Sockeye - intervista al fondatore del Tocatì

 

Giocare è la cosa meno importante - per questo è essenziale.

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Il Tocatì è roba grossa: da quindici anni, per qualche giorno, riempie la città di giocatori e visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Attorno alla dinamica e alla cultura del gioco di strada si crea così un intreccio di persone e culture come nessun altro evento riesce a fare a Verona: neanche il Vinitaly o quell'abominio socioculturale che è Verona in Love. Il Tocatì quest'anno è alla sua XVesima edizione ed è candidato a diventare Patrimonio Culturale Immateriale dell'Unesco.

Quando, da oggi fino a domenica, andrete a guardare i lottatori turchi sfidarsi, o parteciperete ad una partita di lippa (s-cianco per i veronesi), ricordatevi di pensare ad una cosa: tutto quello che vedrete è nato tanti anni fa, in una piccola osteria di Verona, quando un gruppo di amici appassionati di giochi antichi decise mettere il naso fuori in strada e parlare alla gente.

Un weekend di caldo incredibile di qualche tempo fa ero all'osteria Carega per parlare con Giorgio Paolo Avigo: uno dei fondatori del festival e presidente dell'Associazione Giochi Antichi.

Voi la sapete la differenza tra sport e gioco? E lo sapete che in Sri-Lanka giocano allo s-cianco per imparare a giocare a cricket? Io ho imparato tutto questo - e ben altro - in una lunga ed appassionata chiacchierata.

In grassetto le mie domande.

Qui siamo al Carega, l’osteria dove vi trovavate dovrebbe essere qui dietro no?

"Sì uno dei luoghi dove ci trovavamo sempre è l’osteria le Petarine, abbiamo anche chiesto di mettere una targa in quanto sede storica... Il tutto è nato quasi per caso, tra un bicchiere e l’altro, tra delle chiacchierate all’Osteria e una partita a s-cianco in strada - in fondo tutto questo, tutto quello che abbiamo creato è nato da quel gioco. L’associazione nasce dal recupero dello s-cianco."

…che è un gioco che facevate fin da piccoli immagino,  io lo conosco ma non ne conosco l’origine, è di Verona?

"Il termine è di una parte della città di Verona. Il gioco in sé, invece, è un gioco che è praticato tutt'ora a livello internazionale ed è diffuso da sempre in diverse parti del mondo. A livello di festival quest’anno abbiamo inserito il “Torneo internazionale di lippa”: ci sono tre squadre italiane e sette provenienti da varie regioni europee.

Mi piace raccontare come ancora prima del primo torneo un gruppo di srilankesi ci abbia visti giocare e si sia subito avvicinato:

“Ma scusate perché voi giocate al nostro gioco?”

“Cossa gheto?”

E da lì, dal 6 ottobre 2002, hanno sempre partecipato al torneo di s-cianco con una squadra dello Sri Lanka. Quasi ogni anno vanno in finale, anche se è raro che vincano..."

Perché sono meno forti?

"Ma perché come accade per tutti i giochi tradizionali non è così facile rispettare le regole come sembra dall’esterno. La regola fondamentale di ogni gioco di strada è che si basa sul contesto dove viene praticato.

Sembra una cosa avulsa ma ci sono regole legate ad esempio al tipo di terreno, alla lunghezza dei bastoni eccetera...che sono legate al vissuto della zona dove vengono poi messe in atto: giocatori stranieri di lippa fanno fatica ad adattarsi a certe regole italiane, veronesi. E su questo fatto ci abbiamo giocato spesso!"

Questo tipo di giochi quindi è estremamente radicato nella tradizione specifica di una regione e di una popolazione, ma allo stesso tempo si pratica in egual modo in tutto il mondo, come mai?

"Sì, noi crediamo nei giochi anche e proprio per questo, perché sono una delle pratiche che dovrebbero fare da traino per capire le culture diverse dalla nostra, con cui veniamo - volenti o nolenti - a contatto. Il fatto che un gioco venga praticato agli antipodi della Terra nella stessa maniera significa che c’è stato uno scambio di culture nato nei secoli, vuol dire che in qualche modo ci siamo tutti incrociati fin dall’alba dei tempi."

Non sono pienamente d’accordo. O meglio, credo che alcune comunanze nei giochi nascano anche dal fatto che ci sono cose, nel rapporto che l’uomo tiene con il mondo, che siano talmente basilari da venire prima - non solo in senso cronologico ma anche antropologico - delle differenze date dalle culture. Per esempio il lanciare e recuperare una cosa, un legno, è cosa che fanno anche gli animali. La lotta è un altro esempio: sta alla base di quasi tutte le culture mitiche del mondo antico... e via dicendo.

"Certamente questa è la base, ci sono comunanze che fanno riflettere. Pensa che nello s-cianco in ogni parte del mondo i colpi di allontanamento con cui si può colpire sono tre, non due e non quattro ma tre."

Ma visto che si pratica in tutto il mondo... anche all'estero la lippa è vista come una cosa da recuperare e salvaguardare?

"In alcuni paesi molto meno, perché lo praticano: in Sri-Lanka i giovani ci giocano tutti perché è propedeutico al cricket, a Cuba ci giocano per insegnare a giocare a baseball. Quando è venuta la delegazione cubana mi ha raccontato che a L’Avana ci sono le eliminatorie del campionato proprio il giorno della Liberazione."

E in Italia invece? So che andate nelle scuole a promuovere i giochi tradizionali in generale… come reagiscono i ragazzi? Sono troppo abituati allo schermo dei cellulari?

"No guarda sul discorso che i ragazzi non giocano più e sono sempre davanti ai display mi trovi in disaccordo. Forse è vero ma fino ad un certo punto, facciamo spesso domande nelle scuole. E alla fine i bambini e i ragazzi ci dicono che comunque preferiscono stare fuori con gli amici a giocare."

Sì alla fine molti dei contenuti veicolati dagli smartphone sono ancora contenuti “reali”.

"Esatto, si fanno i video di quando giocano a calcio. Poi c’è da dire una cosa: la strada è da sempre stato un luogo dove si sta in comunità in uno spazio improvvisato. Adesso i genitori dicono che le strade sono pericolose ma secondo me è un circolo vizioso: sono pericolose perché non c’è nessuno in giro, sono monopolio delle macchine perché non c’è gente."

Mi piace il discorso del gioco e dei luoghi improvvisati. Vedendo le vite dei ragazzi oggi direi che sono comunque piene di attività, il problema è proprio questo forse?

"Quello che fanno i ragazzi oggi sono sport o attività in tempi e luoghi adibiti e pensati per fare esattamente quell’attività: c’è sempre il binomio luogo-attività ad agire sulle loro vite; prima a scuola e poi in palestra, prima lo studio e poi il campo da calcio.

Questo non è giocare, è qualcosa che non c’entra niente, i ragazzi hanno vite piene di attività istituite e organizzate che non fanno crescere la loro immaginazione come dovrebbe.

Noi siamo nati in antitesi a tutto questo. All’inizio magari non avevamo uno scopo preciso ma di alcune cose eravamo certi… Pensa che alla prima edizione ci hanno proposto di essere inglobati nelle associazioni di attività sportive tradizionali, ci siamo sempre rifiutati."

Perché? Perché quello che promuovete voi è il gioco e non lo sport? Ancora la differenza non mi è chiara fino in fondo…

"Uno sport è uguale in tutto il mondo, ha regole e leggi che hanno bisogno di essere rispettate con criteri rigidissimi. La lunghezza del campo da calcio, i materiali dell’asta per saltare, i terreni del campo da tennis e via dicendo…

Il gioco fa parte della cultura popolare invece, come la poesia, la musica o la danza popolare, e in quella è radicata. Se gioco alla lippa a Barcellona giocherò con le loro regole e i loro attrezzi. Il gioco nasce dalla spontaneità e la necessità di riempire con ingegno i momenti vuoti della quotidianità, e nasce da persone che lo fanno con quello che trovano: nella loro strada e con i loro attrezzi e per questo è importante che ci siano ovunque delle differenze."

Lo sport ha tempi e spazi precisi in cui tutta la comunità va a fare o vedere una determinata cosa e lo fa in un tempo che si dispiega in modo scandito come quello liturgico. Invece il gioco si prende lo spazio che la società non istituisce. No? Penso al calcio giocato nei campi, con le squadre, le maglie e i campionati e al calcio giocato con una palla, due felpe a fare da porta, e quattro giocatori soltanto in strada.

"Questo sicuramente, rispetto agli spazi e i tempi, ma guarda alla differenza nella pratica. Ti faccio un esempio: l’anno scorso siamo stati in Croazia, nell’Istria, a giocare ad un torneo di bocce piatte, hanno una tradizione tutta loro con delle regole più o meno simili a quella delle bocce nostre.

Quando siamo arrivati eravamo strabiliati: in un posto come la Croazia, che è uscita poco fa da una situazione poco felice, sono riusciti attraverso questo gioco a creare un torneo con sloveni, bosniaci e montenegrini.

Ora, se si riesce attorno al gioco a far fondere le culture allora forse questa è una strada da intraprendere per farle comunicare, queste culture diverse, a creare nuove comunità.

Il gioco viene considerato poco importante - e quindi essenziale, direi - e così anche popoli che si odiano e che magari non farebbero mai affari dicono: “ma sì, giochiamo, tanto è una cosa da bambini”, e da lì si può partire per riunirsi."

Ma parliamo dell’edizione di quest’anno, chi ci sarà come paese ospite?

"Quest’anno non c’è nessun paese specifico, ma attraverso la lotta tradizionale e la lippa abbiamo una quindicina di regioni europee. Promuoviamo attività che non sono legate alle nazioni politiche ma tradizioni popolari che vengono prima della loro definizione.

Pensa che abbiamo reperti che fanno risalire la lippa al 2500 a.C., questo noi dobbiamo far risaltare, questi valori in grado di unire tutta l’umanità oggi che più che mai è facile separarla."

Grazie.

Ci vediamo al Tocatì, Salmoni!



Sockeye: intervista a Zampa & Capstan

 

Ossia: La storia di due butei persi tra il nulla di una città di provincia e l’evoluzione mondiale dell’hip-hop: da genere underground ad eccellenza mainstream.

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Quando scrissi a Capstan chiedendo di organizzare un’intervista con lui e Zampa mi rispose che avrebbe chiesto a Zesh e mi avrebbe saputo dire a breve. Dopo qualche giorno di silenzio mi invia lo screenshot della risposta di Zampa, che recitava più o meno così:

“Vaccadì, lo spacchiamo di gotti il butel”

Non è andata molto diversamente.

Se vi dicessero di provare ad immaginare la casa di un rapper, molti di voi credo la immaginerebbero in questo modo. Provate quindi ad pensare alla mia reazione quando, varcata la porta di casa Zampini in una mite giornata di metà autunno, mi sono trovato in una stanza con delle immense finestre, inondate della limpida luce dell’aria tersa, che si affacciavano su un terrazzo da cui guardare a perdita d’occhio tutta Verona e i suoi campanili.

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Posate, bottiglie e bicchieri risplendevano dei raggi solari e l’aria della stanza era densa del profumo del risotto col tastasal. Vengo accolto da Zampa e la sua ragazza, che notando il mio sguardo fisso sulla padella del riso provano a risvegliarmi: “È la prima volta che proviamo a farlo, speriamo che venga bene”, e iniziamo a stappare la prima bottiglia di Valpolicella, brindando con lo stomaco vuoto al nostro imminente pranzo.

Ma prima di procedere forse è meglio che vi introduca a cosa ha significato il rap, e quindi questo pranzo, per me.

Ho iniziato ad ascoltare il rap nel giugno del 2004 – parlo di rap italiano, “non capivo quelli americani” (cit. Astio) -, relativamente tardi, forse. All’epoca non potevo informarmi sui social, ascoltavo quello che mi passavano gli amici e che riuscivo a trovare su WinMX. Ascoltare il rap era stata la mia e la nostra forma di ribellione al costituito, alla musica piatta che passava su MTV (tranne le Spice Girls, le Spice Girls spaccano) e a tutta quella musica che possiamo etichettare come musica di “ribellione” che si sentiva alle manifestazioni ma che mi sembrava anch’essa imposta.
Ad ascoltare il rap eravamo pochi, trovare i pezzi era difficile e il senso di una genuina, antagonista relazione con una musica che sentivi come un qualcosa di veramente tua cresceva giorno dopo giorno. In qualche mese ho iniziato a scrivere dei pezzi con degli amici e, poi, a registrarli. Ci sentivamo parte di una cultura che non ci era stata donata a scatola chiusa, e gli amici “che-sapevano-suonare-uno-strumento” ci deridevano continuamente, ma per loro suonare voleva dire fare le cover dei Nirvana, per noi perdere le notti a raccontare la nostra vita invece che piangere. Ci sentivamo, in modo infantile e stupido, addirittura migliori.

Gli artisti che si conoscevano – i più famosi – si contavano tra le dita di una mano e, almeno all’inizio, oltre ai vari milanesi Lord Bean, Bassi Maestro, Jack The Smoker, Asher Kuno e Club Dogo e i romani Cor Veleno e Colle der Fomento, mi avevano passato Zampa. In quel periodo avevo Zampa nel walkman e pochi altri in Italia.

In questa nicchia che era l’hip-hop e che ci eravamo creati Zampa era stato quindi uno dei primi protagonisti. Col tempo, conoscendolo, è diventato più umano ai miei occhi, tanto da diventare amico, ma mentre leggete l’intervista pensate che sono entrato in una sala da pranzo piena d’amici che quindici anni fa avrei potuto descrivere come un Olimpo.

In grassetto le mie domande.

Parliamo di rap, il rap ora in Italia è in cima a tutte le classifiche: è diventato un fenomeno capace di assorbire le caratteristiche della cultura pop, nel bene e nel male. Anche le persone che un tempo non sapevano – o non volevano sapere – cosa fosse l’hip-hop sono più o meno costrette ad ascoltarlo, se non altro per i tormentoni che passano i radio. Prima però era diverso, cosa significava, per voi, fare a Verona un tipo di musica proveniente da una realtà completamente diversa?

“Intanto finiamo ‘sta bottiglia”, comincia Capstan, “poi, noi attorno ai quattordici anni, anche prima forse, abbiamo iniziato a capire che la vita a Verona sarebbe stata sempre uguale: che tutto quello che avevamo fatto nel nostro tempo libero sarebbe stato tutto quello che avremmo fatto negli anni futuri. Che sbatti vecio! Da lì abbiamo iniziato ad appassionarci a qualcosa che raccontasse storie diverse, storie concrete e senza fronzoli, come non faceva nessun altro tipo di musica.

Poi è venuto naturale iniziare a raccontare di noi, raccontare il disagio di crescere – comune a tutte le persone, credo – e farlo in un modo che oltre ad essere efficace sembrava esso stesso renderci parte di un mondo unico e antagonista”.

Non notavate anche voi i rapper silenziosi nei bus al ritorno da scuola guardare fuori dal finestrino con delle cuffie enormi? Non era depressione, nemmeno disagio, era il guardare all’orizzonte di una musica che si estendeva a perdita d’occhio. Era provare ad intravedere l’ “America” – inteso nel senso mitologico del termine insegnato dai e ai nostri nonni – nella propria quotidianità.

Fare il rapper, mi ricordano questi due, era già una presa di posizione e di stile. Il contenuto di quel che dicevi era già vincolato dalla forma con cui avevi scelto di dirlo: “qualunque fosse l’importanza musicale e sociopolitica della scelta di fare hip-hop è ovvio che fosse lì solo per essere colta dagli altri rapper.” (D.F.W.)

“Sì noi ci mettevamo le mani addosso con i fighetti, poi erano molti più di noi quindi abbiamo iniziato a fare gruppo, a fare la musica assieme. Era proprio visto male l’hip-hop, noi abbiamo preso il rap e raccontato le nostre storie e da questo è scaturita una cosa bellissima: anche quelli che odiavano a prescindere il rap capivano che in realtà stavamo raccontando la nostra – e la loro – realtà, e allora si interessavano. Ancora abbiamo amici che non sanno niente di hip-hop e vengono a spingerci a quasi tutti i concerti”.

Dopo gli inizi è scattato qualcosa che vi ha fatto pensare ‘questa può diventare la nostra vita, con questa roba possiamo svoltare’, o non vi siete mai illusi a sufficienza? Ora spuntano video rap ogni giorno in Italia, ogni ragazzino – e ce ne sono di bravissimi – è in grado di arrivare ad una fetta vastissima di pubblico. Voi come ve la vivevate questa cosa?

“Ora vedo i butei avere un approccio strategico e quasi “commerciale” con la musica. Riescono ad arrivare in poco tempo dove noi non ci saremmo nemmeno sognati. Non li biasimo, anzi, solo che con noi era diverso. Con noi nessuno ti aveva detto che saresti potuto diventare famoso, non esisteva proprio come cosa. Anzi, per un certo tipo di mondo hip-hop diventare famoso sembrava essere un problema, diventare dei venduti, parte del sistema.

Ma forse è giusto così, non dico che oggi facciano male. Io credo che se le strade del successo fossero state visibili come oggi le avremmo percorse in egual modo. Di certo però, quello che ci ha dato questa musica è stato altro, più nascosto e radicale. La musica per me è una cosa magica, io voglio vivere e crescere con lei, e spesso mi secca doverne fare una “performance” – intendo doverne essere performativi per farsi vedere –, con i butei mi sentivo parte di un mondo più grande fatto di parole e speranza.

Volevo scrivere, scrivere in ogni modo e registrare i miei pezzi, punto. Poi non ti sarebbe venuto nemmeno in mente di “fare il personaggio”, perché lo scopo di quello che facevi era stare bene con gli amici raccontando le vostre storie.

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“Spiegati meglio”, chiedo a Zampa.

“La differenza tra ora e la nostra realtà è che allora se facevi il coglione ti sgamavano subito e ti escludevano dalla scena. C’era questa legge non scritta e potentissima dell’essere vero. Che ci sta come cosa ma non vedo perché un butel di Palù non possa fare un pezzo gangsta, che parla di droghe e odio razziale. Alla fine si tratta di creare qualcosa, fare arte. Certo, se poi ti immedesimi in quel personaggio e diventi finto come persona, questo è un altro discorso: è una cosa che è capitata non a poche persone effettivamente".

Per il resto, volevamo solo stare bene con qualcosa di fresh.

Questa frase finale l’ha aggiunta Capstan e se non avete mai conosciuto Capstan sappiate che è una di quelle persone che ha il grande pregio di poter essere riassunto in una definizione senza che per questo gli venga data un’etichetta approssimativa:

Capstan è quello che fa stare bene, e credo che si tolga il ruvido dentro con la musica.

Più o meno come il riso col tastasal che sto mangiando.

Ma, Zampa, ti faccio una macro domanda. Hai fatto vari album dal 2004, e sei cresciuto tu, hai 13 anni in più ora. Io amo trovare le costanti nelle variazioni. E la prima, immensa costante che vedo dal primo all’ultimo album è la foresta e i lupi. Tra Lupo Solitario a Il Richiamo Della Foresta cosa succede in mezzo?

“Si sente che sei sbronzo vecio, comunque, dopo Lupo Solitario ho fatto “Il Suono Per Resistere” e quell’album l’ho scritto in Inghilterra a Wolverhampton, nella periferia di Birmingham. Sono finito lì con il progetto Leonardo, Jack The Smoker mi ha dato un sacco di basi e sono fuggito al nord. A quelle canzoni sono molto legato, canzoni come Cade Giù o Un anno terribile

Paradossalmente faccio più facilmente live canzoni di Lupo Solitario, queste sono molto più introspettive.

Dopo Il suono per Resistere viene Bisanzio, vero?” anche lui è sbronzo “La lunga e tumultuosa via per Bisanzio è un magnifico e stranissimo esperimento, se lo ascolti – se lo ascolto – ritrovo strati e strati di ansia per un periodo molto difficile.

Di certo, se uno è bravo e mi conosce, dentro agli album ritrova tutto quello che ho vissuto e che, forse, abbiamo vissuto assieme.”

E ora? Ora, come tutti noi, lavori e hai poco tempo per scrivere. Da quanto stai suonando in giro e dal mood dell'ultimo album non dai di una persona che abbia finito la sua carriera musicale, anzi. Come gestisci musica e vita?

“Di certo ora o hai sfondato o fai dell’altro. Il segreto rimane cercare incessantemente di stare bene, che è la cosa più semplice, naturale, banale ma difficile del mondo. Ora avere riscontro mi interessa relativamente.

Con Il richiamo della Foresta ho, abbiamo, suonato in tutta Italia, e la cosa veramente bella è vedere ragazzini di quindici anni ai miei concerti, di fianco ai miei compagni di Liceo che mi vogliono ancora bene e ormai sono dei padri. Questa è la cosa più importante. Sento la necessità di parlare alle persone e dire ai miei amici le cose che penso sia importanti dire”.

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Parliamo di lupi e foreste, per favore.

“Vuoi lo scoop da Panorama? Lupo Solitario è una serie di libri-game che ho divorato da bambino, sono libri strutturati come giochi di ruolo dove decidevi cosa e venivi rimandato da una pagina all’altra a seconda delle scelte che facevi.

In generale, però, tutto parte dal romanzo di Jack London. Due libri fondamentali sono stati Zanna Bianca e Il Richiamo della Foresta, che è la storia di una cane che viene rapito e portato a fare combattimenti clandestini. Ad un certo punto scappa, va con un branco di lupi e lentamente, lì, riscopre l’istinto, l’attitudine alla vita selvaggia

Per me il richiamo è legato al rap, ovviamente, alla musica. E la foresta è il luogo da dove proviene questo richiamo, il luogo del tuo ambiente naturale, che forse, per me è il raccontare storie.”

Grazie.

È un richiamo, credo, che in ogni momento, nella quotidianità, ti ricorda che c’è qualcosa di più profondo e più viscerale al di sotto dei giorni che passano uguali, e questo richiamo è quello del raccontare storie che vadano in profondità nella linearità del tempo che passa.

È il richiamo della tua dimensione naturale, diversa da persona a persona. Per questo poi il disagio prima o dopo ci assale tutti, perché non è possibile e veritiero che tutti possiamo stare bene dove siamo capitati – dove le incombenze ci rapiscono in ogni momento -, lentamente sentiamo che la nostra natura è qualcos’altro, lentamente cresce dentro di noi la nostalgia per ogni nostra, singola, foresta.

P.S.: se cercate Zampa e Capstan li trovate a suonare in giro per l’Italia oppure, e vi consiglio l’esperienza, nelle peggiori osterie di Verona. Offritegli un gotto.

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.


Sockeye - Intervista agli Alban Fùam

 

Alban Fùam, in gaelico: festa di luce e suono.

Se siete mai stati in Irlanda, se avete mai imparato ad amare questa terra, capirete perché intervistare finalmente gli Alban Fùam sapeva riempirmi di una gioia paragonabile soltanto all’azzurro del cielo di quella fredda domenica invernale.

E voi, sapete tutto dell’Irlanda, no? È grande meno del doppio della Pianura Padana, conosciuta per lo più per la birra più famosa del mondo, la Guinness; ha colori che i nostri occhi non sono più abituati a vedere e della gente che è stata capace di sopportare una millenaria storia di repressioni e carestie. L’Irlanda è piccola ma ha orizzonti grandi, è un’isola ma conserva tutto il male e la bellezza del mondo. L’Irlanda ha esportato l’immaginario celtico e gotico in tutto il mondo, storie e fiabe di tutti quei paesaggi che consideriamo “incantati”, ma che lì esistono davvero. L’Irlanda ha una lingua tutta sua, ancora viva e capace di far risuonare tra la Dublino di LinkedIn, Google e eBay gli stessi suoni che uscivano dalla bocca di principi e guerrieri. L’Irlanda - madre di Joyce e Beckett, ma anche di Bono, a conferma che ogni epoca ha gli eroi che si merita -, conserva ancora l’eco delle bombe dell’ultima grande lotta tra cattolici e protestanti, tra i papisti e l’Inghilterra, tra – ancora – gli inglesi e i popoli da essi soggiogati.

L’essenza dell’Irlanda passa dall’oceano, dalle scogliere, dalle brughiere e, infine, dai pub. Più dei bar, più dei circoli, più delle osterie e le bocciofile…i pub - che tutti noi amiamo per l’ambiente folkloristico, per il legno e per l’odore di whisky – sono il cardine del filo immaginario su cui oscilla la storia di quest’isola. Dalle bombe, ai momenti di festa, dalle assemblee cittadine dei ribelli, ai primi tribunali appena accennati, i pub racchiudono tutto il male e il bene di questa terra. Ma soprattutto, i pub racchiudono la musica irlandese.

Una musica che attraversa le epoche e tutto quello che ho appena descritto, che parte dal 600, passa attraverso i canti di lotta e finisce sulla scena pop internazionale, senza tradire mai l’origine di antichissime ballate

In tutto questo, una mattina d’inverno, mi ritrovo a casa degli Alban Fùam, cinque ragazzi di San Giovanni Lupatoto che di tutta questa tradizione sono portatori e promotori: eredi veronesi figli del lato più entusiasmante della globalizzazione, che potremo chiamare multiculturalità.

La casa dove mi accolgono è una tipica villetta di provincia, che nulla ha a che fare con il legno e la struttura dei pub. Gli unici elementi estranianti sono una serie di strani strumenti sparsi sul divano del salone, strumenti così fuori luogo da sembrare esposti in un museo.

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Mi giro e vado verso la cucina, dove sta bollendo una padella con un risotto dentro (in queste mie interviste ho mangiato principalmente risotti, tutti buonissimi e tutti diversi).

“Buono! Cos’è?”

“Risotto con le zucchine…ma alla Guinness”, culture che si mischiano, dicevamo…

Alcuni membri degli Alban Fùam assomigliano effettivamente a degli irlandesi, mi siedo a tavola con l’intento di scoprire quale sia il legame profondo tra l’Irlanda e questi cinque, stranissimi, veronesi.

“Ale! Speta, porta la Guinness! Prendi la birra, portala qua…Salmon quindi, però non mangiate il salmòn, strano che nessuno abbia mai pensato!”, l’intervista per i primi dieci minuti la fanno loro.

Poi cerco di capire da dove vengono e dove stiano andando. In grassetto le mie domande.

“Prima di parlare del passato, parliamo del futuro, avete album in canna?”

“A brevissimo! A fine mese ci sarà il release party del nostro nuovo album, il 31 marzo a Casa Novarini, ci sarà un evento ad ingresso limitato.”

“Ma sarà un disco di cover come gli altri?”

“Qui la questione è complessa, non sono cover: sono canzoni tradizionali arrangiate nuovamente da noi. La base delle canzoni è una riproposizione di sonate e ritmi popolari molto antichi.

“Funziona come con gli standard jazz? Brani cardine scritti tra fine ‘800 e il 1900 e riarrangiati in varie versioni, è più o meno la stessa cosa, no?”

Sì sono canzoni del 1400 e del 1500, sono cinquecento anni che queste melodie vengono riproposte. L’equivalente in Italia sono le frottole e le villanelle popolari medievali, solo che quelle più di tanto non sono famose perché non son ballabili. Certo, ora l’influenza che sentirai nei nostri arrangiamenti è molto contemporanea. Ma questa pratica è molto comune anche in Irlanda.”

Mentre parliamo mi giunge un ottimo risotto, un risotto di zucchine appena più scuro del normale. E…sento la Guinness! Ogni morso è un viaggio andata e ritorno tra un piccolo pub di Galway e il riso col tastasal di mia mamma.

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“Ma voi quanto siete legati all’Irlanda?”

“Io e Davide”, parla Cecilia, la violinista “io e Davide torniamo molto spesso, per fare vari giretti e per farci ispirare. Lui è abituato fin da piccolo ad andare in Irlanda molto spesso. Noi, chi più e chi meno, siamo comunque legati all’isola, ovviamente. La prima volta che ci siamo andati assieme era scoppiato il vulcano in Islanda!

Lo vedi quel furgone rosso li fuori? Ci ha portato lui in Irlanda, tutti insieme. Svizzera, Francia e poi su, suonando qua e là. Siamo andati in questa cittadina per frequentare una scuola di musica. Dormivamo in tenda, quasi nel fango perché pioveva praticamente sempre, andavamo a scuola in taxi perché il furgone si era rotto e poi, la sera, ognuno aveva ancora le forze per trovarsi con tutti i musicisti fino alle quattro del mattino.

Ti devi immaginare stanze con più di venti persone che suonano tutti insieme, da bambini di dieci anni fino ai vecchi."

“Ma questa era una pratica comune o era legata alla scuola?”

“Il paese, vicino al fiume Shannon, in quella settimana di luglio triplica il numero degli abitanti. Tutti suonano e tutti stanno attorno alla musica, a suonare, ballare, bere ed ubriacarsi fino alle quattro.”

“Ho notato che – e voi ne siete la prova – a differenza delle canzoni popolari italiane, la musica tradizionale irlandese è suonata anche da giovani, no? In modi sempre nuovi ma con la stessa solennità dei loro padri, o dei pilastri di quella tradizione.”

“Sì tutti in Irlanda suonano, ascoltano o ballano quella musica. Poi, ovviamente, nei pub puoi trovare musica elettronica e nessuno è fisso esclusivamente su quel tipo di musica. Da cosa dipende? Forse da quanto ancora oggi la musica e l’ambiente che porta con sé impregna la quotidianità di tutti.

Poi conta che il governo da molti patrocini ai giovani per suonare all’estero.

Ma secondo me è perché la gente è più rilassata in generale…”

“Certo, non sembrano avere problemi…”

“Beh, calma, bisogna stare attenti alla mafia irlandese perché è cattiva. A mio papà hanno raccontato di un tizio che non voleva pagare e che è stato trovato crocifisso davanti a casa con dei coltelli.”

“Ah! Ma voi avete mai suonato in Irlanda?”

“Sì solo nei pub ma non ufficialmente. Devi essere molto bravo per suonare la loro musica lì, e non me la sentirei neanche io.”

“Voi siete le persone adatte per rispondere a questa domanda: perché l’Irlanda è così peculiare, amata e apprezzata in tutto il mondo anche più della Scozia, del Galles o dell’Inghilterra stessa?”

 “Non c’è una risposta univoca ovviamente. Siamo innamorati dei paesaggi, verdi e pieni di colline. Siamo innamorati della gente, le case, l’isolamento dell’essere un isola…”

“…cosa che la rende un cantuccio esistenziale, come tutte le isole. Il cibo?”

“Il cibo in Irlanda è buono! Il cibo è buonissimo e non è che non mangi, il difetto – comune a gran parte dei luoghi che non sono Italia – è che la varietà di cibo è poca. Dopo tre quattro giorni ti accorgi di mangiare sempre le stesse cose: il bacon a colazione (anche se per lo più è una trovata turistica ormai).

Ma l’Irlanda è un posto dove può capitarti tranquillamente di rincorrere le pecorelle nei prati – fatto veramente accaduto -, è un problema così grande il cibo?”

Mentre parliamo del problema del cibo giunge il dolce, e la violinista degli Alban Fùam, è famosa, per i dolci. Bevo l’ultimo sorso di Guinness e apparecchio mente e stomaco per ricevere l’unico dolce che veramente posso dire di amare: il tiramisù. Per l’occasione vedo due intere teglie di tiramisù alla nocciola, al primo morso mi ritrovo a pensare ad una sola cosa: potete rincorrere le pecorelle nei prati quanto volete.

“Affrontiamo l’argomento musica. In Italia c’è una scena “irish”?”

“Sì, ovviamente. Ma non è rinomata come in Germania o in altri paesi. Diciamo che ci sono tantissimi amanti del genere, tantissimi musicisti ma pochi gruppi. La scena c’è eh, se la domanda è quella, c’è anche un bellissimo festival, il festival di Monte Lago a Macerata, che è il più grande d’Italia ma più che altro è di musica celtica.”

“E qual è la differenza?”

“La musica celtica racchiude tutti i generi musical del nord Europa – derivante principalmente della Germania -  dalle ballate irlandesi alla musica bretone. E diciamo che questa varietà è un po’ penalizzante per amanti dell’irish music: a molti festival fanno musica anche molto pesa come dubstep celtico, rock pop e irish punk.

Di gruppi Irish ce ne sono pochi direi, e che fanno quello che facciamo noi – riarrangiare canzoni tradizionali – ancora meno.”

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“Capisco e voi, da dove venite? Come vi inserite in questa storia di cui abbiamo appena parlato?”

“Noi, come tanti, suonavamo cover dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd, ognuno per conto suo anche se siamo tutti di San Giovanni. Il cantante cantava in un coro lirico…poi abbiamo provato a fare qualcosa insieme e in quattro cinque anni di attività abbiamo raggiunto la formazione definitiva: prima eravamo solo strumentali e adesso abbiamo questa formazione da quattro anni, invece.

Negli ultimi due anni siamo cresciuti molto, abbiamo fatto sessantaquattro date l’anno scorso, tra Italia, Svizzera e Germania e anche quest’anno siamo a Brema ad un festival.

Una degli eventi in cui suoniamo più spesso, però, sono i matrimoni. Gli stranieri che si sposano qua amano avere la loro musica – gli irlandesi soprattutto – ma i gruppi irlandesi costano troppo.”

“E come sono i matrimoni irlandesi?”

“Molto, ma molto, ma molto tamarri”.

È stato strano, molto strano, finire l’intervista agli Alban Fùam con la parola tamarri. Non sembra c'entrare niente con tutto il resto della storia che mi hanno raccontato. Quel che più mi ha emozionato di loro, però, a parte il tiramisù, è che siano riusciti a trovare un posto ufficiale nella storia mondiale della musica irlandese.

Il loro ultimo album, infatti, è stato inserito nell’archivio di Dublino di musica irlandese. E pensare che un chitarrista, due violinisti, un batterista e un cantante di San Giovanni, nati a pochi chilometri da casa mia, siano entrati ufficialmente in questa tradizione mi fa sentire più vicino all’isola che amo, agli abitanti d’Irlanda e alla loro storia: gli Alban Fùam ai loro concerti portano l’Irlanda da voi.

E anche dovessi essere a Dublino, un giorno, saprei che nell’archivio di musica irlandese ci sarebbe un pezzo di Verona e potrei sentirmi a casa.

Che altro di grande può fare la musica?

Ricetta per il tiramisù alla nocciola

Ingredienti
500gr di mascarpone
5 cucchiai zucchero
5 uova
Sale, un pizzico
Pavesini al cioccolato qb
Pasta di nocciole qb
Caffe qb
Cacao in polvere qb

Preparazione
In un terrina capiente separare gli albumi dai tuorli e, in questi ultimi, aggiungere lo zucchero e sbattere bene con l’apposito frullino fino ad ottenere una sottile crema. Incorporare delicatamente dal basso verso l’alto 2 o 3 cucchiai di pasta di nocciole a piacere,
montare a neve gli albumi a cui avrete aggiunto un pizzico di sale: unirvi crema mascarpone.

Preparate il caffé, versatelo in un piatto fondo, addolcitelo con poco zucchero (i pavesini sono già abbastanza dolci), e lasciatelo raffreddare. Coprite il fondo di uno stampo rettangolare con i pavesini bagnati leggermente nel caffé, successivamente adagiate uno strato di crema continuando ad alterare i due ingredienti fino al riempimento della pentola. Terminate con la crema, spoverare la terrina con cacao e mettetela in frigorifero per almeno un paio d’ore prima di servirlo. mangiate e gustate!

 

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.


Sockeye - Intervista a Cibo

 

Non giocare con il cibo, disegnalo!

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Gli antichi classificavano le varie arti in una scala di valori basata su quanto ognuna di esse fosse vincolata alla forza di gravità: dall’architettura, arte minore, alla musica, suprema arte fatta di suoni impalpabili nell’etere. In mezzo a questi antipodi variano pittura e scultura: l’equilibrio del legno e lo spray che cola a terra dal muro di un writer. Non avevo mai capito a fondo le implicazioni di questo concetto fino a quando, parlando di case con Cibo, non ho confrontato la sua grande taverna con le abitazioni che mi hanno ospitato nelle interviste precedenti, soprattutto con la piccola abitazione del maestro d’orchestra Andrea Battistoni.

“La realtà è che fare musica non ti occupa tutto lo spazio che serve a me.”

Tra tavoli, tele, bombolette, e strani strumenti, capisco che sarà una giornata illuminante. .

Di Cibo conosco quel che ho trovato sulla pagina Facebook, ho visto varie opere in giro per la città, ma non avevo idea che quelle fossero solo la punta di un iceberg le cui fondamenta vanno ricercate in vent’anni di dedizione, tantissimi progetti intrapresi e una continua ricerca di portare l’arte alla gente che non può permettersela, fuori dalle gallerie, per la strada.

In grassetto le mie domande.

 “Non pensavo, Cibo, che questo per te fosse un lavoro…credevo che facessi altro nella vita. Hai sempre vissuto d’arte o è un progetto recente?”

 “La mia educazione artistica mi ha portato fin da subito verso lavori “creativi”, ance ho sempre cercato di rimanere a lavorare nell’ambito della ristorazione: dalla cucina, alla sala, dal banco bar, al banco freschi al supermercato. Poi tutto si è fuso, ho tenuto dei blog di enogastromia che mi hanno portato a lavorare per riviste di cucina nazionali e a farmi conoscere direttamente i produttori andando presso le loro sedi.

I miei pezzi sono comparsi a Verona circa sei anni fa anche se è dal lontano 1997 che sono sui muri, io faccio parte della seconda generazione di writer, quella dopo gli audaci sperimentatori e prima della mercificazione. Cibo in realtà per me è solo un progetto tra i tanti, ma è forse quello meglio compreso.”

“Cosa vuol dire seconda generazione di writer? Ne esiste una terza?”

“Sono venute a mancare le condizioni per averne una terza con i dovuti valori propri della strada. Con gli arresti dell’inchiesta “Valpantena writers” si è perso il ricambio generazionale e questo gap ha portato la nuova generazione ad essere più “bomber” che artista. Perciò gli sbirri hanno fatto quasi danni maggiori, prendendo a caso i butei, anche perchè non sono stati i colpevoli a pagare. I rimasti si sono un po’ vendicati - e come dargli torto - la repressione crea terroristi artistici. Io fortunatamente ero in esilio! Ora sta tornando un po’ di scena e vedo gente che ci tiene, che ha slancio, e ciò mi fa ben sperare”

La nostra conversazione si interrompe con l’arrivo in tavola di un risotto dal gusto amarognolo ma buonissimo, alzo lo sguardo e vedo Cibo che mi osserva minaccioso, da vicino:

“Guarda che mi son punto le mani a raccogliere i bruscansi nei campi, ma sentirai che gusto!”

Quando non disegna, Cibo, potete trovarlo a far digging di erbe spontanee e zucche lasciate nei campi dai contadini.

 “Stavamo parlando delle nuove generazioni di writer…”

“Io non sono nato e non sono mai stato un writer legato al mondo hip-hop, non ho mai capito la tega delle tag: per me un’opera dev’essere riconoscibile per tutti, perché dare un messaggio incomprensibile al lettore?”

 “Nel mondo hip-hop credo derivi da quando le tag sui muri delimitavano quartieri controllati da questa o quella gang; o sfide tra writer a chi aveva più tag di altri e in posti più strani. È un sistema codificato di comunicazione urbana, che gioca sul fatto di essere estremamente visibile e estremamente criptato allo stesso tempo”.

Poi a Verona, non è famosa per formare nuovi artisti, non è un ambiente stimolante, anche perché sui muri vedo molte opere che sono una disperazione, non frutto di una pulsione, propria dell'arte, ma di mero guadagno o pigra ribellione. Non c'è sfida, non c'è ricerca stilistica e soprattutto non c'è un cazzo da dire.

La street art a verona è in ancora in fase embrionale e tocca a noi l'onere e l'onore di formarla, ma non stiamo andando nella direzione corretta, a mio dire. Non è una risposta al grigio, è una domanda colorata!

Le istituzioni non capiscono, e la burocrazia regna. Per dire: se un negoziante domani si sveglia e si sente mecenate, forse deve pagare tasse pubblicitarie per un’opera d'arte, già un ossimoro, e le deve pagare perché un omuncolo privato che lavora in esclusiva per il comune prende un obolo per ogni sanzione emessa... Allora, io capisco tutto, paghi il logo, ma il disegno no! Ovvio che un pasticcere vuole una pastina, e ovvio che lo fa per il bello del suo edificio, ma lo fa anche per il senso civico, per dare adito ad un artista, perché semplicemente gli va. Cioè non pretendo che sia incentivata, ma almeno compresa, quello si! Dobbiamo batterci tutti noi artisti per un mondo meno noioso, e privo da dogmi.

 “Poi, come in tanti altri ambiti underground, entrare in questo tipo di mondo vuol dire accettare questo tipo di regole, no? Vuol dire far parte di un sistema con dei valori precisi, delle direzioni da seguire e dei rapporti che valgono ben più delle leggi dello stato.”

 “Si la strada ha le sue regole e molto spesso il torto subito viene sanato anche in maniera creativa. Io non ho mai seguito la scena, ma ho riconosciuto le regole.
Il problema dei writers è che pur essendo dei grandi comunicatori hanno degli enormi problemi di comunicazione: non si capiscono, si perdono in discussioni infinite ed inutili per poi litigare.
Non comprendono il loro potere e la loro responsabilità civica, un'opera rimarrà in strada per anni se non decenni, nonostante sia effimera per natura, e nostra è la responsabilità di dare al panorama urbano una nuova veste. Non sarebbe la prima volta che cancello personalmente un mio disegno perché a mio avviso non convincente. Poi i giovani devono essere più audaci, sperimentare, anche combinar cagate se utili a capire, ma vedo che la ricerca stilistica, il sentirsi unico e riconoscibile, viene meno, eppure è la caratteristica principe di ogni artista.

E poi c’è l’ego che chiama. Ogni writer in fondo al suo cuore vuole che tutti sappiano chi è che gli si porti sconfinato rispetto, altrimenti perchè scrivere il proprio nome... il problema di tutti i furbi: non resistono alla tentazione di far sapere che sono furbi, ma questa è filosofia spiccia”

A questo punto ci avviciniamo alla battaglia più interessante di Cibo: la battaglia contro le scritte di Forza Nuova sui muri. Cosa significa scrivere frasi fasciste in giro per la città? Credo siano l’emblema di tutto quel che abbiamo detto fino ad ora riguardo alla mancanza di cultura: da una parte, scrivere DVX, TITO BOIA o disegnare una svastica vuol dire avviare un processo di abbruttimento estetico della propria città, dei luoghi pubblici e visibili. È un atto di vandalismo che, secondo punto, inneggia ad un sistema di pensiero che se attuato politicamente – in nome della Nazione, dello spirito estetico e dell’ordine – condannerebbe quel gesto stesso in modo più radicale di qualsiasi altro regime.

“Bhe sia chiaro, a me di politica non frega un cazzo, copro anche i CARLO VIVE e soprattutto i TI AMO, quelli sono i peggiori, slanci di “creatività” che rappresentano sentimenti morenti.

Battaglia? Scaramucce da bontemponi! Innanzi tutto odio lo sporco e il disordine, quelle scritte sono oggettivamente brutte. Inoltre sono fatte da persone che non hanno cultura, ne ho più io sul argomento. Esempio: chi ha scritto TITO BOIA, secondo voi chi lo ha scritto aveva chiara la situazione dei Balcani ai tempi di Tito?  Sono dei poveretti con l'hobby per il nazionalsocialismo, quello tenero, quello delle frasi fatte da circolo combattenti e del “crediamo in qualcosa che altrimenti devo parlare dei compiti di scuola”.

Poi c'è da dire che sono parte di una performance artistica molto divertente ed utile. Se sapessero che con il loro rovinarmi i murales mi hanno donato per l'indignazione più di un terzo dei followers e che è solo grazie a loro che mi chiamano a sistemare altrettante scritte, molto probabilmente non avrebbero mai proseguito una guerra impari. Senza contare il fatto che per loro è controproducente, rovini un parco giochi per i bambini?!... è cattiva pubblicità per il loro movimento sociale. Però se avessero risposto sul muro in maniera adeguata, sarebbe stato anche interessante e la loro causa poteva sembrare anche meritevole di rispetto, ma così son strilli da cortile.”

“Loro hanno scritto TITO BOIA e tu hai fatto un wurstel. Questa frase è poesia”

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“La vera poesia è che sono tornati a riscriverlo, ed io ho aggiunto la salsa sulla scritta... te l'ho detto, per me è solo un assist, e sappi solo che non è la prima e non sarà l'ultima, e ti dico solo che è sempre finita con mie grasse risate. A livello mediatico perderanno sempre con noi writers, abbiamo creatività, mezzi e determinazione, loro hanno solo il branco e una bomboletta da ferramenta.

Comunque non c'è odio, ma compassione, con il nuovo anno ho resettato tutto e per me è pace.

- non sono cattiva, è che mi disegnano così (cit.) -”.

Ricapitolando: quelli di Forza Nuova ce l’hanno con i writer, di fondo, perché i writer sono promotori di libero pensiero, e manifestano quest’odio imbrattando i muri, cioè trasformandosi in writer della peggior specie.

Ciò che mi lascia tranquillo è che Cibo esiste, ha vinto, e vincerà sempre contro tutto questo.

“Ma quanto tempo ti occupa disegnare cibo, Cibo?”

“Beh è comunque il mio lavoro. A parte le cose che faccio gratis, in giro, ho collaborato con vari enti privati. L’importante è che quello che ti senti di rappresentare sia arte e che racconti una storia, non semplice decorazione, l’importante è che quest’arte ti porti a farti delle domande, non che abbellisca in modo sterile il luogo dove vivi.”

A questo punto, in misura molto maggiore e con un grado d’intensità ben più elevato, scopro che Cibo attua la mia stessa strategia, come pagamento dei suoi pezzi: come me, che vado a pranzo dalle persone che intervisto, Cibo si fa pagare in alimenti. E mai, mai come in quel momento davanti a quel piatto di riso con i bruscansi, ho trovato nel mondo reale una così forte incarnazione di una frase di “La Collina” di De André da farmi sorridere senza che i miei ospiti capissero fino in fondo perché.

“Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore, tu che lo vendi, che cosa ti compri di migliore?”

Cibo disegna cibo e si fa pagare (in parte) in cibo, perché tanto, con i soldi, null’altro gli interesserebbe così tanto quanto mangiare bene.

“Pensa se mi chiamassi Braghette avrei un armadio pieno di solo pantaloni! [LOL ndr]. La cosa che mi interessa di più al mondo è mangiare bene. Ho anche rifiutato dei lavori perché il cibo che mi offrivano mi faceva schifo, o perché la filosofia aziendale non era conforme a quello che vorrei io da una azienda agricola, o da un ristorante, ma per fortuna a Verona di solito mi va bene, perché Verona è rurale e il territorio è una risorsa.

“Fammi fare della filosofia, per favore.”

“Eccolo…”

“Ahah, dai. L’arte contemporanea si è fondata sul togliere agli oggetti comuni il loro grado di usabilità oggettuale per renderli immagine, per innalzarli alla loro forma più pura in un museo, senza nient’altro attorno. Dal water di Duchamp in poi…l’opera non è più rappresentazione della realtà ma un tentativo di mostrare la realtà nella sua forma assoluta. Tu mi metti in crisi con le tue opere, perché anche tu astrai dalla realtà ma il luogo dove disegni l’oggetto astratto è il luogo stesso dove l’oggetto esiste: penso agli asparagi. Non porti gli oggetti in un museo ma è come se con le tue opere marchiassi a fuoco sul muro una realtà nascosta perché troppo visibile, troppo comune, troppo abitudinaria.”

 “Sì il bello della street art è che ha senso solo in quel luogo e in quel momento preciso, non la puoi strappare dalla sua realtà e portarla in un museo. Non ha senso fare un murales dell’11 settembre a Belfiore, oggi. Il Cibo sta lì perché è lì che deve stare. E deve tornare a farci vedere qualcosa a cui siamo abituati, deve farci fare delle domande. Domande su un problema del cibo che deve andare oltre all’Expo e oltre a Farinetti… E l’altro lato bello è che le persone sono costrette a vedere i miei pezzi, in un certo senso faccio una violenza visiva e gli impongo un pensiero o un sorriso.”

“Certo, e soprattutto, come hai detto all’antipasto – credo – hai una grossa responsabilità: la gente che va nelle gallerie d’arte è educata e compie un gesto volontario, mentre tu devi arrivare ad ogni passante, anche alla signora Maria che va a prendere il pane la mattina.

 Vorresti lavorare in una galleria d’arte?”

 “Mi darebbe molti stimoli, certo, ma probabilmente lo farei solo per i soldi. Sai con i soldi che mi darebbero là cosa potrei fare? Alla fin fine io voglio guadagnare per mangiar bene e per poter comprarmi nuova attrezzatura con la quale fare opere gratis: come sto facendo negli asili (mi faccio pagare mangiando con i bambini in seggioline minuscole) e in una cooperativa sociale per i malati di mente. Se non porti l’arte a queste persone a cosa serve? Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, rimediamo, no? ”

“Ma è tutto illegale, quel che vediamo in giro? Non rischi nulla?”

“Io vado nei luoghi vestito di arancione in pieno giorno, ed inizio a dare una mano di bianco. A quel punto i vecchiotti – perché ho coperto le tag o le svastiche sottostanti – mi dicono: “Brao giovane!”, pensando che io sia del comune, ma già cancellandogli le scritte gli stai simpatico. Poi inizio lentamente a disegnare e, di solito, ho trovato gente felicemente incuriosita.

  • Eh salve! Ghe piase el formaio? Belo belo giovane, almanco che lo veda visto che non posso maiarlo! –

Evito di dar fastidio comunque, a meno che il posto non si a ghiotto. Vado in posti abbandonati o rovinati, a volte mi informo sulla proprietà dell'immobile, proprietari sciatti lasceranno in rovina lo stabile e il mio disegno forse sopravvivrà!

“E non hai paura che succeda qualcosa di questo tipo?”

NEW YORK TIMES

“Bah, arrestato è una parola grossa. Non faccio niente di male…anche se potrei giocarmela bene in termini di pubblicità. In carcere però se la dovrebbero metter via eh, disegno anche col sangue: “non sono io che son chiuso dentro siete voi che siete chiusi fuori”. In prigione avrei una stanza con 5 superfici…non so se gli convenga!”

Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, mi ha detto Cibo. Scoprendo come lavora e il progetto che sta portando avanti mi ha riempito la testa e il cuore di speranza. E io, che il cibo lo amo, che odio il fascismo e l’elitarismo, ho ritrovato in questo artista un tentativo di fare qualcosa di veramente concreto per le persone e per l’arte. Con lo stomaco pieno dell’amaro dei bruscansi e della grappa – sempre ai bruscansi – torno verso casa trattenendo in me una nuova definizione della parola americana “real” – nel senso di autentico -  e della parola “giusto”.

Grazie.

 

Risotto coi Bruscansi, il germoglio primaverile del pungitopo:

Scritta da Cibo:

"Amaramente racconto tra le mille spine della Val Galina, cotto e ricoverato in freezer assieme alla sua acqua di cottura utilizzata poi per il brodo. Un Risotto come vostra madre comanda:

soffriggi lo scalogno, tosta il riso, aggiungi i bruscansi, sfuma con vino bianco, cucina il riso con la giusta quantità di brodo, manteca con burro, "formaggia", controlla il sale e impiatta. Per Il digestivo, i medesimi bruscansi messi a dimora nella grappa, accompagnano il caffè e il dolce. Per concludere la giornata in maniera coerente, Murales a tema asparagi, i "parenti da aia" dei bruscansi. Inutile dire che tutti i prodotti arrivano da luoghi che posso osservare con un binocolo, tranne il burro che amo quello chiarificato tedesco da allevamenti sostenibili il cui latte è munto solo per fare burro."

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.