Madonna Verona non ha tempo di morire

*Questo reportage narrativo è nato durante il corso ‘Scrittura dal vero’ tenuto da Nicola Feninno alla Scuola Holden di Torino. È stato scritto nell’estate 2022.

di Francesca Moscardo

Sono in ritardo quel tanto che basta per sentirmi in dovere di avvisare. Chiamo Luisa. 

«Allora mi faccio un altro goto» risponde tranquilla in vivavoce. Il suo tono basso e cantilenante mi fa pensare a un tessuto prezioso. «Ti aspetto». 

Mi divincolo tra le vie del centro e parcheggio lungo il fianco di Sant’Anastasia, la chiesa più grande della città. È un pomeriggio di luglio e Verona è piena di turisti, ma il locale di Luisa è chiuso e non riceve nessuno. Tranne me. 

Mi avvio a piedi con un moto centripeto verso sinistra, seguendo un automatismo dettato dall’abitudine: vicolo, vicoletto, porta. La scritta “Piano Bar” sulla tenda a calotta mi ricorda che qui un tempo un pianista suonava ogni sera. Da fuori ha tutta l’aria riservata di un club privé e nella posizione in cui si trova ci vai solo se lo conosci. 

Il neon rosa dell’insegna è spento: in fondo sono solo le cinque del pomeriggio.

«Quel posto “brulicava” di personaggi che arrivavano da tutto il Triveneto per fare una serata», mi ha confidato A. durante un aperitivo domenicale a Castel San Pietro, sulla terrazza panoramica della funicolare. «A una certa ora non c’erano tanti locali dove potevi andare. Il Madonna Verona era uno di quelli e stavi lì anche fino al mattino». Lì divanetti di seta rossa, luce soffusa e un horror vacui di oggetti; qui aria e sole accecante che illumina ogni cosa. 

Fatico a decifrare l’uomo che ho di fronte, un fisico asciutto da maratoneta e l’atteggiamento discreto di chi parla poco e osserva molto. Gli chiedo qualche aneddoto: lui dice senza dire e mi chiede di restare anonimo. È molto conosciuto a Verona, mi spiega. «Succedevano tante cose, incontri particolari. Era come essere in un’altra dimensione, la percezione era un po’ diversa».

Madonna Verona. Su Wikipedia sarebbe una pagina di disambiguazione: 1. la statua romana della fontana al centro di Piazza delle Erbe; 2. la maschera del Carnevale veronese ispirata alla statua; 3. l’omonimo locale storico. 

A condensare tutto in un significato univoco c’è Maria Luigia Vassanelli detta Luisa, classe 1937, la persona che sto per incontrare.

È lei Madonna Verona, la donna dalle mille vite, l’icona rivoluzionaria di un centro di provincia. Una signora con la quinta elementare nominata Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana grazie ai suoi bar, che hanno fatto la storia della città in un’epoca in cui le donne imprenditrici non avevano spazio: uno, due, tre, quattro Boomerang e infine il Madonna Verona, l’unico che le è rimasto.

Spingo la porta, che ‘muggisce’ in modo familiare. Luisa mi saluta di spalle dal fondo del bar, sta trafficando dietro al bancone e vedo solo i suoi capelli bianchi. È strano entrare qui di giorno, negli ultimi tempi il locale apriva alle 22:00. 

 

Mi guardo in giro, è tutto al suo posto: la fontana di marmo rosso al centro, la riproduzione della statua di Piazza Erbe, la costellazione di divani semicircolari e pouf dove languire per ore davanti a un calice, la parete a specchio che raddoppia la luce calda degli abat-jour e la teoria infinita di cimeli appesi ovunque. Legno scuro, oro, bordeaux. E poi, scendendo tre gradini, l’altra sala con il pianoforte a coda ormai silente. Da qui sono passati personaggi famosi come Celentano, Capossela, Aldo Fabrizi, cantanti, attori, politici e i ricchi della città che al Madonna Verona avevano il proprio caveau per tenere i liquori più costosi. Qui è sempre un’ora – e un’era – indefinita.

Luisa prende una bottiglia, due bicchieri e mi raggiunge. Ci sediamo a un tavolino qualsiasi, non il “suo” là nell’angolo, dove come una matrona riceve gli ospiti. «Bevi un goccio di Prosecco con me?» chiede. 

Quella che ho di fronte è una nonna con gli acciacchi dell’età che vuole andare in pensione. Non chiuderà davvero lo storico locale ma, come per la maschera del Carnevale, passerà lo scettro alla figlia. «Mi sento obbligata ma non nel senso brutto del termine, perché fa parte della storia della città» mi ha detto Paola di recente da uno di quei sofà rossi, triangolata da me e sua madre attorno allo stesso tavolino come in una singolare seduta medianica, dove non si evocano spiriti ma ricordi. «Non puoi lasciar perdere una cosa del genere. Chi c’è, se non io, che può rispettarne la memoria? In onore di quello che lei ha fatto, in onore di quello che c’è da fare». È comunque la fine di una leggenda: il Madonna Verona non sarà più lo stesso senza il suo genius loci.

Mi rendo conto di conoscere poco di Luisa: chi c’è sotto le sue infinite maschere?

«Sono nata nel posto più bello del mondo: in un mulino sull’Adige». Luisa ha un ricordo gioioso della sua infanzia legata al fiume, alfa e omega della sua esistenza. Prima di tre fratelli in una famiglia povera, ha dovuto fare presto i conti con la paura delle bombe e le file per il pane. «Non avevamo da mangiare, però c’era un calore in casa!».

Da grande avrebbe voluto fare il chirurgo, ma non erano i tempi per le grandi ambizioni: doveva darsi da fare nell’osteria dei genitori. «Io volevo scappare perché non mi piaceva, allora c’era una nuvola di fumo costante perché tutti fumavano e io ho sempre odiato il fumo. Un giorno ero sulla porta, è passato un bel ragazzo, mi ha guardata e ha detto: “Che peccato che lavori all’osteria, perché io odio le osterie”. Ho deciso che l’avrei sposato. È stato il padre dei miei tre figli». 

Luisa è abituata a raccontarsi, a ripetere gli stessi aneddoti a interlocutori sempre diversi. «È durata poco perché mi picchiava e io finivo in ospedale». 

A cadenza regolare il rumore della macchina del ghiaccio sovrasta la voce di Luisa: «Io dicevo “A me non va bene. Appena i bambini saranno in grado di tenere in mano il cucchiaio io ti lascio”. E l’ho fatto. Paola aveva tre anni, Umberto sei. Me ne sono andata coi bambini». In mezzo aveva avuto Giampaolo, morto a pochi mesi. Era la fine degli anni ’60 e il divorzio non esisteva ancora. «Sono stata la prima a Verona, ma ero già scappata di casa».

«Si avvertiva immediatamente che era forte, attenta, sveglia. Luisa era conosciuta da tutta Verona come una bellissima donna, era molto ambita». Alberto zittisce Alexa prima di continuare. «Ero un agente della Spirit, importante azienda liquoristica che forniva i prodotti più prestigiosi agli american bar. E quindi Luisa faceva parte dei miei clienti, non aveva intermediari».

L’uomo accanto a me sul divano di velluto Tiffany è alto, prestante, e non fatico a immaginarlo come un giovane tombeur-de-femmes. Mi fa vedere una foto sul cellulare: è lui negli anni ’90, elegante insieme al figlio già avviato alla stessa professione. «Mostrala a Luisa e dille: “Ti ricordi?”». 

L’appartamento è fresco, luminoso, quasi minimale. Chissà se il tavolino-bar dietro di me contiene anche i liquori che rappresentava lui: Ballantine, Cointreau, Cognac Martell, Beefeater per i gin tonic. Alberto si sbilancia: «Avevo la sensazione, nel parlare con Luisa – con la battuta facile, il sorrisino sempre pronto e malizioso – che avesse negli occhi un lontano senso di malinconia, quasi di rassegnazione».

È nel punto più buio della sua vita che Luisa trova una forza inaspettata; inizia la sua impresa con il bar senza nome di una pompa di benzina. Dura poco. Le mancano i mezzi, ma ha buone idee e due figli da mantenere. 

«Ho cominciato a firmar cambiali». D’istinto alzo la testa: il soffitto del Madonna Verona è tappezzato di cedole sotto vetro che attirano sempre l’attenzione dei nuovi avventori. Le ho viste ogni sera che sono entrata qui, ma solo adesso le osservo con gli occhi di Luisa. «Se mai dovessi sentirmi triste, basta che guardi le cambiali». 

In questo modo rileva un locale sfitto che aveva servito i militari della base NATO e lo chiama Boomerang. «Perché se un cliente si trova bene, torna». I clienti non solo tornano, ne fanno il centro della movida veronese degli anni ‘70. Alla fine i Boomerang saranno quattro.

«Luisa ha inventato il concetto di catena prima che arrivassero gli americani a insegnarcelo e il caso dei Boomerang è geniale». Diego è stato l’ultimo cameriere di Madonna Verona e mi racconta tutto mentre condividiamo le patatine fritte del chiosco davanti allo Stadio. Ha scelto di affiancare Luisa nell’ultimo periodo per un motivo preciso: «Quando mi ricapita di fare un master in Business Administration gratis?», dice ridendo. «Lei parla di clienti ben vestiti, bicchieri e bottiglie di Prosecco, il carico e scarico della merce, il listino e tutto quanto. Nella mia testa c’è una sorta di traduttore: quando lei mi parla di bicchieri di Prosecco io penso ai moduli software che devo realizzare; quando mi parla di clienti qualificati io penso a come qualifico i miei clienti». 

La compostezza di questo ragazzo in camicia e ben rasato è a metà tra il maggiordomo e il praticante di arti marziali. Diego, in realtà, è manager di una solida azienda nel settore informatico. «Non ho mai trovato un locale come Madonna Verona. Luisa ha fatto l’opposto di ciò che ti insegnano all’università: se n’è fregata delle regole, ha ragionato fuori dagli schemi e creato una strategia a 360° sempre efficace». Per esempio l’attenzione al decoro nel vestire e al dialogo. «Lei ha imparato a stare con tutti. Ho visto cene al Madonna Verona con il politico di destra, di sinistra, di centro, il prete: tutti erano lì per lei a bere un bicchiere insieme. Riesce in maniera magica a unire le persone».

Luisa rilevava locali che non voleva nessuno e, come un Re Mida, li trasformava in tendenza. Diego non riesce a spiegarselo: «Ha applicato le sue intuizioni con un successo che io guardo ancora come caso di studio. Potrei stare in silenzio e imparare per i prossimi trent’anni. È una donna moderna nata nell’epoca sbagliata».

Al Madonna Verona le ore vengono scandite dalle campane di Sant’Anastasia, distante sì e no cinque metri da muro a muro. Luisa l’ironica, la maliziosa, quella che ti legge le carte, ha per vicino di casa il parroco. 

«Quando mi hanno proposto questo spazio qui non c’era niente. Mi piaceva moltissimo, però era attaccato a una chiesa e io volevo fare piano bar». In bocca a Luisa ogni aneddoto diventa epico. Andò da don Cappelletti a chiedere il permesso: «Però non le ho detto che lo chiamerò Madonna Verona». La Madonna in questione è solo profana, non blasfema, e il prete, dopo aver indagato sulla sua reputazione, la lasciò fare. Il patto di reciproca tolleranza era concluso. 

Dal canto suo Luisa è una vicina di casa quasi inesistente. Abita da sola nel palazzo di proprietà della Curia di fronte al locale e Zeno, il suo dirimpettaio laico di qualche anno fa, al telefono me la descrive affettuosa e prodiga di inviti a cena al Madonna Verona. «Quelle poche volte che era in casa era silenziosa e riservatissima, ma praticamente abitava giù al locale perché aveva l’abitudine di andare a letto molto, molto tardi. Io dormivo quando rientrava, ma poteva essere anche verso le sette di mattina».

Luisa vive in una dimensione tutta sua. Quando le chiedo “Che anno era?” ci deve pensare, fa confusione, risponde “quarant’anni fa”. A volte si aggiunge degli anni all’età reale, così per gioco. Per una come me abituata a fare ricerca storica, è disturbante non poter tracciare una linea cronologica con date certe. Ricordo le parole di Diego: «Non ha senso sapere quando è nato il Madonna Verona. È sempre esistito: è un simbolo».

Riguardo un’intervista su YouTube del 2018. Era un evento aperto a tutti: il locale strapieno di affezionati, Luisa in ghingheri sul divano rosso mentre beve Prosecco e risponde al microfono. Una volta che le si dà il via, lei apre la diga dei ricordi che vanno dalle vicende cupe agli aneddoti gustosi, come Vinicio Capossela che suonava al piano bar o l’acquisto di un Porsche color oro. Ma ha anche preso la patente dell’ambulanza e quando le chiedono se non dorme mai, lei risponde che così la Morte non può coglierla a letto. «No g’ho tempo de morir!».

Nel silenzio della mia camera riascolto le interviste che ho fatto nelle ultime settimane: cerco un denominatore comune o almeno un filo da seguire per raccontare una storia, ma appena penso di averne ricostruito la figura, Madonna Verona si frantuma di nuovo. Ogni persona che mi parla di lei aggiunge un livello di complessità imprevisto e fatico a far coincidere l’immagine della signora anziana che ho di fronte con le rocambolesche avventure che racconta.

Chiedo aiuto a Filippo, musicista e conoscitore dell’underground veronese. «Luisa è cinematografica. Quando lei parla parte il film, il posto si anima e diventa un altro mondo». Beviamo un caffè pomeridiano in una sala biliardi: arredamento anni ’80, temperatura polare, rumore di stecche sul panno verde. «È d’obbligo sedersi e parlare con lei, fa parte dell’esperienza. Riesce a trasportarti in questo passato veramente incredibile.».

Faccio una ricerca su Google: non trovo quasi nulla. L’intervista su YouTube è il risultato più esaustivo; oltre a quella qualche articolo locale, poche foto di Luisa, tutte recenti.

Dove sono le sue biografie? Dove le foto dei personaggi famosi che frequentavano i leggendari locali? 

Madonna Verona viaggia su frequenze diverse, il suo medium non è digitale. È un mito analogico; se non l’hai conosciuta puoi solo affidarti alle testimonianze orali.

Un giorno d’agosto Luisa mi fa una sorpresa. Siamo nel ristorante vicino al suo locale, dove lei è di casa; fa un cenno verso il sacchetto appeso alla sedia: «Ti ho portato delle fotografie. Le guardiamo dopo». Finito di pranzare ci spostiamo all’esterno su un tavolo apparecchiato con una tovaglia a quadri. «Per vederle bene ci vuole la luce».

Man mano che Luisa mi passa manciate di foto, le cose che racconta, assurde e irreali, diventano nitide: giovane mamma con i bambini, in abito da sera, sull’ambulanza, signora del Carnevale; e poi il cavallo Stinger, il levriero Sirio, il fantomatico ma concretissimo Porsche dorato. È tutto vero. E non importa se la data sul retro di una foto del Boomerang n. 1 è in anticipo di almeno sei anni sulla linea del tempo che ho tracciato: è sempre esistito.

«Hai fatto un sacco di cose» le dico.

«Ho vissuto» risponde mentre assorbo ogni fotogramma. E poi: «Cosa resterà delle foto fatte con questi telefonini?». 

Me lo chiedo anch’io, Luisa, che cosa resterà.

Mentre torno alla macchina mi accorgo di un bagliore familiare. Rosa. 

Alzo la testa: l’insegna è accesa.


Il Tocatì e i giochi che ci aspettano a Verona

I salmoni sono noti per saltare fuori dall'acqua mentre risalgono la corrente dei fiumi: un po' saltano per non farsi trascinare dai flutti, ma anche – pensiamo noi – per poter giocare. Eppure, il gioco non è un’attività a cui partecipa esclusivamente la comunità dei salmoni, esso è un tratto basilare di ogni cultura. Per questo motivo il Tocatì, riunendo un numero così consistente di persone e storie, spesso provenienti da luoghi lontani dalla realtà veronese, ci ha permesso di confrontarci con una pluralità di culture davvero straordinaria.

Gioco e identità

Come era da aspettarsi, a noi veronesi il Tocatì è piaciuto molto. Vedere le persone per strada che si cimentano nei giochi tipici come lo s-cianco o vedere i bambini sfrecciare con i caretini a sfera, ci fa stare bene e ci fa vivere la città in un modo insolito e aperto. Come sappiamo, durante il Festival Verona viene abitata da persone che hanno a cuore peculiarità regionali come la Rouotta, un gioco di bocce valdostano che viene giocato solo a Santo Stefano e che ci ha fatto piegare in due dal ridere. O il Gioco delle Noci, un escamotage che le donne liguri usavano per cercare di vincere il prezioso frutto secco da portare a casa per cena.

Quest’anno l'ospite d'onore è stata la Bretagna (dobbiamo dire che a noi sono piaciuti tantissimo, in particolare, ricordiamo, alla nostra salmona Alessandra). La Bretagna è una regione impervia, che si porta sulle spalle il peso della sua recente fioritura. In questa regione la povertà è stata un ostacolo difficile da affrontare e ha plasmato la sua gente; i bretoni sono di poche parole, grande cuore e larghi sorrisi, pronti a sporcarsi le mani e a buttarsi nel gioco, che è esattamente come li abbiamo visti noi durante queste giornate.

Una cosa che ci ha colpito è stata la somiglianza tra parecchi giochi bretoni e alcuni regionali italiani: siamo passati dalle Bocce al Boule Plombée, alla Lutte Bretonne, una lotta di un equilibrio sconcertante che fa affidamento sul far leva con le gambe, e s’Istrumpa, una lotta Sarda caratterizzata dall’eleganza dei suoi lottatori, passando attraverso i giochi della Carrara e del Quilles de Muël, un gioco molto simile ai birilli a punteggio. Se si gioca in un modo simile, l’essere di due posti diversi conta poco alla fine, no?

Gioco e attività

Del gioco, poi, c’è un’impronta nella maggior parte delle attività quotidiane. Anche Tobia dei C+C=Maxigross, prima di iniziare a suonare, ha ricordato che il verbo inglese, to play, è molto più usato rispetto al corrispettivo italiano. To play significa sì giocare, ma anche suonare, ascoltare o recitare. Perciò anche il concerto mattutino dei C+C è rientrato perfettamente all’interno della dimensione ricreativa del Tocatì. Qui gli stessi partecipanti sono stati invitati a suonare insieme alla band, scegliendo uno strumento tra quelli messi a disposizione.

Anche le attività del ToBotega erano in perfetta continuità con lo spirito del Festival. Diverse erano le attività che hanno aperto le loro porte per svelare i segreti dell’artigianalità veronese. Così, sporcandoci le mani, abbiamo capito il valore di un lavoro e di una passione tramandati da generazioni di artigiani.

Una delle nostre ultime tappe, invece, è stata l’ex Dogana: qui, grazie alla Cooperativa Le Rondini, abbiamo potuto partecipare ad un percorso sensoriale tra spezie e piantine. Alla Dogana si poteva accedere sia da via Filippini, sia dal fiume: inutile rivelarvi quale delle due opzioni sia stata scelta dai salmoni. Ad accompagnarci tra le rapide di Ponte Pietra, Zeno del Rafting Team Verona, che ha saputo mostrarci la città e la sua storia da una prospettiva del tutto diversa.

I giochi che ci aspettano

Abbiamo poi incontrato, sempre all’ex Dogana, Luigi Spellini, vice presidente del Canoa Club Verona. In questa dimensione sinistra della riva, quasi spettrale, Luigi si è rivolto a noi salmoni, invitandoci a considerare quanto gli eventi del Festival siano in realtà molto coerenti al viaggio dantesco. Alla base del Tocatì vi è sì il gioco, ma attorno alle attività più ricreative si sviluppano, a gironi, attività che manifestano qualcosa che va al di là dell’aspetto ludico. Per questo motivo i giochi, così come gli eventi collaterali, hanno mostrato l’urgenza per cui è nato tutto questo: ritornare ad un uso della città più partecipato.

Giunti al termine del nostro percorso, abbiamo salutato la nostra guida e ci siamo spostati su un’altra riva, a San Lorenzo, insieme ai ragazzi e alle ragazze di RiVer - Primavere Urbane, dove sono stati allestiti concertini e installazioni assurde. Così, in soli due giorni abbiamo vissuto parti della città che spesso non consideriamo nemmeno, soprattutto lungo le rive. Rimangono quindi grandi questioni aperte e la voglia di metterci in gioco è tanta: se saremo bravi, non servirà aspettare il prossimo Tocatì per farlo.

Articolo di Elisa Muraro e Riccardo Soave

Foto di Danny Antolini e Manola Udali


Gioco, partecipazione e città: ecco perché il Tocatì può davvero cambiare le cose

Una Verona che gioca

Sole, arietta e gente che giocava ovunque: Verona oggi era bellissima. Il motivo di tanta spensieratezza, come potete immaginare, è il Tocatì, che per il diciassettesimo anno contribuisce a rendere la nostra città un posto in cui si può ancora giocare. Nessuno dei bambini presenti stava con il telefono in mano, tante erano le attività a cui potevano prendere parte: dalle botti ai caretini a sfera, dalle cerbottane agli aquiloni.

Anche noi salmoni ci siamo buttati. Così, abbiamo conosciuto gli appassionati della Pro Loco di Lillianes in Valle d'Aosta, che ancora oggi praticano il gioco della rouotta. Se volete farvi qualche risata, dovete assolutamente passare per via Pigna, non ve ne pentirete. Se cercate invece qualcosa di più hardcore, potreste provare la lotta tradizionale bretone in Piazza Erbe con Yann.

Il gioco della rouotta in via Pigna

Insomma, scendete in città e cercate il vostro gioco. Ce n'è uno, in particolare, che parla sia italiano sia francese: è il tiro alla fune, o tire à la corde. La sfida con i bretoni, ospiti d'onore del Festival, è ancora aperta, perciò fatevi pure avanti.

Diverse culture, un'unica lingua

A parte gli scherzi, una delle missioni fondamentali del Tocatì è promuovere l'incontro tra diverse realtà. E ciò che ci ha sorpreso di più è stato realizzare quanto vicine siano le persone quando giocano. E così scopri che in Croazia hanno un gioco molto simile allo s-cianco, o che la lotta sarda S'intrumpa non è poi così diversa da quella bretone. Non solo, ma anche vedere bambini e anziani giocare allo stesso gioco, condividere questi momenti insieme.

Un altro grande esempio di incontro è stato quello della nostra Ale, che durante la pausa pranzo è riuscita a conquistare il cuore della Bretagna. Primo, riuscendo a comunicarci in un dialetto franco-veronese. Secondo, facendo perdere la testa al loro lottatore più grosso.

Una salmona e il suo bretone

La Verona che vogliamo

Ma tutto questo, nonostante le risate e l'atmosfera ludica che si respira, non è un carnevale. L'uso che si fa della città, che rende viva ogni via del centro, mette in luce quelli che sono i nostri desideri per lo spazio che abitiamo. Di questo abbiamo parlato oggi pomeriggio con gli esperti di ALDA, in un workshop interattivo con tanti altri partecipanti. C'erano quattro tavoli di lavoro, dedicati a spazi pubblici, metodi di coinvolgimento, pratiche e idee innovative.

Un tavolo di lavoro

Le idee che sono emerse sono tantissime: c'è chi ha suggerito di inserire panchine mobili, in modo tale da poter modificare a piacimento il proprio spazio; chi ha proposto la creazione di itinerari fisici tramite l'uso del colore. Ma l'idea che più ci ha colpito è stata l'attenzione alla relazione tra Verona e l'Adige. Mentre in molte altre città si sono create spiagge e luoghi di aggregazione lungo il fiume, Verona sembra non avere un rapporto con l'acqua tanto valorizzato.

Tuttavia, come hanno dimostrato le storie di ALDA, quando le pratiche partono dal basso e sono così manifeste, è difficile che non ricevano ascolto. Per questo motivo, domani, sarebbe cose buona e giusta svegliarsi di buona lena e spararsi il concerto dei C+C=Maxigross di prima mattina, perché si terrà proprio lungo l'Adige, sotto Ponte Pietra, alle 8.

"Un concerto in un angolo di Verona così facile da raggiungere" scrivono sull'evento "così quotidiano che vederlo in questa chiave vi porterà in un altro mondo". Un altro mondo in realtà è più vicino di quanto si pensi, la cosa più assurda è che potrebbe partire proprio da momenti come il Tocatì.


Verona Risuona inizia oggi.

E siamo già alla quattordicesima edizione. Capiamo di cosa si tratta, quali sono i momenti salienti, i luoghi e i temi chiave di questa fondamentale iniziativa. Ce lo racconta da un punto di vista speciale l'associazione URBS PICTA.

Inizia oggi la XIV edizione di Verona Risuona, rassegna di sound art con eventi sparsi per il centro storico e il quartiere di Veronetta. L’associazione Urbs Picta è partner culturale dell’evento confermando il suo impegno e interesse nella promozione di eventi culturali vicini all’arte contemporanea, in collaborazione con altre realtà locali come Bridge Film Festival, Diplomart e tanti altri ancora.

Ma in cosa consiste Verona risuona?

L’obiettivo dell’iniziativa è la riconversione sonora di spazi urbani attraverso serate musicali, mostre e installazioni a cura di artisti internazionali e di giovani dell’Accademia delle Belle Arti di Verona.

Luoghi come San Briccio o il Giardino Giusti, complesso urbano carico di storia e di fascino, mutano in una nuova forma.

Al Giardino ci sarà un live “The Singing Garden”, a cura dell’Ensamble di Improvvisazione di Verona Risuona (graphic score: Staffan Mossenmark) e a seguire a cura di Spazio Cordis, Jacopo Mazzonelli e Tovel (Metteo Franceschini) presentano la performance The Act of Touch.

Qui di seguito tutti gli eventi del Festival interamente gratuiti che si svolgeranno dal 27 maggio al 1 Giugno.

“Lunedí 27 Maggio, dalle 18:30 alle 20

C/O Lino’s & Co, Vicolo Valle 9

Presentazione della rassegna

Talk: Coreografie/Criptografie. Intrecci tra arte e danza nel secondo ‘900, con Camilla Monga (coreografa) e Francesco Ronzon (antropologo culturale).

CIVIC PUPPETS

Martedi 28 Maggio, dalle 17 alle 19

C/O Biblioteca Civica, via Cappello 43

Ore 17, Talk: Burattini e Teatro di Strada, con Nicola Pasqualicchio (Univr), Francesco Ronzon (Aba VR), Vincenzo Padiglione (La Sapienza), Andrea Morbio (artista).

Ore 18 performance: Burattini di Nino Pozzo per musica e poesia, Narratore Burattinaio: Marco Campedelli, Musiche di scena: piccola orchestra di improvvisazione da camera di Verona Risuona (direction: Maria Cleary/Helicona Project).

VERONETTA RISUONA

Mercoledí 29 Maggio, dalle 18 alle 23:30

C/O Veronetta

Mostre, Concerti, Performance e Sperimentazioni artistico/musicali nel quartiere Mappa e Programma completo su fb o sul sito veronarisuona.org

INTO THE GREEN

GIovedí 30 Maggio, dalle 19 alle 21

C/O Giardini Giusti, via Giardino Giusti 2 in coll con 5Vie

Ore 19, The Singing Garden, sonorizzazione live dei giardini a cura dell’Ensamble di Improvvisazione di Verona Risuona (graphic score: Staffan Mossenmark)

Ore 21.00 - Performance

The Act of Touch di Jacopo Mazzonelli e Tovel (aka Matteo Franceschini - Leone d'argento alla Biennale di Musica di Venezia 2019). L'iniziativa è proposta da Spazio Cordis e sostenuta da AGIVERONA Associazione Culturale e Lorenzo Lomonaco con la courtesy di Paolo Maria Deanesi Gallery (Trento), Galleria Giovanni Bonelli (Milano - Pietrasanta) e Collezione privata Verona

Venerdí 31 Maggio, dalle 21 alle 23

C/O Teatro Laboratorio, Arsenale, padiglione 2c (ingresso piazza Arsenale)

Visuals e musiche elettroniche live a cura di: Maotik (Francia), Datacode (Torino), Loon Visuals +Persus Nine (Barcellona). In collaborazione con Bridge Film Festival, PatchLab e Teatro Laboratorio.

ART WORLDS

Sabato 1 giugno, dalle 17 alle 02:00

C/O Forte San Briccio (Lavagno, VR)

Arte, Danza e Musica live

In collaborazione con Fotogrammi Fotonici e all’Ombra del Forte


Hidden Verona - Centro Storico: Smaltotecnica Arco dei Gavi

Oggi vi parliamo di un bottega di quelle vere, di quelle come una volta, in cui il rapporto umano e la passione sono in prima linea. Siamo stati a fare due parole con chi da quasi 70 anni fa vivere la Smaltotecnica Arco dei Gavi: ecco cosa ci hanno raccontato.

Da quanto è aperta la vostra
attività? È sempre stata qui?

Si, la Smaltotecnica è qui circa dal 1950, allora c'era il nonno. È un locale storico, anche l'insegna è quella originale di ormai settant'anni fa. Diciamo che nel mentre che molte cose qui intorno cambiavano, noi ci siamo mantenuti più o meno uguali.

Sicuramente oggi è un posto un po'
inusuale per il centro storico, che negli ultimi anni ha indirizzato
sempre di più le attività verso i turisti. Come siete riusciti a
resistere a questa tendenza?

Si, negli anni abbiamo mantenuto un certo target anche a costo di non avere grandi guadagni. Pur essendo un punto molto frequentato da turisti ed il negozio stesso lo è, a discapito del guadagno abbiamo tenuto duro mentre tanti altri hanno chiuso. Certamente siamo un po' di nicchia, oggi hanno aperto molti centri commerciali e cartolerie varie, ma si tiene duro. Non manca ovviamente la volontà e la voglia di innovarsi: l'idea ora è di fare proprio questo: rilanciare l'attività, riassortire nuovamente e ristrutturare il locale, senza però venire meno ai valori e a tutti quegli aspetti che i nostri clienti apprezzano.

Qual è l'identikit del cliente del
vostro negozio? Si va dal turista curioso al cliente affezionato?

Beh, tra i nostri clienti ci sono molti storici artisti della città; c'è poi il presidente della SBAV (Scuola Belle Arti Verona) che manda qui tutti i suoi studenti. Anni fa facevamo anche promozione all'Accademia, nelle scuole. In effetti entrano anche turisti, a volte rapidamente entrano ed escono, altre volte scatta un qualcosa che magari li fa ritornare a distanza di anni. È successo anche con degli spagnoli che ancora ci mandano scatole di cioccolatini!

Com'è il rapporto con gli altri
esercenti della zona? Ci si aiuta, ci si ignora?

Beh, ci conosciamo
tutti qui in zona. Poi negli anni tanti negozi sono cambiati, noi
siamo un po' l'osso duro! In generale andiamo d'accordo con tutti,
con gli esercenti cosi come con i clienti.

Per lavorare con serenità cerchiamo sempre di coltivare il rapporto umano: ascoltiamo, diamo consigli. Pensa che qualche artista ormai non più giovincello ricorda che ha mosso i suoi primi passi da qui, perché gli regalavamo i tubetti di colore! Sono cose belle e chi dimostrano che lo spirito è quello giusto.

C'è qualche aneddoto particolare
che vi è capitato in tutti questi anni di attività?

Beh, nel corso
degli anni tanti artisti sono diventati amici di famiglia. Voi siete
giovani, ma per esempio Aladino Ghioni, artista veronese molto famoso
negli anni '70-'80, fu incaricato di dipingere un grande Cristo nella
basilica di San Zeno: un giorno eravamo in piscina insieme e Aladino
scelse papà, disteso sul lettino, come modello per la sua opera!


Hidden Verona - Centro Storico: Libreria Il Gelso

Un luogo speciale e che non poteva mancare sulla nostra guida del Centro Storico: la sognante Libreria il Gelso, luogo fatto di libri e oggetti semplicemente bellissimi.

Libreria Il Gelso, un giardino da leggere, nel cuore di Verona.

Prima domanda di rito: Libreria il Gelso è sempre stata qui in Via Zambelli? Quand'è nata?

Non è sempre stata qui: era in Corso Porta Nuova, ma questa forma cartoleria-libreria c'è da quando ci siamo noi, da più di 25 anni. L'idea della cartolibreria, di unire la carta ed i libri, è stata nostra.

Sicuramente la parte di cartoleria è ricchissima, molto particolare e -immagino- riconosciuta come tale. Come selezionate le materie prime ed i fornitori?

In effetti una volta è venuto un nostro fornitore di carta e ci ha assicurato che a Verona, ma anche a Milano e Torino, non esistono negozi di carta così ben forniti. Abbiamo tutte le cartiere più importanti d'Italia, i prodotti classici e quelli più recenti, e non solo: teniamo prodotti dalla Francia, dal Nord Europa, dall'Oriente e da laboratori locali.

Insomma, avete fornitori da tutti gli angoli del mondo! E gli articoli di cartoleria li producete voi?

Il 90% di quel che è cartoleria lo facciamo noi: i biglietti, i quaderni, gli album, i libri-firma. L'oggettistica, i prodotti per la scrittura, i soprammobili ed i fermalibri, arrivano principalmente dal Nord Europa, ma dall'anno scorso abbiamo cominciato a sviluppare dei prodotti nostri con una ragazza, Chiara, che è specializzata in lavori con il legno. Abbiamo degli artisti che collaborano con noi, alcuni ormai di vecchia data ed altri più giovani: calligrafi, incisori, artigiani.

I prodotti di questi artisti sono esclusivamente per noi: richiediamo loro di sviluppare dei temi ed i lavori finiti li si possono trovare solo qui. Ovviamente poi loro fanno molte altre cose, murales, dipinti eccetera. Sono tutti bravissimi!

Ultimamente si può dire che la necessità di scrivere è sicuramente calata, sostituita da nuove tecnologie. Voi che lavorate con carta e penna, cosa ne pensate?

Beh, crediamo che negli ultimi anni si sta verificando un ritorno, una riscoperta del piacere di scrivere. Proprio l'altro giorno leggevamo un articolo che racconta di una scuola friulana di 'nuovi amanuensi'; nell'articolo veniva sottolineato anche il valore terapeutico della scrittura: se pensi allo sviluppo negli ultimi anni di libri da disegnare – come ad esempio quelli di mandala - , questi sono nati proprio come antistress, come terapia. L'esercizio di scrivere si è staccato dalla scrittura come necessità scolastica, perché probabilmente i nativi digitali hanno sempre meno a che fare con i quaderni già nella scuola, così ci stiamo lentamente rendendo conto di tutti quei vantaggi lasciati per strada, vantaggi connessi al fare un esercizio di coordinazione occhio-mano-pensiero.

Bisogna dire che ci sono stati anche importanti esponenti italiani che sono riusciti a riunire tendenze e movimenti diversi: penso ad esempio a Luca Barcellona, che era un writer ed ora è un grande calligrafo. Ha unito questi due mondi, sicuramente ha contribuito ad avvicinare tante persone ed a ridare slancio alla scrittura!

E voi personalmente avete riscontrato questo ritorno al piacere della scrittura e questo nuovo interesse per la carta?

Si, in generale si, alla gente piace. Pensa che alcuni turisti dalla Florida, dalla Gran Bretagna, hanno approfittato di un soggiorno a Verona per passare qui in libreria, perchè avevano letto di noi su riviste specializzate all'estero. Per noi quando capita è motivo di grande soddisfazione e orgoglio! Questo rispecchia molto anche il vostro progetto come Salmon: dare valore alle peculiarità, alle botteghe del territorio. Spesso ci dimentichiamo che la bellezza, il fascino del nostro paese è dato proprio da questa particolarità, le piccole realtà tipiche radicate nel territorio. Di frequente le città fanno importanti investimenti in zone commerciali con grandi brand internazionali, quando in realtà il turista non viene a cercare quello, ma il piccolo laboratorio autentico.

E il cliente cosa cerca? C'è qualche prodotto che vi rappresenta in particolar modo?

Beh, ti sembrerà assurdo ma il prodotto più venduto è sicuramente l'album portafoto. E' il primo prodotto che abbiamo sviluppato: lavoravamo con un'azienda produttrice che aveva degli ottimi materiali, poi molti ragazzi da lì sono venuti a lavorare con noi ed è nato il nostro laboratorio, con i primi modelli di album e quaderni. Poi i biglietti, i segnalibri. Pensa che da quindici anni un cliente di Madrid viene una volta all'anno e si porta a casa i segnalibri, pezzi unici fatti a mano, da collezione.

Ci avete parlato della vostra passione per la carta. E l'altra faccia della libreria il Gelso? Raccontateci un po' dei libri!

Un giardino da leggere nel cuore di Verona: la libreria nasce negli anni'80 come centro di cultura ecologica, in corso Porta Nuova; poi ci siamo spostati qui e pur mantenendo l'originale vocazione alla bioarchitettura, urbanistica, manualistica sulla gestione dei rifiuti, siamo diventati più romantici. Abbiamo inserito prodotti di carta riciclata ed il ventaglio di libri si è aperto anche verso la narrativa: si va dalla letteratura di giardino, le poesie di Prevert sugli alberi, ai manuali di botanica. L'altra parte importante è la letteratura di Verona, pubblicazioni veronesi sulla città e dintorni e libri fotografici; negli ultimi tempi abbiamo sviluppato anche una piccola sezione sul camminare, con qualche guida d'escursionismo ma in particolare libri di filosofia di viaggio. Fondamentalmente è gestita come se fosse la biblioteca di casa: tutto quello che ci piace e che ci sta, lo inseriamo.

Nel settore dei libri, così come in altri, Internet offre oggi possibilità d'acquisto infinite. La carta vincente di attività come la vostra può essere proprio riuscire ad offrire al cliente una selezione ed un consiglio che il web non può dare. Siete d'accordo?

In linea di massima chi compra online è un cliente che sa già cosa comprare; chi viene in libreria invece molto spesso entra, chiede un consiglio, non sa ancora cosa comprerà. Negli ultimi anni abbiamo avuto la conferma che non si può fare concorrenza al web, per lo meno sul prezzo; quello che possiamo fare noi come negozianti è fare quello che non possono fare loro: accogliere il cliente, fare consulenza, avere il piacere di fare due parole e coltivare il rapporto umano. Probabilmente è l'unico modo che hanno i commercianti di sopravvivere. Da questo punto di vista vedo più avvantaggiati i piccoli negozi, che hanno la possibilità di avere questa intimità con il cliente, rispetto alle grandi catene in cui questa componente manca: se andare in un negozio fisico diventa come comprare on line, a quel punto compro on line. Se invece la piccola bottega riesce a darmi un servizio in più, allora mi rivolgerò sempre lì.


Hidden Verona - Centro Storico: Osteria al Duomo

Siamo stati nel cuore della città, all'Osteria al Duomo, a farci due ciacole e due bigoli col musso. Il proprietario Giorgio ci ha raccontato la sua attività ed il suo amore per la cucina veronese: qui si fa “resistenza gastronomica”! Ecco la nostra intervista.

Prima solita domanda: da quanto
tempo avete aperto? Osteria al Duomo è sempre stata qui?

Si, l'Osteria è sempre stata qui dagli inizi del '900. Ho rilevato la proprietà nel 1994 e dal 2001 siamo due soci.

Nel corso delle nostre interviste abbiamo scoperto le difficoltà nel sopravvivere in centro storico: la miscela è saper essere appetibili per la clientela locale ma anche saper lavorare con i turisti, che sono una risorsa importante per la città. Siete d'accordo?

Si, l'Osteria al Duomo è
fondamentalmente un locale conosciuto e frequentato dai veronesi; poi
il turista che non si accontenta dei grandi classici pizza e
spaghetti, che cerca una cosa un po' più tradizionale ed in linea
con la storia della città chiede e trova noi.

Ed il turista che viene qui è un
turista preparato? Si aspetta di trovare piatti “esotici”?

I giapponesi sono preparatissimi: cercano e trovano, arrivano con la fotografia, con il nome del piatto e chiedono di poterlo assaggiare. Poi c'è qualche inglese, qualche americano; pochi anni fa avevano parlato di noi sul New York Times: un giornalista americano era stato qui, aveva mangiato i bigoli con il ragù d'asino ed ha scritto un articolo sull'Osteria!

Qualcun altro si siede impreparato, si
alza e se ne va: insomma, probabilmente la carne de caval non è così
facile. Vista da fuori è cucina etnica!

Qual è il vostro piatto forte?

Beh, probabilmente il piatto che ci contraddistingue di più sono i bigoli con il ragù d'asino: non riusciremo mai a cambiare rotta da questo punto di vista!

Secondo voi per quale motivo alcuni
piatti tipici, come ad esempio il lesso con la pearà, sono così
radicati e mitizzati nel territorio, mentre al di fuori della
provincia rimangono sconosciuti?

Sai, in Italia c'è una fortissima
tradizione culinaria regionale, locale, cittadina: piatti che mangi
qui non li mangi a Mantova, a Vicenza e viceversa. La cultura
culinaria è veramente molto radicata nel territorio! Pensa il
baccalà: a 50 km da qui, a Vicenza, lo cucinano dappertutto, a
Verona non lo trovi da nessuna parte. In Italia la cucina è come i
dialetti: cambiano nel giro di pochi chilometri.

Il fatto di portare avanti questa
tradizione culinaria veronese vi fa sentire in qualche modo come
promotori di una cultura locale che rischia di perdersi nel mondo di
oggi?

Direi più che altro che negli anni
abbiamo resistito alle mode del momento: siamo ancora qui nonostante
i pub, i sushi, i wine bar e i kebab vari. Le mode sono state tante e
sono sempre di più come fulmini a ciel sereno: ad esempio le
hamburgerie negli ultimi anni, che già ora sembrano in leggero
declino. In generale oggi l'offerta è ampia e confusionaria, così
probabilmente un cittadino italiano torna sempre più spesso a
scegliere i piatti semplici della tradizione.

Un'ultima domanda: che rapporti ci
sono con gli altri esercenti della zona? Ci si aiuta?

No, non c'è sinergia, generalmente
ognuno guarda al proprio orticello. Quando ho iniziato nel '94 c'era
la volontà di darsi una mano come ristoratori, si cercava di tenere
gli stessi prezzi sul bere, poi negli anni quest'idea si è molto
smorzata.

Un'ultima cosa la diciamo noi:
questa strada è un'angoscia, il giorno che la chiuderanno sarà un
giorno di festa...Vogliamo il plateatico!


Hidden Verona - Centro Storico: Gelateria Savoia

Qui in redazione siamo cresciuti a pane e Mattonelle Savoia. Veramente la gelateria di una volta, un simbolo della città e una garanzia. Come non includerlo nella nostra guida del centro?

Da quanto tempo siete aperti?

La gelateria Savoia nasce nel 1939 nel centro storico di Verona, sotto l’Orologio, a fianco della Farmacia Internazionale; nel 1964 viene spostata qui in via Roma. Questa è la terza generazione; lo zio di mio padre la fondò con il nome di gelateria Bonvicini, per assumere il nome attuale nel 1972.

Essendo questa è la gelateria più antica di Verona ci viene spontaneo capire se come sia cambiato il modo in cui fate il gelato...

Non siamo cambiati molto: non ci siamo mai “venduti” a preparati che possano agevolare la preparazione a scapito della qualità! Ad esempio sulle materie prime: se al posto della frutta si usano dei surgelati o dei preparati, si fa risparmiare sì tempo al gelatiere... Ma la lentezza è parte fondamentale della nostra filosofia. Per dire, abbiamo il fruttivendolo che ci porta ogni mattina la frutta di stagione.

Verona è la quarta destinazione per numero di turisti in Italia, immagino che questa cosa influisca molto sui flussi di clienti qui dentro. Corretto?

Esattamente, noi per la maggior parte dell’anno lavoriamo all’80-90% per i veronesi; nei mesi di maggior afflusso turistico arrivano per lo più turisti stranieri che anche grazie alle informazioni che reperiscono su Internet vengono qui e sanno già quali gusti ordinare.

Quando prendono piede queste attività, chiaramente chi lavora bene ottiene fiducia, dall’altra parte spuntano come funghi competitor che copiano i prodotti a scapito della qualità, è una cosa che respirate anche voi?

Certamente, questo accade soprattutto nel settore enogastronomico. Nascono attività come pizzerie e ristoranti che vanno a copiare, depauperando la qualità. Bisogna continuare a inseguire la qualità per fidelizzare il cliente.

Ad esempio ho visto "La Mattonella" anche in un'altra gelateria...Sacrilegio!

Ho capito a cosa e a chi vi riferite! Vi dico già che hanno smesso di farla... Per fare la Mattonella serve essere molto bravi e pazienti. Per prepararla artigianalmente servono cinque persone e i costi di produzione sono elevati. Non un prodotto facile da copiare!

C'è qualche aneddoto particolare, anche storico o divertente, o qualche cliente celebre che è entrato?

Tantissimi... potrei nominare Renato Zero e Silvio Berlusconi. Il mio aneddoto preferito però è successo l’anno scorso in occasione della presentazione di una  nuova collezione di Calzedonia, personalmente ho consegnato un gelato a Julia Roberts in un hotel qui vicino. Quando l'ho incontrata non l’ho salutata come “Miss Roberts”, ma come “Vivian”, come nel film Pretty Woman, degli anni ’80. Per me è stata un’esperienza che ricordo ancora oggi con simpatia.

Cari amanti del gelato artigianale, siete avvisati: un salto dalla gelateria Savoia è d’obbligo, soprattutto se siete alla ricerca di atmosfere che rispettino le vecchie tradizioni tramandate di padre in figlio!


Hidden Verona - Centro Storico: Al Carroarmato

"Al Carroarmato non si sparano cannonate, ma gioia e socialità". In un magnifico locale del milletrecento, da più un quarto di secolo l'osteria Al Carroarmato propone la cucina tipica veronese a cittadini e turisti curiosi. Qual è il segreto dell'attività? L'autenticità.

Da quant è aperto il Carroarmato? È
sempre stato qui?

Questa edizione di Carroarmato nasce il
4 giugno 1988: l'anno scorso abbiamo festeggiato 30 anni di attività.
Sempre qui in vicolo Gatto. Il locale è del XIV secolo, lavoriamo
quindi all'interno di una storia molto profonda.

Ma dunque prima dell'88 c'era già
un'osteria?

L'osteria da cui abbiamo preso il nome è nata qui nel 1920, chiusa nel 1954. L'aveva aperta un carrista: amava l'arma ed ha scelto questo nome. È diventata poi un magazzino per molti anni ed infine è rimasta sfitta. Sapendo dell'antica osteria, volevamo restituire a questo luogo la sua vocazione aggregativa: l'idea era di porre come protagonista il vino. Abbiamo deciso di mantenere il nome dell'osteria originale -nonostante all'inizio mi facesse accapponare la pelle- ed abbiamo commissionato alla fonderia Brustolin la costruzione di questo magnifico carro armato di Leonardo. È diventato il simbolo della nostra osteria.

Come si compone la vostra clientela?
Veronesi e turisti?

Io li considero tutti clienti:
qualsiasi persona che entra al Carro Armato è per me una persona che
va seguita ed accompagnata all'interno del percorso della nostra
proposta e dei suoi desideri. C'è il veronese che non è mai venuto
qui, il veronese che frequenta le nostre quattro mura ed il turista.

La cucina veronese non è molto
conosciuta in Italia. I tuoi clienti sono per lo più persone che
vengono a cercare i piatti tipici veronesi o persone che entrando qui
scoprono la nostra cucina?

La cucina veronese
non è una cucina ampia: a parte i due piatti tipici, la pearà
e la pastissada de caval, ci sono poi cucine locali come
quella del lago di Garda o delle basse veronesi. In generale chi
entra al Carro Armato cerca l'autenticità: ai miei clienti propongo
i piatti tradizionali della città, tutto il resto fa parte della
tradizione della mia famiglia.

Qui al CarroArmato negli anni avete
proposto anche proiezioni, concerti, spettacoli?

Si, negli anni
abbiamo ospitato degli eventi meravigliosi. Dall'89 abbiamo proposto
musica per oltre 15 anni: abbiamo ospitato il primo seminario di
Barry Harris di interpretazione jazz, quella sera c'erano qui
più di 40 jazzisti da tutta Europa. Ancora mi emoziono quando
ripenso alla bellezza di quegli eventi!

Secondo lei c'è spazio oggi per una
ricerca culinaria come la vostra, legata al territorio ed alle
tradizioni? C'è ottimismo verso il futuro?

No, non sono
ottimista verso il futuro. Siamo nell'epoca dei fast food: il cliente
cerca qualcosa di veloce, qualcosa che trova in tutto il mondo. Non è
interessato a curiosare, perchè la curiosità comporta tempo e
purtroppo oggi viviamo troppo velocemente. All'opposto, chi viene al
carro armato sa che deve parcheggiare fuori dal centro, passeggiare
fino a qui, sedersi a tavola e mangiare con tranquillità: è
un'esperienza molto diversa.

Penso che siano
scelte politiche: ad un bivio bisogna sempre scegliere quale strada
intraprendere, se quella dell'interesse immediato, delle grandi
compagnie o invece quella di dare la possibilità all'ospite di
godere veramente della città, non solamente di 'passarci'.

Un'ultima domanda: c'è un episodio
curioso, un aneddoto particolare che è accaduto qui al Carro Armato?

In trent'anni di
attività di aneddoti ce ne sono una montagna! Di sicuro almeno una
generazione intera ha scambiato socialità ed incontri all'interno
dell'osteria: studenti, lavoratori, cittadini, turisti che hanno
aneddoti ed emozioni legate a questo luogo. Ho avuto la fortuna di
condividere con loro il lungo percorso di Carro Armato.


Hidden Verona - Centro Storico: Ink Addiction

Non avevamo dubbi che sarebbe uscita una bella intervista. Parlare con il Beppe di Ink Addiction non è semplicemente confrontarsi con un tatuatore. Si tratta più di parlare con un artista, una persona estremamente competente che ha capito che per eccellere non bisogna mollare mai un secondo, che la vita è un percorso lungo e che quando ti definisci "arrivato", in realtà il tuo percorso è tragicamente finito.

Quando inizia il viaggio Ink Addiction? Siete sempre stati qui?

Ho aperto il primo marzo del 99 nel quartiere Filippini. Dieci anni dopo, il primo marzo del 2009, mi sono trasferito qui, in via Amanti.

Che rapporto c'è con gli altri
esercenti del centro storico?

Ci si calcola poco, anche perché avendo uno studio di tatuaggi non c'è moltissima interazione. Con qualche eccezione: ad esempio ho fatto una bellissima collaborazione con Il Desco, il ristorante stellato qui a cento metri e sono entrato in buoni rapporti con i proprietari. Fondamentalmente però non c'è grande dialogo, i negozi del centro sono ormai per la maggior parte negozi per turisti, quindi pian piano ci stiamo isolando.

Quindi per voi che valore ha stare in centro? Ink Addiction rimarrebbe se stesso anche se fosse ad esempio a San Giovanni Lupatoto?

Beh, sono qui da così tanto tempo che cambiare sarebbe problematico. Il mercato del tatuaggio poi è talmente saturo che cercare un'altra zona sarebbe inutile. Chi viene qui a tatuarsi viene perché si fida della nostra professionalità, certamente non perché è figo il negozio in centro.

Il fatto è che quando ho aperto io ho cercato di trovare una zona in cui non intralciavo il lavoro di altri: in Veronetta c'era il Frank, nella zona di San Zeno c'era la Francesca, mi sembrava corretto aprire l'attività il più lontano possibile. Ora la tendenza sembra essere quella opposta: aprono studi come funghi e vengono tutti qui intorno!

Il tatuaggio ha ingranato molto
negli ultimi anni: voi che già lavoravate 15anni fa ne avete tratto
qualche beneficio?

Chi ne sta davvero
beneficiando sono tutti questi nuovi negozi, in cui ogni tanto ci si
imbatte in gente incapace ed arrogante. Non è che pretendo
riconoscenza, però questi giovani non capiscono che se riescono a
lavorare bene è perchè negli ultimi vent'anni noi abbiamo asfaltato
una strada davvero tortuosa. Lo trovo un po' triste, però amen, non
è così importante.

Io ancora adesso,
dopo vent'anni, se non sono convinto di aver dato il meglio di me con
un tatuaggio ho i sensi di colpa e non dormo una settimana, negli
ultimi anni i negozi che hanno aperto mi sembrano più superficiali:
pensano di aver fatto capolavori e non vedono l'ora di farne degli
altri. Un po' come chi apre un' hamburgeria, sbatte una svizzera
sulla piastra e pensa di essere chef.
Lo so, sono un po'
un rosicon.

Raccontaci un po' il processo
creativo: quanto c'è di disegno su carta, di allenamento prima del
tatuaggio?

Quando non sto
tatuando disegno, sempre. Il motivo per cui non mi vedete alle
festine da Salmoni è perchè sono a casa a disegnare. Vedi qui alle
pareti, è pieno di disegni. Poi ho fatto altri progetti divertenti,
le etichette dei vini e qualche copertina di album musicale.

Ciò che mi spinge a venire qui a lavorare tutti i giorni è fondamentalmente il cercare di creare sempre qualcosa di nuovo, ogni tatuaggio dev'essere migliore di quello precedente: a chi mi domanda “qual è il tatuaggio più bello che hai mai fatto?” io rispondo “quello che farò domani!”. Nel momento in cui pensassi che il lavoro migliore l'ho fatto tempo fa, forse quello sarebbe il momento di smettere!

Testa bassa e grande voglia di migliorarsi: questo è l'unico modo per difendere il mondo del tatuaggio dall'invasore! Se smetto di dipingere, di disegnare, non ho più voce in capitolo per poter dire la mia, mi metto allo stesso livello di tutti gli altri. E questo non lo faccio per gonfiare il mio ego, lo faccio perché è l'unico modo per poter dare il meglio al mio cliente successivo.

Tatuare oggi e tatuare venti anni
fa: cos'è cambiato?

Beh, dal punto di
vista della percezione che ha la gente dei tatuatori non è cambiato
molto: il tatuatore è sempre stato visto come una persona sgradita,
poco accettabile nella società; non è mai stato un lavoro con cui
crearsi un hype intorno, questo hype l' hanno creato i mass-media
quando hanno portato in televisione i tatuaggi.

Se invece parliamo proprio del tatuaggio, internet ha fatto fin troppo, ha reso tutti esperti: l'approccio del cliente al tatuatore è cambiato moltissimo negli anni. Mentre una volta era il tatuatore a creare il disegno per il cliente, oggi salvo poche eccezioni il tatuatore è colui che deve riprodurre il disegno che il cliente ha già scelto. É fondamentalmente il braccio della sua mente.

In generale forse il tatuaggio ha perso
per strada quella vena romantico-dannata, quell'aura piratesca che
aveva anni fa; nel mio piccolo, essendo un vecchio brontolone, cerco
di combattere ogni giorno contro questa tendenza: non voglio che si
arrivi ad andare dal tatuatore come si va da Zara a comprarsi una
maglietta!