Sockeye - Intervista a un gruppo di migranti gambiani

 

Grazie alla gentilezza e alla complicità di un amico, sono stato invitato a cena da un gruppo di giovani migranti gambiani, che si trovano nella nostra terra in attesa (spesso vana) che l’apparato burocratico che gestisce le loro vite si smuova e venga infine loro concesso un documento. Vista la tanta disinformazione su migranti, di clandestini e di difesa del territorio – complice anche la campagna elettorale -  ho pensato che sarebbe stato utile andare a chiacchierare direttamente con i migranti stessi. Le mie intenzioni erano due: scoprire cosa siano venuti a fare qui, ossia misurare scientificamente il grado di minaccia che portano alla nostra società e, in un secondo tempo, recuperare - scroccandogli una cena - almeno un po’ dei 35 euro che rubano alle nostre tasse ogni giorno (non è vero, ovviamente, ma l’internet è un posto molto strano e mi vedo costretto a specificarlo).

Questo è il racconto della nostra cena.

In una freddissima serata mi sono immerso nella nebbia della provincia veronese fino a raggiungerne il confine sud. Tra fossi, capannoni abbandonati, campi e gruppetti di case, mi trovo ad un tratto in una corte. Sceso dall’auto trovo attorno a me solo buio e umido; in lontananza, però, ecco spuntare una finestrella luminosa dalla quale escono profumi intensi e tanto, tanto rumore.

Quando entro dalla porta principale vengo accolto in una stanza piena di gente. Una decina di ragazzi gambiani, di qualche anno in meno di me, sono seduti su due divani e su qualche sedia sparsa attorno al tavolo. Quasi tutti quanti hanno una cuffietta all’orecchio e il telefono in mano, per comunicare con amici e parenti sparsi per la provincia, per l’Europa e per l’Africa.

In quella stanza tutti conoscono il mio amico – che ora chiamerò G. -, lui di lavoro risolve i loro problemi. Quando entro io il rumore continua ugualmente ma noto in quei ragazzi un pizzico di timidezza: alcuni mi salutano ma guardano altrove, altri cercano di conoscermi e mi fanno sedere al tavolo. La comunicazione all’inizio è piuttosto difficoltosa, il mio inglese è arrugginito e il loro non è proprio quello che sentivo a scuola nelle cassette allegate ai libri. L’inglese, però, lo sapevano tutti, e tutti cercavano di attirare l’attenzione del mio amico per chiedergli notizie su documenti, medici, appuntamenti in tribunale.

Tra la confusione la loro attenzione era tutta focalizzata su uno splendido documentario su Alberto Sordi che davano su Rai 1.

“Cosa guardate?”, chiedo.

“Quello che c’è, vorremmo guardare il calcio ma G. non ci dà l’abbonamento a Sky”, ridono tutti. Rido anch’io, ma inizia ad assalirmi un problema enorme: ho fame. Due domande assillano la mia mente: come faremo a starci tutti attorno al quel tavolo minuscolo? Come avranno fatto a cucinare per dodici persone in quella micro-cucina?

Le mie domande hanno presto risposta, una risposta rivelata dalla più divertente situazione che mi sia mai capitata in queste interviste per Salmon: loro avevano già mangiato. Avevano apparecchiato solo per me e G. e ci invitavano caldamente a sederci e prepararci alla cena.

“Dov’è la cena?”, chiedo a G.

“Credo sia questa eh…”, risponde indicando una vaschetta chiusa con del riso, una terrina con una salsa scura e un cartone di una pizza in cartone.

Mi hanno comprato una pizza col salamino piccante <3
A questo punto la mia curiosità cresce: “Che cosa si mangia?”
“Ecco questo!”, risponde uno di loro seduto al tavolo, apre la vaschetta contenente il riso bianco e mescola la terrina con la salsa avvicinandomela: sembra buonissima. Ora, una cosa sola sapevo per esperienza diretta sulla cucina degli africani: mangiano solo riso con carne. Sempre, in ogni forma e modo.

La regola anche stavolta non mi aveva deluso. La salsa da mettere sul riso bianco era uno strepitoso mix di pomodoro, cipolla, carne e burro d’arachidi. Sì, burro d’arachidi, piccante per giunta. Se qualcuno di voi fosse amante dei sapori forti, la consiglio caldamente.

Il pasto era questo piatto unico, un litro di salsa a condire due chili di riso: niente porzioni definite, niente acqua ma solo Pepsi Cola e decisamente niente fronzoli. Ma il meglio doveva ancora arrivare.

Queste mie interviste servono per scoprire le persone attraverso una chiacchierata con loro a casa loro, invitato (o auto-invitato a mangiare). Questi ragazzi gambiani hanno sbagliato entrambe le due regole base dell’intervista: hanno mangiato prima di me e… non hanno cucinato tutto loro.

“Ci sentiamo in colpa che abbiamo fatto solo questo e allora vi abbiamo ordinato una pizza!”, mi dice uno di loro seduto accanto a me, mentre apre il cartone e mi presenta davanti una pizza calda fumante con il salamino piccante e i funghi. Rimango basito subito e sbalordito poi, sono riusciti in pochi minuti a distruggere i due binari che regolavano le mie interviste: mi hanno lasciato aperta una porta per incamminarmi in un sentiero completamente libero e da esplorare. Hanno preso una pizza perché volevano farci felici, e perché, mi ha spiegato G. solo successivamente, sentendosi in colpa per non poterci cucinare maiale l’hanno comprato.

Deve essere un grande popolo questo, ho pensato. Le cose divertenti però da lì a breve sarebbero iniziate a sfumare, nessuno aveva ancora realmente parlato con me, nessuno mi aveva ancora raccontato nulla delle loro vite.

Verso la fine della pizza, ormai pienissimo di salsa piccante e Pepsi, sono riuscito a prendere confidenza con loro: abbiamo parlato di calcio, scherzato sulle ragazze e commentato Alberto Sordi in tv. Chiedo a G. di focalizzare l’attenzione su di noi e quando lui riesce a chiedere ai ragazzi di ascoltarmi e raccontarmi di loro sento calare il silenzio, la timidezza e l’imbarazzo. Non avevo mai sentito tanto silenzio in quella stanza.

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Mi rendo conto che l'aspetto non sia il massimo, ma vi dovrete fidare di me: era buonissima.

Il problema è semplice: loro non capiscono bene chi io sia e trovano inconcepibile che uno sconosciuto voglia parlare della loro vita - gli unici a farlo finora erano stati militari, medici e cooperanti.

A tratti in quel momento mi sono sentito in colpa, colpevole di aver voluto rovinare quella normale serata per loro. Per fortuna si è trattato soltanto di un attimo, piano piano uno di loro ha iniziato a parlarci (a parlare con G., in realtà) e poi gli altri si sono accodati e hanno tutti colto la naturalezza del mio interesse. Verso la fine erano addirittura infervorati, si interrompevano tra di loro per raccontarmi il loro passato, il loro presente e il loro futuro.

Dai loro racconti ne sono uscito scosso, non riuscirò a rendere i loro occhi parole: 

“In Gambia eravamo per lo più studenti, in un paese governato da una dittatura di 23 anni, di Yahya Jammeh. Di certo non morivamo di fame, ma il clima politico era di totale repressione di ogni libertà e di ogni tentativo di dissenso, attraverso violenze ingiustificate, squadroni della morte e prelievi casuali di persone, venivano a prenderti a casa senza reali motivi e non sapevi bene perché…

Il clima poi è peggiorato, nel 2016 c’è stata un’elezione la cui vittoria non è stata inizialmente riconosciuta dal dittatore…questo ha provocato una tensione interna che ha portato all’aumento dell’ondata repressiva, è stata occupata militarmente la sede delle commissioni elettorali, sono state chiuse varie radio private. Ha tentato di imporre coprifuoco, compiere arresti indiscriminati e quant’altro…il tutto mentre tentava di mantenere un’apparenza di facciata e normalità con la comunità internazionale.

Il Gambia non è un paese particolarmente povero e ufficialmente non è né in guerra né sotto dittatura. Ma ti assicuro che aver lasciato il mio paese verso l’ignoto, significa che, davvero, non potevamo più vivere lì. Non avevamo più le condizioni umane basilari per poter proseguire tranquillamente le nostre vite, o per mancanza di libertà o per vere e proprie minacce di morte.”

E quindi avete preferito il viaggio attraverso il deserto e poi la Libia, per sperare nell’Europa. Cosa pensavate sarebbe successo?

“Non avevamo idee precise, alcuni di noi non volevano nemmeno raggiungere l’Europa ma altri stati africani, altri si sono messi in viaggio per ricongiungersi con parenti o amici. Sapevamo solo di voler andare verso nord, in un modo o l’altro ci saremmo riusciti.”

Qui ad un tratto si fanno ancora più cupi, mentre mi invitano a finire la pizza, ci sono alcune cose che non vogliono raccontare fino in fondo, come la Libia. Lo stato nordafricano, da quando Sarkozy ha abbattuto il regime, è diventato un inferno: terra di fazioni opposte e vere e proprie bande di trafficanti di uomini, e assassini che, oltre a combattere tra di loro, hanno creato un impeccabile sistema di commercio di esseri umani.

Qui scopro una cosa su cui non avevo riflettuto molto prima: arrivati in Libia non si può tornare indietro.

“Molti di noi viste le condizioni trovate in Libia avrebbero voluto ritornare ma non ci era possibile. Avevamo affrontato mesi nel deserto in un viaggio di sola andata – non ci sono mezzi che fanno la rotta inversa – e la Libia è un sistema strutturato di prigioni, torture, violenze di ogni genere in un percorso che si conclude ad un certo punto in un spiaggia…”

Il mio interlocutore si siede accovacciato sul divano, per mostrarmi come stava nel camion che l’ha portato in Libia, e inizia a raccontare la Libia.

“Sono stato per sette notti nel deserto, eravamo in dodici e solo uno di noi parlava arabo. Ad un certo punto abbiamo incontrato delle milizie che ci hanno fermato e che ci ha chiesto se sapessimo il Corano e, che abbiamo scoperto dopo, erano della polizia. Noi sapevamo che dovevamo stare lontani dalla polizia: la polizia vende le persone in Libia. Ci hanno portato in prigione, e di questo non vorrei parlarne…

Sentivamo spari tutta la notte, vedevamo bambini sparare ad altri libici con le mitragliatrici, avevamo addosso dei numeri e c’erano delle liste di chi poteva uscire o no. Ma per uscire bisognava pagare…Alcuni di noi avevano paura a farlo, verso il mare se non sei arabo non puoi andare in giro… ti fermano, ti denudano e ti uccidono. Molti giovani maschi vengono anche usati come schiavi sessuali…”

E come sei arrivato al mare?

“Ti ci portano loro, ad un certo punto ti ritrovi in spiaggia con la gente che ti punta un fucile per farti salire su una barca, pagando. Volevo anche io tornare indietro a quel punto, ma non era fisicamente possibile, la rotta è stata costruita dall’uomo, ed è una rotta a senso unico.”

Mentre finisce di raccontare della Libia cala il silenzio, uno di loro mi prepara un tè nero fortissimo, si chiama Ataya, e mi dicono essere il corrispettivo del vino, per loro. Mi offrono anche quello che per loro sono “vitamine”, una ciotola di riso bianco e zucchero.

L’inferno della Libia è stato talmente intenso che ora possono condividere una stanza pur appartenendo a fazioni diverse, fazioni che si sarebbero fatte la guerra in Gambia.

E ora come vi trovate qui?

“Qui stiamo bene, nessuno ti uccide almeno…” Mi parla un altro ragazzo, più grande, vestito in abiti tradizionali per la mia visita. E mi spiega una semplicissima cosa: sono in un limbo burocratico che sanno benissimo non si risolverà, e questo tiene in sospensione le loro vite in un’impasse esistenziale altrettanto violenta.

“Qui mangiamo e dormiamo, e a volte riusciamo perfino a lavorare. Ma non vogliamo soldi, dei soldi non te ne fai niente…l’unica cosa che ci serve è un documento. Senza di quello siamo come in prigione.”

Si agita nel parlarmi del documento, è un’aspirazione che in Italia diventa spesso un incubo. G. è sempre bravo nello spiegare a tutti la situazione, cosa stia facendo per loro, cosa devono fare e cosa non, per aumentare le possibilità di riceverlo. Spiega anche come difendersi dal caporalato, che nella provincia di Verona incombe, anche se non se nessuno ne parla mai.

“Non riusciamo a parlare di come stiamo, come non stiamo e cosa vorremmo fare…vorremmo solo che lo spiraglio di un futuro, una variazione della nostra posizione, accadesse…”

Com'è il vostro rapporto con la gente del posto?

“Bene! Non ci danno fastidio… A volte ci fanno ridere perché quando siamo in giro ci chiedono cosa stiamo rubando! Non capiamo perché!”

Il piccolo e sporco razzismo italiano, promosso istituzionalmente da alcuni partiti candidati alle elezioni, li fa sorridere rispetto a quello che hanno passato in Gambia e, poi, in Libia.

Mentre torno a casa, pieno di Pepsi Cola che hanno continuato a versarmi, percorro le normali stradine di provincia di tutta la mia vita. Sono abbastanza emozionato e scosso, mi ha turbato la loro normalità. Come hanno fatto a parlare con me di ragazze, di calcio e ridere tantissimo mentre mi sporcavo con la pizza, dopo aver passato quello che hanno passato in Libia? È stato come parlare con un sopravvissuto ad un campo di concentramento, figure solamente ascoltate in video o lette nei libri di storia, figure lontane. Per loro era uguale, ne sento parlare al telegiornale, leggo le loro storie, ma poi parlando con queste persone ho scoperto che non c’è niente di diverso da me nel loro modo di rapportarsi.

Se possono vivere con quel peso dentro e rapportarsi normalmente a me significa che quel peso è anche mio, che riguarda la mia vita, che la violenza nascosta dentro di loro e una violenza anche mia perché io, in due ore, a loro mi sono unito come con qualsiasi amico o persona incontrata.

Sono banalità? Sì, ma sono queste le banalità da recuperare. Se non possiamo salvare il mondo possiamo iniziare a andare a parlare con loro mentre sono qui. E lo dico per me e per tutti quelli che sono stati presi dalla narrazione fascista, violenta e razzista messa in atto in questi ultimi anni. Percorso fatto da un certo tipo di comunicazione è chiaro: allontanare le vite di queste persone dalle nostre, creare opposizione binaria tra noi e loro. Creare gli italiani e gli immigrati, i bianchi e i neri, i buoni e i cattivi, i ladri e le vittime.

Mi sono sempre chiesto come smontare questa narrazione ormai consolidata, questo successo del senso che ha categorizzato queste persone allontanandole da noi dal loro essere umani cosicché potessimo odiarli senza sentirci in colpa. La soluzione non è nella retorica, non è nelle parole o nel pensiero. Non convincerete mai chi è in quest’ordine di idee e non vi convincerete mai voi stessi.

La soluzione è andare a parlarci per due ore, da soli, in modo che si aprano con voi. Vedrete che sono esseri umani come tutti, alcuni fanno schifo e altri sono meravigliosi. Non potete cambiare le politiche di migrazione internazionali, potete forse lamentarvene - quello che invece potete cambiare è la vostra persona e il vostro rapporto con loro.

Sembrano frasi stupide e semplici, il problema è che sono costretto a ripeterle ancora e ancora, perché non sono più scontate né a Verona e né nel resto d'Italia.