgo. Nella pratica eseguivo una ricetta danzando, vestita da cuoca, e durante questa ricetta il corpo gradualmente prende vigore e danza, questa volta con il tutù; la ballerina che viene fuori dal cuoco...nel mio caso, dentro la cuoca c'è sempre la ballerina.

Martina e Ale

È interessante questo legame tra danza e cucina attraverso il corpo: avete mai provato a riproporlo qui?
Si, ci abbiamo provato per qualche anno: una sala era adibita alla danza, c'è ancora lo specchio al muro; purtroppo gestire una scuola di danza ed una di cucina contemporaneamente era davvero troppo impegnativo. Ai tempi eravamo un'associazione culturale, poi abbiamo deciso di continuare solo l'attività della scuola di cucina. In quel periodo abbiamo proposto delle cene a tema, ricordo ad esempio quella volta in cui si ballava danza del ventre e di là si preparava cous cous marocchino!

E qui a Veronetta? È stata una casualità aprire qui?
Noi viviamo qui in Veronetta, ci piace molto, anche se in realtà negli anni abbiamo cercato altri posti perchè come sai è stata un po bistrattata, il tratto qui in fondo verso Porta Vescovo in particolare; però ultimamente da Interrato dell'acqua morta e piazza Isolo qualcosa sta cambiando, il problema è che a livello di clienti ti senti dire che non c'è parcheggio, che è pericoloso, le solite cose che vengono fatte risaltare mediaticamente. Io personalmente amo Veronetta e alla fine non siamo mai riusciti a spostarci, alla fine l'anima di è Cucina è anche il luogo.

Spiegaci la ricetta dei vostri corsi: come suddividete gli aspiranti cuochi?
Beh, intanto tendenzialmente su 100 studenti 60 sono donne, anche se il numero di uomini è in aumento soprattutto nei corsi che riguardano carne e pesce. I corsi sono tematici, di tre ore o di più lezioni, c'è pasticceria, pizza e tanto altro. Quando abbiamo iniziato eravamo in due cuochi con pochissima attrezzatura, si parlava ancora di corsi per le casalinghe; ora, per fortuna, non se ne sentono più. Oggi tante persone stanno imparando a interessarsi di cucina, tanta gente se ne intende e di conseguenza i corsi non sono più basici, il livello è molto cresciuto.

Le Accademie di cucina e pasticceria per ragazzi

E questa febbre da Masterchef ha fatto la sua parte? Tanta gente segue i talentshow di cucina...
Si, hanno giocato il loro ruolo, sia in bene che in male! In tanti hanno un idea un po' astratta, romantica della cucina; in realtà il cuoco, come dice Alessandro, è uno scaldabistecche! Siamo cuochi, artigiani che usano le mani, credo che quest'idea dello chef come una star sia un po' montata. Certamente ha contribuito al boom che ha avuto la cucina negli ultimi anni, ne sono convinta.

Tra l'altro so che fate gare aziendali di “team building”, in cosa consistono?
Si, organizziamo gare di team building nella sua versione di “team cooking”: domani per esempio abbiamo una gara di pizza, i giudici sono i nostri cuochi che valuteranno la pizza migliore.
Come attività abbiamo i corsi, facciamo servizi di cuoco a domicilio, adesso inizieremo a produrre qualcosa in laboratorio con la nostra pasta madre: per il momento abbiamo venduto i panettoni e le colombe. Mio nonno ci ha lasciato la ricetta di una focaccia molto particolare e la stiamo ristudiando, in modo da produrla e venderla. Abbiamo uno spazio adibito a laboratorio, siamo appassionati di lievitati e di cucina vegetariana e vegana: io sono specializzata in vegetariana e vegana a Milano, Alessandro si sta perfezionando in pane e lievitati!

Qual è il corso che va per la maggiore?
Banalmente mi viene in mente il sushi! È uno dei primi corsi che abbiamo inserito, abbiamo sempre collaborato con dei cuochi giapponesi. Vanno alla grande i corsi di coppia, in cui si cucina insieme alla stessa postazione: l'ultimo che abbiamo proposto, “Sex and the Kitchen”, è stata una bella esperienza, l'età è molto varia e le coppie si divertono molto. A noi interessa sviluppare maggiormente i corsi con i ragazzi: abbiamo infatti due Accademie per ragazzi, uniche in Italia a quanto ci risulta: la Junior Chef Academy e la Junior Bakery Academy!Quest'anno abbiamo avuto una ventina di giovani dai 9 ai 12 anni, vorremmo far crescere questi corsi che insegnano ai ragazzi le basi della cucina professionale e li educano ad ampliare la gamma di ingredienti, solitamente scarsa e monotona, che utilizzano. Sono impegnativi, si parte dalle basi della cucina e si giunge al traguardo in cui i ragazzi a fine corso cucinano per le famiglie, anche per 50 persone.

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In che modo procedete alla selezione dei prodotti?
Negli anni ci siamo evoluti e abbiamo preso posizione: stiamo intraprendendo un percorso per diventare scuola di cucina ecosostenibile e biologica, per questo motivo i nostri partner sono NaturaSì, che ci permetterà di avere più del 70% di prodotti bio, Cà Magre, che ci rifornisce di prodotti bio del territorio, collaboriamo con slowfood, utilizziamo la Grisa della Lessinia ed i prodotti dei presidi. Il fatto che ci piace la cucina vegetariana non significa che non utilizziamo carni, purchè la scelta sia etica: la macelleria di fiducia Carlo Alberto Menini ci fornisce carne di un certo tipo, carne Grass Fed; in questo percorso di presa di coscienza siamo riusciti anche ad eliminare la plastica, usiamo solo materiale compostabile!

Ed i clienti? Tornano a salutarvi come si faceva a scuola?
Abbiamo tanti clienti affezionati che ci seguono da anni, ti racconto un aneddoto divertente. Il primo anno non riuscimmo a far partire neanche un corso, ed una signora aveva già pagato per frequentarlo; da quel momento a quella nostra prima cliente regaliamo un corso ogni anno!

 

 

 


Intervista al Circolo Cañara

Proseguendo nel nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che popolano il quartiere di Veronetta, siamo stati a fare due chiacchiere con Claudio, Oscar ed Ale del Circolo ARCI Cañara, tappa obbligata nel racconto della fauna del quartiere. Per comodità ed a scopi evocativi, immaginate che le loro parole si siano fuse per dare vita a quelle del Signor Cañara, vero interlocutore della nostra intervista...Ecco cos'è saltato fuori!

Cañara anno zero: raccontateci come tutto è iniziato...
Beh, quando siamo partiti non c'era nessuna base politica o di discorsi complessi, l'intento era quello del gruppo di amici che si trovano per una birretta: si suona, si gioca a calcetto, dinamiche proprio da compagnia, da aperitivo tranquillo senza paranoie. Niente di diverso dal trovarsi in garage da Oscar o in taverna da Ale. A livello personale potremmo definirci apolitici e l'ingrediente segreto della nostra ricetta è che siamo una grande famiglia. Per quanto riguarda le nostre proposte, siamo molto eclettici: si gioca a calcetto e a risiko, si assiste ad un live jazz o rock’n’roll o si ciacola al banco... insomma il cliente si deve trovare a proprio agio e fare un po' quel che vuole. Siamo tutti appassionati di calcio, in caso non si fosse capito.

Quando avete aperto?
Nel 2010, dopo un paio di mesi di lavori di ristrutturazione: siamo subentrati all'Esposta, associazione culturale molto diversa concettualmente dalla nostra. Eravamo tutti disoccupati, quindi si è deciso di aprire quest'attività insieme, una bella squadra. Siamo partiti che avevamo 27-28 anni. Con gli anni c'è stata una grande evoluzione: l'età media, dall'inizio, si è abbassata di almeno 10 anni! Per starci dietro, per riuscire a ringiovanire un po' il target, abbiamo coinvolto altri due ragazzi, Sam e Lorenzo, che organizzano il Mercoledì al Cañara, l'aperitivo Black and White, con buffet e concerto. Abbiamo fatto incontri con i ragazzi di One Bridge to Idomeni, cene culturali, tante nuove attività. Un'attività che ci rende orgogliosi è la collaborazione con Box 3:36am, nuova realtà sorta in seguito al terribile terremoto del centro Italia del 2016: è una rete di associazioni veronesi sensibili al dramma del terremoto, raccogliamo fondi tramite eventi e donazioni. 

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Siete un'associazione culturale, una delle poche qui in città...
Si, siamo un circolo Arci, contiamo più o meno 600 tesserati. Il problema è che a Verona siamo gli unici, quindi la gente storce il naso per fare la tessera perchè la utilizzi solo da noi. In realtà la tessera è importante, perchè intanto diventi socio dell'associazione Cañara ma poi dai un contributo all'Arci a livello nazionale. Son 10 euro ben spesi, anche perché l'Arci ha convenzioni con musei, cinema, fiere in cui entri a prezzi scontati.

Rispetto al 2010, in che modo si è trasformato il Cañara?
Intanto a livello interno, dei 4 fondatori siamo rimasti in due, Oscar e Claudio. Con il tempo si  sono aggiunte altre persone come Chris, Ale e Lorenzo che hanno portato nuove energie e questo è importantissimo, perché riusciamo a rinnovarci ed a trovare stimoli. A livello musicale, inizialmente eravamo indirizzati molto al jazz. Ora abbiamo allargato la proposta, il sabato live è diventato un appuntamento fisso: spazia dal rock al jazz, dal folk all'elettronica, i nostri unici limiti sono lo spazio e i volumi. Come da copione iniziale si gioca a biliardino, a risiko eccetera; di recente abbiamo sistemato ed aperto il piano superiore, con tavoli e poltrone per giochi di società.

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Il cliente del Cañara è cambiato negli anni?
Direi di sì. Le nuove generazioni hanno peculiarità diverse. Sono tanto distaccati da determinate proposte: noi vogliamo mantenere il nostro stile, non ci dimentichiamo di essere un associazione culturale, quindi non ci adattiamo passivamente al target “alcool e dj”. Cerchiamo piuttosto di coinvolgere i clienti giovani in attività diverse, come le serate teatrali che ricevono sempre una grande risposta.

E per il futuro avete qualche progetto, qualche sogno?
Anni fa era nata tra noi l'idea di proporre un festival estivo del Cañara, e nonostante le difficoltà burocratiche riusciamo ancora a portarla avanti. Abbiamo fatto due anni di FuerteCañara al bastione San Francesco, la scorsa estate il Santeria Sound Festival assieme a l'Accademia e BogOn: questa è stata una bella realtà, abbiamo ospitato tanti gruppi validi e si facevano mille ingressi a serata, con tanto di articolo sull'Arena. Segnatelo sul calendario, lo riproporremo anche quest'estate. Quando ci mettiamo sotto siamo buoni organizzatori, una gran squadra.

E andando oltre il discorso Cañara, che ne pensate del quartiere di Veronetta?
Ogni città importante ha il proprio quartiere bohemien, Veronetta lo è di Verona. Vediamo nascere sempre più spesso nuovi locali e attività interessanti e ciò ci rende consapevoli e orgogliosi che il quartiere è in crescita. Crediamo che Veronetta debba avere la possibilità di vivere nel rispetto sia di chi ci vive sia di chi ci lavora. In generale i locali sono già tutti chiusi alle 2, non vediamo situazioni di disagio esagerate.
Continuare ad associare Veronetta al degrado, all'abbandono e allo spaccio è ormai un preconcetto superato. Veronetta è il quartiere interculturale di Verona, con i suoi pro ed i suoi contro, ed è bello che sia così! Di situazioni da migliorare ce ne sono, ma la volontà è tanta e le risorse umane e culturali non mancano..siamo sicuri che il tempo ci darà ragione.
Oltretutto ci sembra che negli ultimi anni questa "riqualificazione" stia già avvenendo dal basso, con la conseguenza che molta più gente frequenta il quartiere, compresi i turisti.

D'accordissimo Signor Cañara, hai citato i turisti: ce ne sono anche tra i vostri clienti?
Si, ce ne sono! Chiaramente la tessera è un limite, da noi più che altro vengono tanti giovani in Erasmus. Noi vorremmo collaborare con le associazioni Erasmus e con l'Università, per rilanciare un attimo un qualcosa di culturale, di diverso dall'andare a bere e basta. Anche a livello di turisti comunque, secondo noi il Cañara è il top perché è un ambiente informale in cui chiacchierare e conoscere la città, con la possibilità di parlare in tante lingue diverse. Per i turisti il progetto della mappetta è potenzialmente fighissimo, perché molti stranieri visitano Verona guidati e consigliati dalle guide ufficiali, e finiscono per perdersi i veri locali e le attività autentiche veronesi!

 

 


Intervista in galleria Isolo17

Proseguendo nel nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che popolano il quartiere di Veronetta, siamo stati a fare due chiacchiere con Giovanni, restauratore d'arte proprietario della galleria Isolo17. Ecco cosa ci ha raccontato...

Ciao Giovanni! Parlaci un po' di te, dell’identità che cerchi di dare a Isolo17…
La galleria riflette un po’ me stesso, cosa intendo io oggi per arte: sono restauratore quindi il rapporto che ho con l'arte antica è particolare e non posso discostarmene. Non puoi fare una cosa se prima non la studi: in generale vale per un ingegnere, un medico, lo stesso vale anche per l'artista. L'artista è una professione che, come le altre, va studiata: non solo la tecnica ma anche la cultura generale, perché questo poi permette un certo tipo di flessibilità, di creatività, dà insomma la possibilità di abbordare l'arte con più linguaggi. Non è un caso che io lavori con molti artisti di origine cubana, non solo perché io stesso sono cubano, ma perché a Cuba i ragazzi escono dalla scuola preparati a 360 gradi, sono pittori, scultori e fotografi. Ovviamente poi si specializzano, ma hanno delle competenze trasversali. È più facile investire su una persona preparata da più punti di vista, perché ha più frecce al proprio arco.

Hai parlato di investimento: lavori coi giovani?
Fondamentalmente sì. All'artista che collabora con me dico sempre che stiamo facendo un percorso insieme, un percorso di crescita; è importante che si instauri un rapporto in cui ci si condiziona positivamente a vicenda. Siamo un gruppo formato da curatori, grafici, videomaker, fotografi, pubblicisti, collaboratori e tutti devono essere sincronizzati e coinvolti in maniera giusta. Ho avuto la fortuna di trovare le persone giuste.

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Per te la galleria è proprio un business o un qualcosa al di fuori del lavoro?
È un po’ tutte e due le cose: sono prima di tutto restauratore ma la galleria comunque deve anche vendere qualcosa. C'è poco mercato, di nicchia e si fa sentire ancora la crisi in questo settore. Ovvio, è un lavoro, ma nasce come passione e la vivo come tale, lavoro come e con chi piace a me. La selezione è molto accurata, rigorosa e richiede una continua fase di ricerca e scouting. E poi, naturalmente, alla fine deve anche piacermi. Ho dei gusti abbastanza generici: un'opera deve essere tecnicamente fatta bene, concettualmente ben pensata, deve però avere anche una collocazione estetica.

 

Quando hai intrapreso quest’attività? Raccontaci com’è avvenuta la gestazione…
Tutto è iniziato nel 2009, un anno che è stato per me un banco di prova: era il centenario del futurismo ed io mi sono messo in testa che dovevo categoricamente proporre una mostra sul tema. Perché? Perché uno degli artisti più rappresentativi di Cuba, Marcello Pogolotti, colonna portante dell'arte moderna cubana, nonché figlio di italiani emigrati, era un futurista. Pogolotti, mosso da ideali socialisti, ha creato un quartiere intero a l'Havana, Barrio Pogolotti, un quartiere operaio per la gente de l'Havana. Io volevo far conoscere la storia di quest'artista, che è poi divenuto anche un intellettuale di spicco a Cuba: abbiamo quindi organizzato questa mostra, intitolata Futurismo nelle Americhe, un omaggio a Pogolotti in cui alcuni amici cubani hanno disegnato delle opere futuriste: il progetto è stato prima approvato in Comune e poi presentato nella Sala Birolli qui a Verona. Da lì è iniziata questa avventura. Inizialmente dovevo affittare i locali per le piccole mostre, poi ho sentito la necessità di avere uno spazio mio e ho trovato questo, Isolo17: da 2 anni, siamo in uno spazio grande e funzionale alle nostre esigenze, dove addirittura possiamo realizzare residenze di lavoro per gli artisti.

Quindi tu sei di origine cubana?
Si, sono qui in Italia da 20 anni. Dal 2009 ho deciso di fare da ponte tra questi due paesi nell'ambito di cui sono appassionato. Io penso che l'arte cubana abbia molto in comune con quella italiana: ad esempio i grandi registi cubani sono spesso venuti in Italia a studiare il cinema ed il neo-realismo, addirittura l'istituto superiore d'arte di l'Havana è stato fondato e costruito da architetti italiani. In generale l'arte cubana ha spesso preso spunto dal metodo italiano. Pensa che a Cuba fanno la settimana della cultura italiana, ed è una grande festa in cui prendono vita tante iniziative artistiche e culturali.

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Ma quindi il nome Isolo17 non è solamente per la posizione della galleria…
Quando dovevo decidere il nome della galleria è stato complicato, gli amici non volevano aiutarmi perché era una gran responsabilità, allora ho optato per isolo17, che richiama il concetto di isola, Cuba: Verona è agli antipodi dei Caraibi. Qui di Cuba si conosce solo la storia della rivoluzione socialista di Castro ed io volevo far conoscere anche altro, volevo sottolineare il legame artistico con l’Italia. Ora non lavoro più solo con i Cubani, lavoro con un artista canadese, con un messicano, a breve inizierò a collaborare con un israeliano; anche questo pittore canadese, ad esempio, è molto indebitato con l’arte rinascimentale italiana: questo è il legame che mi interessa evidenziare, il fatto che pur vivendo in Alaska o agli angoli del mondo si possono trovare dei collegamenti culturali attraverso l’arte. L’altro motivo per cui ho scelto questo percorso è che secondo me i giovani italiani si sono dimenticati della storia del loro paese, guardano all’esterno e vogliono imitare questo e quello; il mondo intero invidia l’Italia per il patrimonio culturale, sociale, artistico e le nuove generazioni non se ne interessano. È paradossale.

Ci vuoi parlare delle prossime mostre che ospiterai qui in galleria?
Ora è in corso, dai primi di Maggio, una mostra collegata ad un evento teatrale alla ex-dogana e di cui ospiteremo le scenografie originali. Poi a Settembre proporremo una mostra di scultura, non posso darti altre anticipazioni perché stiamo ancora organizzando i dettagli con il curatore. Ti posso dire che saranno opere di due giovani ragazzi che concepiscono le loro sculture in modo molto diverso, molto particolare: Fabiano De Martin e Noa Pane.
Infine a Novembre realizzeremo una mostra con l’artista piemontese Serena Gamba. Ecco, volevo precisare che negli ultimi mesi collaboriamo molto con artisti italiani: stiamo facendo un lavoro di ricerca e selezione di giovani talenti italiani, che siano in sintonia con il nostro operato, con cui lavorare in maniera permanente. Queste due ultime mostre sono il risultato iniziale di questa selezione.

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Ci hai già incuriositi! Insomma, giovani artisti e artiste, qualcuno che crede nel vostro lavoro c’è, nel cuore della città!
Esatto, mi interessa molto l’arte contemporanea, come dicevo prima non nella declinazione esageratamente concettuale, ma nel senso di novità giovanile. Ti faccio un esempio: il veronese visita il museo di Castelvecchio una volta e poi non ci rientra mai più, le opere esposte sono le stesse da sempre. Ma perchè nessuno propone di aprire un’altra sala dedicata all’arte contemporanea? Una sala in cui esporre dei progetti collaterali curati da giovani artisti che dialogano con l’arte antica presente nel museo. Così si fa “girare l’aria” in questi musei, dove di aria fresca non ne entra mai!


Filippo ci racconta Dolciaria Cantonucci

Proseguendo nel nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che popolano il quartiere di Veronetta, siamo stati a fare due chiacchiere con Filippo, proprietario insieme alla socia Mara della magica Dolciaria Cantonucci, storico locale di Piazza Isolo. Ecco cosa ci ha raccontato!

Domanda di routine...quando avete aperto? Come mai in Veronetta?
Io e Mara abbiamo aperto due anni fa; è stata un po' una casualità, un po' perché mi è sempre piaciuto il quartiere: io avevo un'altra attività in centro e sentivo il bisogno di cambiare, son venuto in zona a vedere un altro locale che poi non mi è piaciuto e passando ho notato la vecchia dolciaria con l'insegna in vendita. Sono entrato e da lì è partito tutto.

E rispetto alla vecchia dolciaria, avete mantenuto una certa continuità?
Abbiamo mantenuto tutta la parte dei dolci, abbiamo integrato con la cucina, la caffetteria e il reparto enoteca; da un punto di vista estetico non più di tanto, volevamo che rimanessero esposte caramelle e cioccolato, poi abbiamo recuperato il pavimento dei primi '900; sarebbe stato bello se ci fosse stato ancora il primo banco, sarebbe stato fantastico, ma l'abbiamo rinnovato. Il banco è nuovo, in stile anni '50, per l'arredamento invece siamo andati a cercare proprio i pezzi vintage.

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Qual'era la tua attività nel centro storico?
Sono stato per 12 anni proprietario, in società con un altra ragazza, del caffè noir, in via pellicciai.

Hai notato differenze importanti nella gestione di un locale in centro storico e qui in piazza isolo?
Il mio locale in centro era un po' anomalo perchè lavoravo soprattutto con i veronesi, pur essendo lì, poi è ovvio che il turismo fa la sua parte ma anche qui con tutti i b&b che ci sono c'è un gran giro di turisti, è pazzesco. Sinceramente non me l'aspettavo. Da un punto di vista logistico qui è perfetto, perchè sei contemporaneamente fuori e vicino al centro, piazza isolo mi è sempre piaciuta, si insomma abbiamo fatto questa scommessa che si è rivelata vincente.

Proviamo a punzecchiare...hai chiuso l'attività in centro perchè coltivavi una nuova idea di ristorazione, avevi bisogno di nuovi stimoli o altri motivi?
Avevo voglia di cambiare; il locale andava bene, è però ovvio che in centro col tempo diventa difficile la gestione dei costi. I costi fissi sono diversi da qui. Bello il centro, bellissimo, spero solo che non si stia sputtanando: il rischio c'è, speriamo che ci sia gente in gamba che sappia aprire i posti giusti, anche perchè il turista alla fine non vuole un posto da turista, vuole vedere qualcosa di caratteristico. Tanti turisti infatti vengono qui in Veronetta, chiedono di Veronetta, e voglio dirvi che il progetto delle mappette è stata una gran mossa, entra ancora gente a chiederne.

Ti sembra che il locale stia ricalcando la tua idea di partenza? O è in continua evoluzione?
L'idea era di fare una buona parte di colazione e pranzi; volevamo chiudere ogni sera alle 21, poi abbiamo provato a tenere aperto in serale e ora bisogna cacciare fuori i clienti a pedata a mezzanotte. Si, in realtà è un lavoro completo, e ce n'è da fare ancora, non è saturo ancora eh.

Se tu dovessi descrivere la tua attività, che parole utilizzeresti? Perchè dall'esterno si presenta con un'identità, poi entrando è tutt'altro, molto di più.
Allora, io sono un grande appassionato di caffetteria e spero che con il tempo venga fuori; pian piano ci stiamo sistemando e introdurrò la caffetteria completa, con i filtri e preparazioni particolari. Non voglio però che questo vada a discapito delle altre idee: penso che la nostra attività sarà questa, fare tutto e farlo bene. Colazioni, pranzi, aperitivi e caffetteria. È faticoso, dividiamo il lavoro tra noi due soci ed i nostri collaboratori. Ad esempio io seguo di più la parte della caffetteria e Mara quella della dolciaria.

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Concerti ne fate ancora?
Si, per il momento l'ultimo venerdi del mese, da settembre cercheremo di fare ogni venerdi.

Qual è in generale il target di clientela che attirate maggiormente?
C'è da dire che forse un target troppo giovane non l'abbiamo, anche se molti vengono a festeggiare qui le lauree. Direi che la clientela è soprattutto over-30.

Quali sono i cavalli di battaglia di Cantonucci?
Per quanto riguarda il cibo non c'è un cavallo di battaglia, perchè cambiamo e reinventiamo spesso. Nella parte vino insistiamo sulla ricerca di vini particolari anche del filone naturale e bio-dinamico, da tutta Italia, Francia ed est-Europa. E poi c'è il caffè: facciamo mescita di caffè, lo maciniamo sia per mocca che per filtro, così il cliente può provare la differenza tra un caffè industriale e un caffè macinato al momento di qualità. Su questo ho intenzione di proporre una serie di incontri!

Beh dai raccontaci un po' di questa tua passione per il caffè, da dove salta fuori?
È una passione che è cresciuta lavorando: da quando ho iniziato nei bar mi è sempre piaciuto fare il caffè e da lì ho frequentato parecchi corsi, ne seguo tuttora e ne tengo anche alcuni. Niente, cosa devo dire? Che è un mondo meraviglioso! Un mondo in continua espansione: tanti giovani vanno all'estero e imparano nuovi metodi di estrazione, diversi dal nostro. Da italiani siamo abituati a pensare che l'espresso sia il re dei caffè, ma ogni paese ha la sua cultura e le sue tecniche d'estrazione. E di tecniche ce ne sono tantissime: ad esempio l'anno scorso ho proposto qui il cold brew, caffè freddo tenuto in acqua fredda per un tot di tempo e poi filtrato, ed è andato tantissimo! Altro che shakerato! Ci sono dei caffè chiari che sembrano quasi tisane, in cui il gusto non è quello tostato e cioccolatoso ma piuttosto quello del fiore. Potrei parlarvene per ore!

 

...L'assurdo è che l'attività sia esplosa subito: solitamente quando apri un locale ci vogliono 2-3 anni per ingranare. Ci siamo evoluti in fretta, forse perchè nel giro di poco tempo sono rinati tanti locali: noi, il Soda Jerk, il grande Giove, tutti bar che lavorano benissimo! Il risultato è che tanta gente si sposta da questa parte!...

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