Sockeye - Intervista a un gruppo di migranti gambiani

 

Grazie alla gentilezza e alla complicità di un amico, sono stato invitato a cena da un gruppo di giovani migranti gambiani, che si trovano nella nostra terra in attesa (spesso vana) che l’apparato burocratico che gestisce le loro vite si smuova e venga infine loro concesso un documento. Vista la tanta disinformazione su migranti, di clandestini e di difesa del territorio – complice anche la campagna elettorale -  ho pensato che sarebbe stato utile andare a chiacchierare direttamente con i migranti stessi. Le mie intenzioni erano due: scoprire cosa siano venuti a fare qui, ossia misurare scientificamente il grado di minaccia che portano alla nostra società e, in un secondo tempo, recuperare - scroccandogli una cena - almeno un po’ dei 35 euro che rubano alle nostre tasse ogni giorno (non è vero, ovviamente, ma l’internet è un posto molto strano e mi vedo costretto a specificarlo).

Questo è il racconto della nostra cena.

In una freddissima serata mi sono immerso nella nebbia della provincia veronese fino a raggiungerne il confine sud. Tra fossi, capannoni abbandonati, campi e gruppetti di case, mi trovo ad un tratto in una corte. Sceso dall’auto trovo attorno a me solo buio e umido; in lontananza, però, ecco spuntare una finestrella luminosa dalla quale escono profumi intensi e tanto, tanto rumore.

Quando entro dalla porta principale vengo accolto in una stanza piena di gente. Una decina di ragazzi gambiani, di qualche anno in meno di me, sono seduti su due divani e su qualche sedia sparsa attorno al tavolo. Quasi tutti quanti hanno una cuffietta all’orecchio e il telefono in mano, per comunicare con amici e parenti sparsi per la provincia, per l’Europa e per l’Africa.

In quella stanza tutti conoscono il mio amico – che ora chiamerò G. -, lui di lavoro risolve i loro problemi. Quando entro io il rumore continua ugualmente ma noto in quei ragazzi un pizzico di timidezza: alcuni mi salutano ma guardano altrove, altri cercano di conoscermi e mi fanno sedere al tavolo. La comunicazione all’inizio è piuttosto difficoltosa, il mio inglese è arrugginito e il loro non è proprio quello che sentivo a scuola nelle cassette allegate ai libri. L’inglese, però, lo sapevano tutti, e tutti cercavano di attirare l’attenzione del mio amico per chiedergli notizie su documenti, medici, appuntamenti in tribunale.

Tra la confusione la loro attenzione era tutta focalizzata su uno splendido documentario su Alberto Sordi che davano su Rai 1.

“Cosa guardate?”, chiedo.

“Quello che c’è, vorremmo guardare il calcio ma G. non ci dà l’abbonamento a Sky”, ridono tutti. Rido anch’io, ma inizia ad assalirmi un problema enorme: ho fame. Due domande assillano la mia mente: come faremo a starci tutti attorno al quel tavolo minuscolo? Come avranno fatto a cucinare per dodici persone in quella micro-cucina?

Le mie domande hanno presto risposta, una risposta rivelata dalla più divertente situazione che mi sia mai capitata in queste interviste per Salmon: loro avevano già mangiato. Avevano apparecchiato solo per me e G. e ci invitavano caldamente a sederci e prepararci alla cena.

“Dov’è la cena?”, chiedo a G.

“Credo sia questa eh…”, risponde indicando una vaschetta chiusa con del riso, una terrina con una salsa scura e un cartone di una pizza in cartone.

Mi hanno comprato una pizza col salamino piccante <3
A questo punto la mia curiosità cresce: “Che cosa si mangia?”
“Ecco questo!”, risponde uno di loro seduto al tavolo, apre la vaschetta contenente il riso bianco e mescola la terrina con la salsa avvicinandomela: sembra buonissima. Ora, una cosa sola sapevo per esperienza diretta sulla cucina degli africani: mangiano solo riso con carne. Sempre, in ogni forma e modo.

La regola anche stavolta non mi aveva deluso. La salsa da mettere sul riso bianco era uno strepitoso mix di pomodoro, cipolla, carne e burro d’arachidi. Sì, burro d’arachidi, piccante per giunta. Se qualcuno di voi fosse amante dei sapori forti, la consiglio caldamente.

Il pasto era questo piatto unico, un litro di salsa a condire due chili di riso: niente porzioni definite, niente acqua ma solo Pepsi Cola e decisamente niente fronzoli. Ma il meglio doveva ancora arrivare.

Queste mie interviste servono per scoprire le persone attraverso una chiacchierata con loro a casa loro, invitato (o auto-invitato a mangiare). Questi ragazzi gambiani hanno sbagliato entrambe le due regole base dell’intervista: hanno mangiato prima di me e… non hanno cucinato tutto loro.

“Ci sentiamo in colpa che abbiamo fatto solo questo e allora vi abbiamo ordinato una pizza!”, mi dice uno di loro seduto accanto a me, mentre apre il cartone e mi presenta davanti una pizza calda fumante con il salamino piccante e i funghi. Rimango basito subito e sbalordito poi, sono riusciti in pochi minuti a distruggere i due binari che regolavano le mie interviste: mi hanno lasciato aperta una porta per incamminarmi in un sentiero completamente libero e da esplorare. Hanno preso una pizza perché volevano farci felici, e perché, mi ha spiegato G. solo successivamente, sentendosi in colpa per non poterci cucinare maiale l’hanno comprato.

Deve essere un grande popolo questo, ho pensato. Le cose divertenti però da lì a breve sarebbero iniziate a sfumare, nessuno aveva ancora realmente parlato con me, nessuno mi aveva ancora raccontato nulla delle loro vite.

Verso la fine della pizza, ormai pienissimo di salsa piccante e Pepsi, sono riuscito a prendere confidenza con loro: abbiamo parlato di calcio, scherzato sulle ragazze e commentato Alberto Sordi in tv. Chiedo a G. di focalizzare l’attenzione su di noi e quando lui riesce a chiedere ai ragazzi di ascoltarmi e raccontarmi di loro sento calare il silenzio, la timidezza e l’imbarazzo. Non avevo mai sentito tanto silenzio in quella stanza.

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Mi rendo conto che l'aspetto non sia il massimo, ma vi dovrete fidare di me: era buonissima.

Il problema è semplice: loro non capiscono bene chi io sia e trovano inconcepibile che uno sconosciuto voglia parlare della loro vita - gli unici a farlo finora erano stati militari, medici e cooperanti.

A tratti in quel momento mi sono sentito in colpa, colpevole di aver voluto rovinare quella normale serata per loro. Per fortuna si è trattato soltanto di un attimo, piano piano uno di loro ha iniziato a parlarci (a parlare con G., in realtà) e poi gli altri si sono accodati e hanno tutti colto la naturalezza del mio interesse. Verso la fine erano addirittura infervorati, si interrompevano tra di loro per raccontarmi il loro passato, il loro presente e il loro futuro.

Dai loro racconti ne sono uscito scosso, non riuscirò a rendere i loro occhi parole: 

“In Gambia eravamo per lo più studenti, in un paese governato da una dittatura di 23 anni, di Yahya Jammeh. Di certo non morivamo di fame, ma il clima politico era di totale repressione di ogni libertà e di ogni tentativo di dissenso, attraverso violenze ingiustificate, squadroni della morte e prelievi casuali di persone, venivano a prenderti a casa senza reali motivi e non sapevi bene perché…

Il clima poi è peggiorato, nel 2016 c’è stata un’elezione la cui vittoria non è stata inizialmente riconosciuta dal dittatore…questo ha provocato una tensione interna che ha portato all’aumento dell’ondata repressiva, è stata occupata militarmente la sede delle commissioni elettorali, sono state chiuse varie radio private. Ha tentato di imporre coprifuoco, compiere arresti indiscriminati e quant’altro…il tutto mentre tentava di mantenere un’apparenza di facciata e normalità con la comunità internazionale.

Il Gambia non è un paese particolarmente povero e ufficialmente non è né in guerra né sotto dittatura. Ma ti assicuro che aver lasciato il mio paese verso l’ignoto, significa che, davvero, non potevamo più vivere lì. Non avevamo più le condizioni umane basilari per poter proseguire tranquillamente le nostre vite, o per mancanza di libertà o per vere e proprie minacce di morte.”

E quindi avete preferito il viaggio attraverso il deserto e poi la Libia, per sperare nell’Europa. Cosa pensavate sarebbe successo?

“Non avevamo idee precise, alcuni di noi non volevano nemmeno raggiungere l’Europa ma altri stati africani, altri si sono messi in viaggio per ricongiungersi con parenti o amici. Sapevamo solo di voler andare verso nord, in un modo o l’altro ci saremmo riusciti.”

Qui ad un tratto si fanno ancora più cupi, mentre mi invitano a finire la pizza, ci sono alcune cose che non vogliono raccontare fino in fondo, come la Libia. Lo stato nordafricano, da quando Sarkozy ha abbattuto il regime, è diventato un inferno: terra di fazioni opposte e vere e proprie bande di trafficanti di uomini, e assassini che, oltre a combattere tra di loro, hanno creato un impeccabile sistema di commercio di esseri umani.

Qui scopro una cosa su cui non avevo riflettuto molto prima: arrivati in Libia non si può tornare indietro.

“Molti di noi viste le condizioni trovate in Libia avrebbero voluto ritornare ma non ci era possibile. Avevamo affrontato mesi nel deserto in un viaggio di sola andata – non ci sono mezzi che fanno la rotta inversa – e la Libia è un sistema strutturato di prigioni, torture, violenze di ogni genere in un percorso che si conclude ad un certo punto in un spiaggia…”

Il mio interlocutore si siede accovacciato sul divano, per mostrarmi come stava nel camion che l’ha portato in Libia, e inizia a raccontare la Libia.

“Sono stato per sette notti nel deserto, eravamo in dodici e solo uno di noi parlava arabo. Ad un certo punto abbiamo incontrato delle milizie che ci hanno fermato e che ci ha chiesto se sapessimo il Corano e, che abbiamo scoperto dopo, erano della polizia. Noi sapevamo che dovevamo stare lontani dalla polizia: la polizia vende le persone in Libia. Ci hanno portato in prigione, e di questo non vorrei parlarne…

Sentivamo spari tutta la notte, vedevamo bambini sparare ad altri libici con le mitragliatrici, avevamo addosso dei numeri e c’erano delle liste di chi poteva uscire o no. Ma per uscire bisognava pagare…Alcuni di noi avevano paura a farlo, verso il mare se non sei arabo non puoi andare in giro… ti fermano, ti denudano e ti uccidono. Molti giovani maschi vengono anche usati come schiavi sessuali…”

E come sei arrivato al mare?

“Ti ci portano loro, ad un certo punto ti ritrovi in spiaggia con la gente che ti punta un fucile per farti salire su una barca, pagando. Volevo anche io tornare indietro a quel punto, ma non era fisicamente possibile, la rotta è stata costruita dall’uomo, ed è una rotta a senso unico.”

Mentre finisce di raccontare della Libia cala il silenzio, uno di loro mi prepara un tè nero fortissimo, si chiama Ataya, e mi dicono essere il corrispettivo del vino, per loro. Mi offrono anche quello che per loro sono “vitamine”, una ciotola di riso bianco e zucchero.

L’inferno della Libia è stato talmente intenso che ora possono condividere una stanza pur appartenendo a fazioni diverse, fazioni che si sarebbero fatte la guerra in Gambia.

E ora come vi trovate qui?

“Qui stiamo bene, nessuno ti uccide almeno…” Mi parla un altro ragazzo, più grande, vestito in abiti tradizionali per la mia visita. E mi spiega una semplicissima cosa: sono in un limbo burocratico che sanno benissimo non si risolverà, e questo tiene in sospensione le loro vite in un’impasse esistenziale altrettanto violenta.

“Qui mangiamo e dormiamo, e a volte riusciamo perfino a lavorare. Ma non vogliamo soldi, dei soldi non te ne fai niente…l’unica cosa che ci serve è un documento. Senza di quello siamo come in prigione.”

Si agita nel parlarmi del documento, è un’aspirazione che in Italia diventa spesso un incubo. G. è sempre bravo nello spiegare a tutti la situazione, cosa stia facendo per loro, cosa devono fare e cosa non, per aumentare le possibilità di riceverlo. Spiega anche come difendersi dal caporalato, che nella provincia di Verona incombe, anche se non se nessuno ne parla mai.

“Non riusciamo a parlare di come stiamo, come non stiamo e cosa vorremmo fare…vorremmo solo che lo spiraglio di un futuro, una variazione della nostra posizione, accadesse…”

Com'è il vostro rapporto con la gente del posto?

“Bene! Non ci danno fastidio… A volte ci fanno ridere perché quando siamo in giro ci chiedono cosa stiamo rubando! Non capiamo perché!”

Il piccolo e sporco razzismo italiano, promosso istituzionalmente da alcuni partiti candidati alle elezioni, li fa sorridere rispetto a quello che hanno passato in Gambia e, poi, in Libia.

Mentre torno a casa, pieno di Pepsi Cola che hanno continuato a versarmi, percorro le normali stradine di provincia di tutta la mia vita. Sono abbastanza emozionato e scosso, mi ha turbato la loro normalità. Come hanno fatto a parlare con me di ragazze, di calcio e ridere tantissimo mentre mi sporcavo con la pizza, dopo aver passato quello che hanno passato in Libia? È stato come parlare con un sopravvissuto ad un campo di concentramento, figure solamente ascoltate in video o lette nei libri di storia, figure lontane. Per loro era uguale, ne sento parlare al telegiornale, leggo le loro storie, ma poi parlando con queste persone ho scoperto che non c’è niente di diverso da me nel loro modo di rapportarsi.

Se possono vivere con quel peso dentro e rapportarsi normalmente a me significa che quel peso è anche mio, che riguarda la mia vita, che la violenza nascosta dentro di loro e una violenza anche mia perché io, in due ore, a loro mi sono unito come con qualsiasi amico o persona incontrata.

Sono banalità? Sì, ma sono queste le banalità da recuperare. Se non possiamo salvare il mondo possiamo iniziare a andare a parlare con loro mentre sono qui. E lo dico per me e per tutti quelli che sono stati presi dalla narrazione fascista, violenta e razzista messa in atto in questi ultimi anni. Percorso fatto da un certo tipo di comunicazione è chiaro: allontanare le vite di queste persone dalle nostre, creare opposizione binaria tra noi e loro. Creare gli italiani e gli immigrati, i bianchi e i neri, i buoni e i cattivi, i ladri e le vittime.

Mi sono sempre chiesto come smontare questa narrazione ormai consolidata, questo successo del senso che ha categorizzato queste persone allontanandole da noi dal loro essere umani cosicché potessimo odiarli senza sentirci in colpa. La soluzione non è nella retorica, non è nelle parole o nel pensiero. Non convincerete mai chi è in quest’ordine di idee e non vi convincerete mai voi stessi.

La soluzione è andare a parlarci per due ore, da soli, in modo che si aprano con voi. Vedrete che sono esseri umani come tutti, alcuni fanno schifo e altri sono meravigliosi. Non potete cambiare le politiche di migrazione internazionali, potete forse lamentarvene - quello che invece potete cambiare è la vostra persona e il vostro rapporto con loro.

Sembrano frasi stupide e semplici, il problema è che sono costretto a ripeterle ancora e ancora, perché non sono più scontate né a Verona e né nel resto d'Italia.



L'essenzialità del calcio

L'ultima grande narrazione che ci è rimasta dopo la religione e prima delle serie tv.

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Uno dei motivi per cui alcuni giovani europei impazziscono e diventano foreign fighters tra l’esercito del sedicente Stato Islamico è il tentativo di trovare una nuova teleologia per lo scorrere della loro vita, cioé, detto in modo inappropriato ma chiaro: uno scopo più grande.

Morta e sepolta l’idea di aldilà cristiano, le vite nel mondo occidentale si susseguono in modo circolare a seconda dell’andare dei giorni: lavora, spendi, dormi, lavora, spendi, dormi e via dicendo. Le nostre vite si consumano nella più totale immanenza della società liberale e scientifica: prive di segreti naturali, prive di mistero, prive di religione; tutte votate alla realizzazione personale e all’incessante ricerca della felicità. Uno dei motivi per cui molti giovani europei diventano foreign fighters è tornare ad avere uno scopo ultraterreno, qualcosa di grande, qualcosa che trascenda sé stessi e la loro “troppo piccola e troppo umana” vita anche a costo di sacrificarla con il sacrificio più grande.

L’uomo, questo scorrere circolare delle vite senza alcuna teleologia (senza alcuno scopo, senza alcuna fine ultima), non è in grado di sopportarlo. Per questo abbiamo sempre avuto bisogno della religione: per la sua trascendenza e per i tempi liturgici dettati da questa.

La religione serviva a dirci che c’è dell’altro e che c’è un fine, che esiste del mistero indipendente da noi e che lo scorrere della vita non è soltanto circolare, ma anche lineare: esiste la vita eterna e ogni azione della nostra vita è votata a quello. Il mistero che la religione portava nelle vite di tutti i credenti è un mistero creato da una narrazione immensa, capace di portare anche in una piccola comunità come quella veronese la storia di una traversata del Mar Rosso o di una resurrezione in Palestina: storie che permettevano alle vite contadine di essere direttamente legate ad un’eternità e una comunità umana e divina. La narrazione della religione, insomma, trasformava una vita misera e faticosa in una vita grande.

Ora che la religione è stata sconfitta l’uomo si trova solo con la sua quotidianità, così pressante che ha bisogno di creare le “teorie del complotto” per provare a convincersi che il suo mondo è governato ancora da una forza nascosta e misteriosa. E invece niente.

Quell'ormai lontana sera in cui l’Italia ha pareggiato con la Svezia e non si è qualificata al mondiale di Russia del 2018 ho sentito molti amici confrontarci su come sarebbe stato possibile andare avanti, rinunciare alle estati in cui i giovedì non sono solo dei giovedì ma sono i giorni in cui probabilmente si vedrà una partita. Ci siamo chiesti come fare per rinunciare a quella liturgia quadriennale che è l’avvento del caldo giugno dei mondiali.

Il giorno successivo all’eliminazione dell’Italia ho visto il mondo intero parlarne.

Il mondo intero che ne parla ancora oggi è scosso da una storia improvvisa e imprevedibile, dall’origine misteriosa e di portata “sovrumana” nel senso di trasversale, capace di unire le nostre vite veronesi e italiane con quelle degli svedesi ma anche dei neozelandesi e i cileni.

La più grande narrazione contemporanea, capace di unire trasversalmente l’umanità e in grado di dargli sia una trascendenza (catodica o digitale che sia) sia una linearità (la vittoria finale) è il calcio.

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Il calcio è l’ultima grande teleologia rimasta all’uomo, dopo il teatro, dopo i gladiatori e dopo le religioni. Attraverso il calcio l’uomo rimane appeso ad una storia indipendente da lui, una storia che ha dei tempi dilatati rispetto a quelli della sua vita.

Non sto cercando di convincere nessuno del valore del calcio rispetto agli altri sport, sto solo facendo un’analisi fenomenologica scaturitami da una domanda: cos’altro al mondo ha potuto tendere i miei nervi in simultanea con quelli di uno svedese a Malmo per lo stesso identico motivo?

Notate qualche somiglianza tra le due immagini di quest'articolo? Non i simboli religiosi o il colore della pelle, ma il pallone.
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Vi pare un caso che in una città come Verona, malgrado Salmon e malgrado varie realtà indipendenti, la vita sia scandita tra: tempo del lavoro, tempo per andare in Chiesa, tempo per bere e tempo per andare allo stadio a seguire l’Hellas?

Bere probabilmente serve per dimenticare quanto la mentalità veneta della dedizione al lavoro ci abbia rovinato l’esistenza, ma la chiesa e lo stadio servono per salvarla, quest’esistenza.



Sockeye - intervista al fondatore del Tocatì

 

Giocare è la cosa meno importante - per questo è essenziale.

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Il Tocatì è roba grossa: da quindici anni, per qualche giorno, riempie la città di giocatori e visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Attorno alla dinamica e alla cultura del gioco di strada si crea così un intreccio di persone e culture come nessun altro evento riesce a fare a Verona: neanche il Vinitaly o quell'abominio socioculturale che è Verona in Love. Il Tocatì quest'anno è alla sua XVesima edizione ed è candidato a diventare Patrimonio Culturale Immateriale dell'Unesco.

Quando, da oggi fino a domenica, andrete a guardare i lottatori turchi sfidarsi, o parteciperete ad una partita di lippa (s-cianco per i veronesi), ricordatevi di pensare ad una cosa: tutto quello che vedrete è nato tanti anni fa, in una piccola osteria di Verona, quando un gruppo di amici appassionati di giochi antichi decise mettere il naso fuori in strada e parlare alla gente.

Un weekend di caldo incredibile di qualche tempo fa ero all'osteria Carega per parlare con Giorgio Paolo Avigo: uno dei fondatori del festival e presidente dell'Associazione Giochi Antichi.

Voi la sapete la differenza tra sport e gioco? E lo sapete che in Sri-Lanka giocano allo s-cianco per imparare a giocare a cricket? Io ho imparato tutto questo - e ben altro - in una lunga ed appassionata chiacchierata.

In grassetto le mie domande.

Qui siamo al Carega, l’osteria dove vi trovavate dovrebbe essere qui dietro no?

"Sì uno dei luoghi dove ci trovavamo sempre è l’osteria le Petarine, abbiamo anche chiesto di mettere una targa in quanto sede storica... Il tutto è nato quasi per caso, tra un bicchiere e l’altro, tra delle chiacchierate all’Osteria e una partita a s-cianco in strada - in fondo tutto questo, tutto quello che abbiamo creato è nato da quel gioco. L’associazione nasce dal recupero dello s-cianco."

…che è un gioco che facevate fin da piccoli immagino,  io lo conosco ma non ne conosco l’origine, è di Verona?

"Il termine è di una parte della città di Verona. Il gioco in sé, invece, è un gioco che è praticato tutt'ora a livello internazionale ed è diffuso da sempre in diverse parti del mondo. A livello di festival quest’anno abbiamo inserito il “Torneo internazionale di lippa”: ci sono tre squadre italiane e sette provenienti da varie regioni europee.

Mi piace raccontare come ancora prima del primo torneo un gruppo di srilankesi ci abbia visti giocare e si sia subito avvicinato:

“Ma scusate perché voi giocate al nostro gioco?”

“Cossa gheto?”

E da lì, dal 6 ottobre 2002, hanno sempre partecipato al torneo di s-cianco con una squadra dello Sri Lanka. Quasi ogni anno vanno in finale, anche se è raro che vincano..."

Perché sono meno forti?

"Ma perché come accade per tutti i giochi tradizionali non è così facile rispettare le regole come sembra dall’esterno. La regola fondamentale di ogni gioco di strada è che si basa sul contesto dove viene praticato.

Sembra una cosa avulsa ma ci sono regole legate ad esempio al tipo di terreno, alla lunghezza dei bastoni eccetera...che sono legate al vissuto della zona dove vengono poi messe in atto: giocatori stranieri di lippa fanno fatica ad adattarsi a certe regole italiane, veronesi. E su questo fatto ci abbiamo giocato spesso!"

Questo tipo di giochi quindi è estremamente radicato nella tradizione specifica di una regione e di una popolazione, ma allo stesso tempo si pratica in egual modo in tutto il mondo, come mai?

"Sì, noi crediamo nei giochi anche e proprio per questo, perché sono una delle pratiche che dovrebbero fare da traino per capire le culture diverse dalla nostra, con cui veniamo - volenti o nolenti - a contatto. Il fatto che un gioco venga praticato agli antipodi della Terra nella stessa maniera significa che c’è stato uno scambio di culture nato nei secoli, vuol dire che in qualche modo ci siamo tutti incrociati fin dall’alba dei tempi."

Non sono pienamente d’accordo. O meglio, credo che alcune comunanze nei giochi nascano anche dal fatto che ci sono cose, nel rapporto che l’uomo tiene con il mondo, che siano talmente basilari da venire prima - non solo in senso cronologico ma anche antropologico - delle differenze date dalle culture. Per esempio il lanciare e recuperare una cosa, un legno, è cosa che fanno anche gli animali. La lotta è un altro esempio: sta alla base di quasi tutte le culture mitiche del mondo antico... e via dicendo.

"Certamente questa è la base, ci sono comunanze che fanno riflettere. Pensa che nello s-cianco in ogni parte del mondo i colpi di allontanamento con cui si può colpire sono tre, non due e non quattro ma tre."

Ma visto che si pratica in tutto il mondo... anche all'estero la lippa è vista come una cosa da recuperare e salvaguardare?

"In alcuni paesi molto meno, perché lo praticano: in Sri-Lanka i giovani ci giocano tutti perché è propedeutico al cricket, a Cuba ci giocano per insegnare a giocare a baseball. Quando è venuta la delegazione cubana mi ha raccontato che a L’Avana ci sono le eliminatorie del campionato proprio il giorno della Liberazione."

E in Italia invece? So che andate nelle scuole a promuovere i giochi tradizionali in generale… come reagiscono i ragazzi? Sono troppo abituati allo schermo dei cellulari?

"No guarda sul discorso che i ragazzi non giocano più e sono sempre davanti ai display mi trovi in disaccordo. Forse è vero ma fino ad un certo punto, facciamo spesso domande nelle scuole. E alla fine i bambini e i ragazzi ci dicono che comunque preferiscono stare fuori con gli amici a giocare."

Sì alla fine molti dei contenuti veicolati dagli smartphone sono ancora contenuti “reali”.

"Esatto, si fanno i video di quando giocano a calcio. Poi c’è da dire una cosa: la strada è da sempre stato un luogo dove si sta in comunità in uno spazio improvvisato. Adesso i genitori dicono che le strade sono pericolose ma secondo me è un circolo vizioso: sono pericolose perché non c’è nessuno in giro, sono monopolio delle macchine perché non c’è gente."

Mi piace il discorso del gioco e dei luoghi improvvisati. Vedendo le vite dei ragazzi oggi direi che sono comunque piene di attività, il problema è proprio questo forse?

"Quello che fanno i ragazzi oggi sono sport o attività in tempi e luoghi adibiti e pensati per fare esattamente quell’attività: c’è sempre il binomio luogo-attività ad agire sulle loro vite; prima a scuola e poi in palestra, prima lo studio e poi il campo da calcio.

Questo non è giocare, è qualcosa che non c’entra niente, i ragazzi hanno vite piene di attività istituite e organizzate che non fanno crescere la loro immaginazione come dovrebbe.

Noi siamo nati in antitesi a tutto questo. All’inizio magari non avevamo uno scopo preciso ma di alcune cose eravamo certi… Pensa che alla prima edizione ci hanno proposto di essere inglobati nelle associazioni di attività sportive tradizionali, ci siamo sempre rifiutati."

Perché? Perché quello che promuovete voi è il gioco e non lo sport? Ancora la differenza non mi è chiara fino in fondo…

"Uno sport è uguale in tutto il mondo, ha regole e leggi che hanno bisogno di essere rispettate con criteri rigidissimi. La lunghezza del campo da calcio, i materiali dell’asta per saltare, i terreni del campo da tennis e via dicendo…

Il gioco fa parte della cultura popolare invece, come la poesia, la musica o la danza popolare, e in quella è radicata. Se gioco alla lippa a Barcellona giocherò con le loro regole e i loro attrezzi. Il gioco nasce dalla spontaneità e la necessità di riempire con ingegno i momenti vuoti della quotidianità, e nasce da persone che lo fanno con quello che trovano: nella loro strada e con i loro attrezzi e per questo è importante che ci siano ovunque delle differenze."

Lo sport ha tempi e spazi precisi in cui tutta la comunità va a fare o vedere una determinata cosa e lo fa in un tempo che si dispiega in modo scandito come quello liturgico. Invece il gioco si prende lo spazio che la società non istituisce. No? Penso al calcio giocato nei campi, con le squadre, le maglie e i campionati e al calcio giocato con una palla, due felpe a fare da porta, e quattro giocatori soltanto in strada.

"Questo sicuramente, rispetto agli spazi e i tempi, ma guarda alla differenza nella pratica. Ti faccio un esempio: l’anno scorso siamo stati in Croazia, nell’Istria, a giocare ad un torneo di bocce piatte, hanno una tradizione tutta loro con delle regole più o meno simili a quella delle bocce nostre.

Quando siamo arrivati eravamo strabiliati: in un posto come la Croazia, che è uscita poco fa da una situazione poco felice, sono riusciti attraverso questo gioco a creare un torneo con sloveni, bosniaci e montenegrini.

Ora, se si riesce attorno al gioco a far fondere le culture allora forse questa è una strada da intraprendere per farle comunicare, queste culture diverse, a creare nuove comunità.

Il gioco viene considerato poco importante - e quindi essenziale, direi - e così anche popoli che si odiano e che magari non farebbero mai affari dicono: “ma sì, giochiamo, tanto è una cosa da bambini”, e da lì si può partire per riunirsi."

Ma parliamo dell’edizione di quest’anno, chi ci sarà come paese ospite?

"Quest’anno non c’è nessun paese specifico, ma attraverso la lotta tradizionale e la lippa abbiamo una quindicina di regioni europee. Promuoviamo attività che non sono legate alle nazioni politiche ma tradizioni popolari che vengono prima della loro definizione.

Pensa che abbiamo reperti che fanno risalire la lippa al 2500 a.C., questo noi dobbiamo far risaltare, questi valori in grado di unire tutta l’umanità oggi che più che mai è facile separarla."

Grazie.

Ci vediamo al Tocatì, Salmoni!



Sockeye - L'ecovillaggio Cascina Albaterra

 

Intervista a Mattia Cacciatori

 

mattia cacciatori - ecovillaggio

Avevo già intervistato Mattia Cacciatori qualche anno fa, era stato arrestato in Turchia mentre fotografava gli scontri di Gezi Park, all’epoca avevamo parlato di rivolte e fotografia; un paio di settimane fa abbiamo invece parlato del suo ecovillaggio.

Appena sopra le colline di Soave, ora, Mattia vive servendo in una comunità e impiega le sue giornate per costruire qualcosa di grande, e qualcosa di buono, un ecovillaggio. Per adesso, le sue attività principali sono: mungere caprette, lavorare i campi e imparare dai contadini delle valli vicine tutto quello che può essere utile quando si decide di ritornare ad avere un rapporto concreto con la natura.

La storia del passaggio dai fotoreportage a questa nuova realtà è tutta in quest’intervista.

Appena incontro Mattia, in mezzo ad un vigneto, mi dice che dovrò pazientare un attimo perché deve recuperare un alveare.

“Vuoi aiutarmi?”

“Non credo… fai pure, poi parliamo”, rispondo, mentre rimango a debita distanza e fingo di fare una telefonata e di non poter essere disturbato.

Poco dopo, alla fresca ora del tramonto, Mattia mi fa accomodare sull’erba e iniziamo a chiacchierare, intensamente come sempre, come sono abituato a fare con lui in quasi dieci anni di amicizia.

In grassetto le mie domande.

La vera prima domanda, di cui abbiamo già parlato a lungo, è questa: perché abbandonare tutto? Perché mettere da parte un talento come il tuo, decidere di non raccontare più le storie di tutto il mondo, per decidere di fermare tutto e tornare alla natura, ai suoi ritmi e ai suoi segreti?

“Ho vissuto dentro il sistema informazione per molti anni, ed è un mondo che ad un certo punto non ho sentito più mio. Non riuscivo più a vederne la genuinità: per poter fare fotografia di reportage devi impegnarti a conoscere le persone giuste, andare nei posti giusti, vivere delle esperienze che ti cambiano profondamente e poi provare a vendere, letteralmente, le tue storie al miglior offerente. Come in tanti ambiti, anche lì, quasi tutto passa dalle relazioni e le conoscenze e dalla capacità di fare marketing su foto che rappresentano vite e sofferenze.

Molte delle storie che volevo raccontare non venivano valorizzate come avrei voluto. Ai magazine, ai giornali di tutto il mondo, interessano soltanto le cose più truci: andare in Siria per fotografare la vita di un clown è un’operazione dispendiosa e che non porterà a nessun interesse da parte degli editori, almeno fin quando quel clown non morirà. Se venisse ucciso la storia sarebbe vendibile.”

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 Non ti sentivi più a tuo agio nel vendere storie che parlavano di vite vere.

“Certo, a me è sempre interessato solo raccontare storie, e le mie storie venivano rovinate da necessità editoriali e dalla velocità del mondo dell’informazione. Così ho deciso di smettere.”

Qui il mondo è molto più lento, devo lavorare tanto ogni giorno, ma i ritmi sono diversi. Adoro produrre io stesso le cose che mangerò, e imparare pian piano a fare il miele, il formaggio e via dicendo.”

Però, conoscendoti, questa necessità di cambiamento, questa sensazione che nella società e nei suoi ritmi ci fosse qualcosa di radicalmente sbagliato da cambiare l’hai sempre avuta, già dall’università, questo lo capisco, una cosa però ancora non mi va giù: perché hai smesso di fare fotografie anche per conto tuo? Per te?

“Non ho abbandonato tutto decidendo di costruire un ecovillaggio, sono passato da una comunità prima. E questo si lega alle storie e alla fotografia: la macchina per me è un mezzo per fare foto e raccontare storie, cercavo in ogni momento qualcosa da narrare alle persone che mi stanno vicine. Ora che so chi sono io sento che non ho più bisogno di farlo, al posto di raccontare le storie posso cambiare dal di dentro le storie delle persone, anche se poter raccontare la vita degli altri rimane qualcosa di incredibile.

Quando sono entrato nella comunità ero accerchiato di persone che avevano dei bisogni concreti, persone che al posto di dire: “fammi una foto”, chiedevano: “devo andare al SERT, mi accompagni?”. E allora prendevo il furgone e andavo al SERT, e andava bene così. Mi sembrava fosse più giusto quello.”

 Raccontami di più, sulla comunità.

 “Avevo bisogno di rallentare, e di mettermi a disposizione del prossimo. Per il primo periodo non ho fatto altro che servire, fare tutto quello che mi veniva chiesto e che c’era bisogno di fare. Mi davano vitto e alloggio e in cambio mi hanno insegnato a vivere veramente insieme, dispensando e ricevendo amore come unica base dei rapporti umani.

Dopo un certo periodo ho pensato che sarebbe stato interessante fare il giro del mondo a piedi: ho trovato lavoro in un ostello a Capo Horn, ho cercato una barca per l’Antartide e iniziato a scalare montagne di quattro mila metri. Ma lì, con due turisti che mi accompagnavano, sul crinale della montagna, decido di abbandonare tutto e tornare a casa. Ero stufo di stare da solo, avevo appena scoperto cosa voleva dire stare con le persone, amare, nella comunità e volevo, dovevo tornarci.”

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Anche scalare da soli delle montagne è un ritorno alla natura, mi pare. Vorrei ripercorrere con te, brevemente, il sentiero che parte dal giro del mondo in solitudine e giunge fino al cercare di costruire un ecovillaggio. Di fondo è un sentiero che segue una sola grande direzione: il modo diverso di intrattenere un rapporto con la natura.

 “Il bivio fondamentale è stato la comunità. Tornare alla natura significa o chiudersi un eremo da soli, che è una scelta che condivido pienamente, oppure provare a creare una rete sociale, un ecovillaggio. Io, quando ero in comunità dovevo pensare non più solo per me stesso, ma per 17, 20 persone contemporaneamente. In quei momenti ho iniziato a pensare a come potessimo tutti insieme produrre da soli quello di cui avevamo bisogno. Mi sono chiesto come si fa la pasta, come si fa il formaggio, eccetera… ho trovato poi questa terra, e ho scoperto che forse la mia idea non era così utopica, forse tutto era possibile.”

Mi sembra di capire una cosa: hai iniziato a pensare all’ecovillaggio quando la tua necessità di ritorno alla natura si è fusa con l’idea che sarebbe stato meraviglioso tornarci in tanti, tornare insieme: più persone con più necessità, ma anche con più potenzialità. Io l’idea di ecovillaggio me la figuro così: un ritorno alla natura comunitario. Sbaglio?

“C’è molto altro, ma sì, l’idea di ecovillaggio è quella di un vero e proprio villaggio dove ognuno ha una casa, separata dalle altre, e crea una rete sociale e produttiva che riesce, più o meno, ad autosostenersi. A me piace definirlo così un ecovillaggio: un luogo dove le persone più disparate vivono in comunità intenzionali nel rispetto reciproco, nel rispetto dell’ambiente che le circonda e del contesto che le ospita

Poi, ovviamente, nessun ecovillaggio è uguale ad un altro: ogni gruppo va a sviluppare il modello di vita che più gli si confà. La filosofia di fondo è quella di cercar di vivere insieme, uscendo dal paradigma dello sfruttamento ed entrando in quello di prendersi cura.”

Ma questo non lo vedi, un po’, come un ritiro dalla società? Come un rifiuto di volerla cambiare per ritirarsi in un idillio dove tenere i problemi all’esterno?

“Per alcuni forse è così ma noi vogliamo fare qualcosa di diverso: noi abbiamo scelto di vivere nel tessuto sociale di cui facciamo parte, anche per questo siamo così vicini a Soave. Scegliamo di essere parte di questo mondo e non di fuggire, scegliamo di stare tra le persone e di regalare a chi vuole un luogo dove imparare a lavorare la terra, a fare il formaggio, ad avere a che fare con le api…

Noi vogliamo trovare un modo diverso per stare insieme, tutti, non per ritirarci in solitudine.”

Ma se io, domani, decido di costruire un ecovillaggio, non ho idea nemmeno dove iniziare a fare in modo di produrre qualcosa dalla terra. Come hai fatto tu?

“Subito è stato un dramma in effetti, mi hanno dato in mano la gallina e io ho cercato di capire dove avrebbe fatto l’uovo. Quando ho comprato delle capre sapevo che avrei fatto il latte, ma come si munge una capra? Come si nutre una capra perché faccia proprio il latte che vuoi tu?

Anche qui, la risposta la dà la comunità: ho iniziato a provare da solo, poi sono andato a prendermi il latte per fare il formaggio, ho iniziato a chiedere a questo e a quel contadino come facevano loro a risolvere gli stessi problemi che avevo io. Tutti sono stati gentilissimi e tutti mi hanno dato consigli essenziali. Già all’inizio, forse, mi sentivo parte di una comunità… oggi sono in grado di farmi il formaggio da solo, quasi un chilo al giorno. So portare le capre al pascolo, gestire le api, e molto altro… tutto questo studiando e parlando con chi prima di me e da sempre faceva questo lavoro.”

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Ok ma di queste cose tecniche io non ci capisco niente, ho bisogno di fare della filosofia, di capire cosa sta dietro a tutto questo: qual è, per te, lo scopo finale di tutto quello che stai provando a fare con Cascina Albaterra? E perché stai meglio ora che quando facevi foto?

 “Perché reputo che questo sia importante per me, ora. Preferisco alzarmi alla mattina alle sei e dover fare il latte, studiare e dover conoscere tutti i nomi delle piante – ti assicuro che è molto impegnativo – tutta questa consapevolezza di quello che prima mi sembrava non esistesse nemmeno, mi dà molto di più della macchinetta.

Lo scopo ultimo? Credo siano sempre e comunque le persone. Adoro vedere gente che viene a vedere, ad aiutare, ad imparare qualcosa. Vorrei insegnare alle persone a far entrare la natura nelle loro vite, anche piccole cose, non c’è bisogno di fare scelte radicali: che imparino a coltivarsi i pomodori nel poggiolo. Chi viene qui può liberamente imparare tutto quello che facciamo. Vorrei e vorremmo cambiare le vite a partire da questi piccoli gesti.”

Il 30 luglio Cascina Albaterra terrà una giornata di open day, in cui sarà possibile scoprire la realtà che sta divenendo. Vi consiglio di venire, noi di Salmon ci saremo di sicuro.

Perché?

Perché tutti abbiamo una vocazione e una necessità di ritorno alla natura, le gite in montagna, al mare, le immersioni al lago, le foto dei fiori, i tramonti che amiamo assaporare, tutti questi sono segni di questa necessità che riusciamo a sfogare solo a piccole dosi.

Due sono le strade che abbiamo per tornare all’essenzialità della terra: perderci dove finisce la società, oppure imparare a gestire e rispettare il crescere degli esseri viventi vegetali o animali dalla natura stessa. Imparare, o re-imparare, un sapere che l’umanità è stata costretta a creare nei secoli e che, grazie alla settorializzazione della società, ci siamo permessi di dimenticare.

Se sentiste la necessità di seguire questa seconda strada sappiate che ora avete una spalla su cui appoggiarvi, che si chiama Mattia e che si chiama Cascina Albaterra.

E, credo, non sono mai stato tanto vicino dal sentire fisicamente il brivido di una rivoluzione che ha inizio.

 



Sockeye: intervista a Zampa & Capstan

 

Ossia: La storia di due butei persi tra il nulla di una città di provincia e l’evoluzione mondiale dell’hip-hop: da genere underground ad eccellenza mainstream.

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Quando scrissi a Capstan chiedendo di organizzare un’intervista con lui e Zampa mi rispose che avrebbe chiesto a Zesh e mi avrebbe saputo dire a breve. Dopo qualche giorno di silenzio mi invia lo screenshot della risposta di Zampa, che recitava più o meno così:

“Vaccadì, lo spacchiamo di gotti il butel”

Non è andata molto diversamente.

Se vi dicessero di provare ad immaginare la casa di un rapper, molti di voi credo la immaginerebbero in questo modo. Provate quindi ad pensare alla mia reazione quando, varcata la porta di casa Zampini in una mite giornata di metà autunno, mi sono trovato in una stanza con delle immense finestre, inondate della limpida luce dell’aria tersa, che si affacciavano su un terrazzo da cui guardare a perdita d’occhio tutta Verona e i suoi campanili.

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Posate, bottiglie e bicchieri risplendevano dei raggi solari e l’aria della stanza era densa del profumo del risotto col tastasal. Vengo accolto da Zampa e la sua ragazza, che notando il mio sguardo fisso sulla padella del riso provano a risvegliarmi: “È la prima volta che proviamo a farlo, speriamo che venga bene”, e iniziamo a stappare la prima bottiglia di Valpolicella, brindando con lo stomaco vuoto al nostro imminente pranzo.

Ma prima di procedere forse è meglio che vi introduca a cosa ha significato il rap, e quindi questo pranzo, per me.

Ho iniziato ad ascoltare il rap nel giugno del 2004 – parlo di rap italiano, “non capivo quelli americani” (cit. Astio) -, relativamente tardi, forse. All’epoca non potevo informarmi sui social, ascoltavo quello che mi passavano gli amici e che riuscivo a trovare su WinMX. Ascoltare il rap era stata la mia e la nostra forma di ribellione al costituito, alla musica piatta che passava su MTV (tranne le Spice Girls, le Spice Girls spaccano) e a tutta quella musica che possiamo etichettare come musica di “ribellione” che si sentiva alle manifestazioni ma che mi sembrava anch’essa imposta.
Ad ascoltare il rap eravamo pochi, trovare i pezzi era difficile e il senso di una genuina, antagonista relazione con una musica che sentivi come un qualcosa di veramente tua cresceva giorno dopo giorno. In qualche mese ho iniziato a scrivere dei pezzi con degli amici e, poi, a registrarli. Ci sentivamo parte di una cultura che non ci era stata donata a scatola chiusa, e gli amici “che-sapevano-suonare-uno-strumento” ci deridevano continuamente, ma per loro suonare voleva dire fare le cover dei Nirvana, per noi perdere le notti a raccontare la nostra vita invece che piangere. Ci sentivamo, in modo infantile e stupido, addirittura migliori.

Gli artisti che si conoscevano – i più famosi – si contavano tra le dita di una mano e, almeno all’inizio, oltre ai vari milanesi Lord Bean, Bassi Maestro, Jack The Smoker, Asher Kuno e Club Dogo e i romani Cor Veleno e Colle der Fomento, mi avevano passato Zampa. In quel periodo avevo Zampa nel walkman e pochi altri in Italia.

In questa nicchia che era l’hip-hop e che ci eravamo creati Zampa era stato quindi uno dei primi protagonisti. Col tempo, conoscendolo, è diventato più umano ai miei occhi, tanto da diventare amico, ma mentre leggete l’intervista pensate che sono entrato in una sala da pranzo piena d’amici che quindici anni fa avrei potuto descrivere come un Olimpo.

In grassetto le mie domande.

Parliamo di rap, il rap ora in Italia è in cima a tutte le classifiche: è diventato un fenomeno capace di assorbire le caratteristiche della cultura pop, nel bene e nel male. Anche le persone che un tempo non sapevano – o non volevano sapere – cosa fosse l’hip-hop sono più o meno costrette ad ascoltarlo, se non altro per i tormentoni che passano i radio. Prima però era diverso, cosa significava, per voi, fare a Verona un tipo di musica proveniente da una realtà completamente diversa?

“Intanto finiamo ‘sta bottiglia”, comincia Capstan, “poi, noi attorno ai quattordici anni, anche prima forse, abbiamo iniziato a capire che la vita a Verona sarebbe stata sempre uguale: che tutto quello che avevamo fatto nel nostro tempo libero sarebbe stato tutto quello che avremmo fatto negli anni futuri. Che sbatti vecio! Da lì abbiamo iniziato ad appassionarci a qualcosa che raccontasse storie diverse, storie concrete e senza fronzoli, come non faceva nessun altro tipo di musica.

Poi è venuto naturale iniziare a raccontare di noi, raccontare il disagio di crescere – comune a tutte le persone, credo – e farlo in un modo che oltre ad essere efficace sembrava esso stesso renderci parte di un mondo unico e antagonista”.

Non notavate anche voi i rapper silenziosi nei bus al ritorno da scuola guardare fuori dal finestrino con delle cuffie enormi? Non era depressione, nemmeno disagio, era il guardare all’orizzonte di una musica che si estendeva a perdita d’occhio. Era provare ad intravedere l’ “America” – inteso nel senso mitologico del termine insegnato dai e ai nostri nonni – nella propria quotidianità.

Fare il rapper, mi ricordano questi due, era già una presa di posizione e di stile. Il contenuto di quel che dicevi era già vincolato dalla forma con cui avevi scelto di dirlo: “qualunque fosse l’importanza musicale e sociopolitica della scelta di fare hip-hop è ovvio che fosse lì solo per essere colta dagli altri rapper.” (D.F.W.)

“Sì noi ci mettevamo le mani addosso con i fighetti, poi erano molti più di noi quindi abbiamo iniziato a fare gruppo, a fare la musica assieme. Era proprio visto male l’hip-hop, noi abbiamo preso il rap e raccontato le nostre storie e da questo è scaturita una cosa bellissima: anche quelli che odiavano a prescindere il rap capivano che in realtà stavamo raccontando la nostra – e la loro – realtà, e allora si interessavano. Ancora abbiamo amici che non sanno niente di hip-hop e vengono a spingerci a quasi tutti i concerti”.

Dopo gli inizi è scattato qualcosa che vi ha fatto pensare ‘questa può diventare la nostra vita, con questa roba possiamo svoltare’, o non vi siete mai illusi a sufficienza? Ora spuntano video rap ogni giorno in Italia, ogni ragazzino – e ce ne sono di bravissimi – è in grado di arrivare ad una fetta vastissima di pubblico. Voi come ve la vivevate questa cosa?

“Ora vedo i butei avere un approccio strategico e quasi “commerciale” con la musica. Riescono ad arrivare in poco tempo dove noi non ci saremmo nemmeno sognati. Non li biasimo, anzi, solo che con noi era diverso. Con noi nessuno ti aveva detto che saresti potuto diventare famoso, non esisteva proprio come cosa. Anzi, per un certo tipo di mondo hip-hop diventare famoso sembrava essere un problema, diventare dei venduti, parte del sistema.

Ma forse è giusto così, non dico che oggi facciano male. Io credo che se le strade del successo fossero state visibili come oggi le avremmo percorse in egual modo. Di certo però, quello che ci ha dato questa musica è stato altro, più nascosto e radicale. La musica per me è una cosa magica, io voglio vivere e crescere con lei, e spesso mi secca doverne fare una “performance” – intendo doverne essere performativi per farsi vedere –, con i butei mi sentivo parte di un mondo più grande fatto di parole e speranza.

Volevo scrivere, scrivere in ogni modo e registrare i miei pezzi, punto. Poi non ti sarebbe venuto nemmeno in mente di “fare il personaggio”, perché lo scopo di quello che facevi era stare bene con gli amici raccontando le vostre storie.

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“Spiegati meglio”, chiedo a Zampa.

“La differenza tra ora e la nostra realtà è che allora se facevi il coglione ti sgamavano subito e ti escludevano dalla scena. C’era questa legge non scritta e potentissima dell’essere vero. Che ci sta come cosa ma non vedo perché un butel di Palù non possa fare un pezzo gangsta, che parla di droghe e odio razziale. Alla fine si tratta di creare qualcosa, fare arte. Certo, se poi ti immedesimi in quel personaggio e diventi finto come persona, questo è un altro discorso: è una cosa che è capitata non a poche persone effettivamente".

Per il resto, volevamo solo stare bene con qualcosa di fresh.

Questa frase finale l’ha aggiunta Capstan e se non avete mai conosciuto Capstan sappiate che è una di quelle persone che ha il grande pregio di poter essere riassunto in una definizione senza che per questo gli venga data un’etichetta approssimativa:

Capstan è quello che fa stare bene, e credo che si tolga il ruvido dentro con la musica.

Più o meno come il riso col tastasal che sto mangiando.

Ma, Zampa, ti faccio una macro domanda. Hai fatto vari album dal 2004, e sei cresciuto tu, hai 13 anni in più ora. Io amo trovare le costanti nelle variazioni. E la prima, immensa costante che vedo dal primo all’ultimo album è la foresta e i lupi. Tra Lupo Solitario a Il Richiamo Della Foresta cosa succede in mezzo?

“Si sente che sei sbronzo vecio, comunque, dopo Lupo Solitario ho fatto “Il Suono Per Resistere” e quell’album l’ho scritto in Inghilterra a Wolverhampton, nella periferia di Birmingham. Sono finito lì con il progetto Leonardo, Jack The Smoker mi ha dato un sacco di basi e sono fuggito al nord. A quelle canzoni sono molto legato, canzoni come Cade Giù o Un anno terribile

Paradossalmente faccio più facilmente live canzoni di Lupo Solitario, queste sono molto più introspettive.

Dopo Il suono per Resistere viene Bisanzio, vero?” anche lui è sbronzo “La lunga e tumultuosa via per Bisanzio è un magnifico e stranissimo esperimento, se lo ascolti – se lo ascolto – ritrovo strati e strati di ansia per un periodo molto difficile.

Di certo, se uno è bravo e mi conosce, dentro agli album ritrova tutto quello che ho vissuto e che, forse, abbiamo vissuto assieme.”

E ora? Ora, come tutti noi, lavori e hai poco tempo per scrivere. Da quanto stai suonando in giro e dal mood dell'ultimo album non dai di una persona che abbia finito la sua carriera musicale, anzi. Come gestisci musica e vita?

“Di certo ora o hai sfondato o fai dell’altro. Il segreto rimane cercare incessantemente di stare bene, che è la cosa più semplice, naturale, banale ma difficile del mondo. Ora avere riscontro mi interessa relativamente.

Con Il richiamo della Foresta ho, abbiamo, suonato in tutta Italia, e la cosa veramente bella è vedere ragazzini di quindici anni ai miei concerti, di fianco ai miei compagni di Liceo che mi vogliono ancora bene e ormai sono dei padri. Questa è la cosa più importante. Sento la necessità di parlare alle persone e dire ai miei amici le cose che penso sia importanti dire”.

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Parliamo di lupi e foreste, per favore.

“Vuoi lo scoop da Panorama? Lupo Solitario è una serie di libri-game che ho divorato da bambino, sono libri strutturati come giochi di ruolo dove decidevi cosa e venivi rimandato da una pagina all’altra a seconda delle scelte che facevi.

In generale, però, tutto parte dal romanzo di Jack London. Due libri fondamentali sono stati Zanna Bianca e Il Richiamo della Foresta, che è la storia di una cane che viene rapito e portato a fare combattimenti clandestini. Ad un certo punto scappa, va con un branco di lupi e lentamente, lì, riscopre l’istinto, l’attitudine alla vita selvaggia

Per me il richiamo è legato al rap, ovviamente, alla musica. E la foresta è il luogo da dove proviene questo richiamo, il luogo del tuo ambiente naturale, che forse, per me è il raccontare storie.”

Grazie.

È un richiamo, credo, che in ogni momento, nella quotidianità, ti ricorda che c’è qualcosa di più profondo e più viscerale al di sotto dei giorni che passano uguali, e questo richiamo è quello del raccontare storie che vadano in profondità nella linearità del tempo che passa.

È il richiamo della tua dimensione naturale, diversa da persona a persona. Per questo poi il disagio prima o dopo ci assale tutti, perché non è possibile e veritiero che tutti possiamo stare bene dove siamo capitati – dove le incombenze ci rapiscono in ogni momento -, lentamente sentiamo che la nostra natura è qualcos’altro, lentamente cresce dentro di noi la nostalgia per ogni nostra, singola, foresta.

P.S.: se cercate Zampa e Capstan li trovate a suonare in giro per l’Italia oppure, e vi consiglio l’esperienza, nelle peggiori osterie di Verona. Offritegli un gotto.

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.


Sockeye - Intervista agli Alban Fùam

 

Alban Fùam, in gaelico: festa di luce e suono.

Se siete mai stati in Irlanda, se avete mai imparato ad amare questa terra, capirete perché intervistare finalmente gli Alban Fùam sapeva riempirmi di una gioia paragonabile soltanto all’azzurro del cielo di quella fredda domenica invernale.

E voi, sapete tutto dell’Irlanda, no? È grande meno del doppio della Pianura Padana, conosciuta per lo più per la birra più famosa del mondo, la Guinness; ha colori che i nostri occhi non sono più abituati a vedere e della gente che è stata capace di sopportare una millenaria storia di repressioni e carestie. L’Irlanda è piccola ma ha orizzonti grandi, è un’isola ma conserva tutto il male e la bellezza del mondo. L’Irlanda ha esportato l’immaginario celtico e gotico in tutto il mondo, storie e fiabe di tutti quei paesaggi che consideriamo “incantati”, ma che lì esistono davvero. L’Irlanda ha una lingua tutta sua, ancora viva e capace di far risuonare tra la Dublino di LinkedIn, Google e eBay gli stessi suoni che uscivano dalla bocca di principi e guerrieri. L’Irlanda - madre di Joyce e Beckett, ma anche di Bono, a conferma che ogni epoca ha gli eroi che si merita -, conserva ancora l’eco delle bombe dell’ultima grande lotta tra cattolici e protestanti, tra i papisti e l’Inghilterra, tra – ancora – gli inglesi e i popoli da essi soggiogati.

L’essenza dell’Irlanda passa dall’oceano, dalle scogliere, dalle brughiere e, infine, dai pub. Più dei bar, più dei circoli, più delle osterie e le bocciofile…i pub - che tutti noi amiamo per l’ambiente folkloristico, per il legno e per l’odore di whisky – sono il cardine del filo immaginario su cui oscilla la storia di quest’isola. Dalle bombe, ai momenti di festa, dalle assemblee cittadine dei ribelli, ai primi tribunali appena accennati, i pub racchiudono tutto il male e il bene di questa terra. Ma soprattutto, i pub racchiudono la musica irlandese.

Una musica che attraversa le epoche e tutto quello che ho appena descritto, che parte dal 600, passa attraverso i canti di lotta e finisce sulla scena pop internazionale, senza tradire mai l’origine di antichissime ballate

In tutto questo, una mattina d’inverno, mi ritrovo a casa degli Alban Fùam, cinque ragazzi di San Giovanni Lupatoto che di tutta questa tradizione sono portatori e promotori: eredi veronesi figli del lato più entusiasmante della globalizzazione, che potremo chiamare multiculturalità.

La casa dove mi accolgono è una tipica villetta di provincia, che nulla ha a che fare con il legno e la struttura dei pub. Gli unici elementi estranianti sono una serie di strani strumenti sparsi sul divano del salone, strumenti così fuori luogo da sembrare esposti in un museo.

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Mi giro e vado verso la cucina, dove sta bollendo una padella con un risotto dentro (in queste mie interviste ho mangiato principalmente risotti, tutti buonissimi e tutti diversi).

“Buono! Cos’è?”

“Risotto con le zucchine…ma alla Guinness”, culture che si mischiano, dicevamo…

Alcuni membri degli Alban Fùam assomigliano effettivamente a degli irlandesi, mi siedo a tavola con l’intento di scoprire quale sia il legame profondo tra l’Irlanda e questi cinque, stranissimi, veronesi.

“Ale! Speta, porta la Guinness! Prendi la birra, portala qua…Salmon quindi, però non mangiate il salmòn, strano che nessuno abbia mai pensato!”, l’intervista per i primi dieci minuti la fanno loro.

Poi cerco di capire da dove vengono e dove stiano andando. In grassetto le mie domande.

“Prima di parlare del passato, parliamo del futuro, avete album in canna?”

“A brevissimo! A fine mese ci sarà il release party del nostro nuovo album, il 31 marzo a Casa Novarini, ci sarà un evento ad ingresso limitato.”

“Ma sarà un disco di cover come gli altri?”

“Qui la questione è complessa, non sono cover: sono canzoni tradizionali arrangiate nuovamente da noi. La base delle canzoni è una riproposizione di sonate e ritmi popolari molto antichi.

“Funziona come con gli standard jazz? Brani cardine scritti tra fine ‘800 e il 1900 e riarrangiati in varie versioni, è più o meno la stessa cosa, no?”

Sì sono canzoni del 1400 e del 1500, sono cinquecento anni che queste melodie vengono riproposte. L’equivalente in Italia sono le frottole e le villanelle popolari medievali, solo che quelle più di tanto non sono famose perché non son ballabili. Certo, ora l’influenza che sentirai nei nostri arrangiamenti è molto contemporanea. Ma questa pratica è molto comune anche in Irlanda.”

Mentre parliamo mi giunge un ottimo risotto, un risotto di zucchine appena più scuro del normale. E…sento la Guinness! Ogni morso è un viaggio andata e ritorno tra un piccolo pub di Galway e il riso col tastasal di mia mamma.

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“Ma voi quanto siete legati all’Irlanda?”

“Io e Davide”, parla Cecilia, la violinista “io e Davide torniamo molto spesso, per fare vari giretti e per farci ispirare. Lui è abituato fin da piccolo ad andare in Irlanda molto spesso. Noi, chi più e chi meno, siamo comunque legati all’isola, ovviamente. La prima volta che ci siamo andati assieme era scoppiato il vulcano in Islanda!

Lo vedi quel furgone rosso li fuori? Ci ha portato lui in Irlanda, tutti insieme. Svizzera, Francia e poi su, suonando qua e là. Siamo andati in questa cittadina per frequentare una scuola di musica. Dormivamo in tenda, quasi nel fango perché pioveva praticamente sempre, andavamo a scuola in taxi perché il furgone si era rotto e poi, la sera, ognuno aveva ancora le forze per trovarsi con tutti i musicisti fino alle quattro del mattino.

Ti devi immaginare stanze con più di venti persone che suonano tutti insieme, da bambini di dieci anni fino ai vecchi."

“Ma questa era una pratica comune o era legata alla scuola?”

“Il paese, vicino al fiume Shannon, in quella settimana di luglio triplica il numero degli abitanti. Tutti suonano e tutti stanno attorno alla musica, a suonare, ballare, bere ed ubriacarsi fino alle quattro.”

“Ho notato che – e voi ne siete la prova – a differenza delle canzoni popolari italiane, la musica tradizionale irlandese è suonata anche da giovani, no? In modi sempre nuovi ma con la stessa solennità dei loro padri, o dei pilastri di quella tradizione.”

“Sì tutti in Irlanda suonano, ascoltano o ballano quella musica. Poi, ovviamente, nei pub puoi trovare musica elettronica e nessuno è fisso esclusivamente su quel tipo di musica. Da cosa dipende? Forse da quanto ancora oggi la musica e l’ambiente che porta con sé impregna la quotidianità di tutti.

Poi conta che il governo da molti patrocini ai giovani per suonare all’estero.

Ma secondo me è perché la gente è più rilassata in generale…”

“Certo, non sembrano avere problemi…”

“Beh, calma, bisogna stare attenti alla mafia irlandese perché è cattiva. A mio papà hanno raccontato di un tizio che non voleva pagare e che è stato trovato crocifisso davanti a casa con dei coltelli.”

“Ah! Ma voi avete mai suonato in Irlanda?”

“Sì solo nei pub ma non ufficialmente. Devi essere molto bravo per suonare la loro musica lì, e non me la sentirei neanche io.”

“Voi siete le persone adatte per rispondere a questa domanda: perché l’Irlanda è così peculiare, amata e apprezzata in tutto il mondo anche più della Scozia, del Galles o dell’Inghilterra stessa?”

 “Non c’è una risposta univoca ovviamente. Siamo innamorati dei paesaggi, verdi e pieni di colline. Siamo innamorati della gente, le case, l’isolamento dell’essere un isola…”

“…cosa che la rende un cantuccio esistenziale, come tutte le isole. Il cibo?”

“Il cibo in Irlanda è buono! Il cibo è buonissimo e non è che non mangi, il difetto – comune a gran parte dei luoghi che non sono Italia – è che la varietà di cibo è poca. Dopo tre quattro giorni ti accorgi di mangiare sempre le stesse cose: il bacon a colazione (anche se per lo più è una trovata turistica ormai).

Ma l’Irlanda è un posto dove può capitarti tranquillamente di rincorrere le pecorelle nei prati – fatto veramente accaduto -, è un problema così grande il cibo?”

Mentre parliamo del problema del cibo giunge il dolce, e la violinista degli Alban Fùam, è famosa, per i dolci. Bevo l’ultimo sorso di Guinness e apparecchio mente e stomaco per ricevere l’unico dolce che veramente posso dire di amare: il tiramisù. Per l’occasione vedo due intere teglie di tiramisù alla nocciola, al primo morso mi ritrovo a pensare ad una sola cosa: potete rincorrere le pecorelle nei prati quanto volete.

“Affrontiamo l’argomento musica. In Italia c’è una scena “irish”?”

“Sì, ovviamente. Ma non è rinomata come in Germania o in altri paesi. Diciamo che ci sono tantissimi amanti del genere, tantissimi musicisti ma pochi gruppi. La scena c’è eh, se la domanda è quella, c’è anche un bellissimo festival, il festival di Monte Lago a Macerata, che è il più grande d’Italia ma più che altro è di musica celtica.”

“E qual è la differenza?”

“La musica celtica racchiude tutti i generi musical del nord Europa – derivante principalmente della Germania -  dalle ballate irlandesi alla musica bretone. E diciamo che questa varietà è un po’ penalizzante per amanti dell’irish music: a molti festival fanno musica anche molto pesa come dubstep celtico, rock pop e irish punk.

Di gruppi Irish ce ne sono pochi direi, e che fanno quello che facciamo noi – riarrangiare canzoni tradizionali – ancora meno.”

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“Capisco e voi, da dove venite? Come vi inserite in questa storia di cui abbiamo appena parlato?”

“Noi, come tanti, suonavamo cover dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd, ognuno per conto suo anche se siamo tutti di San Giovanni. Il cantante cantava in un coro lirico…poi abbiamo provato a fare qualcosa insieme e in quattro cinque anni di attività abbiamo raggiunto la formazione definitiva: prima eravamo solo strumentali e adesso abbiamo questa formazione da quattro anni, invece.

Negli ultimi due anni siamo cresciuti molto, abbiamo fatto sessantaquattro date l’anno scorso, tra Italia, Svizzera e Germania e anche quest’anno siamo a Brema ad un festival.

Una degli eventi in cui suoniamo più spesso, però, sono i matrimoni. Gli stranieri che si sposano qua amano avere la loro musica – gli irlandesi soprattutto – ma i gruppi irlandesi costano troppo.”

“E come sono i matrimoni irlandesi?”

“Molto, ma molto, ma molto tamarri”.

È stato strano, molto strano, finire l’intervista agli Alban Fùam con la parola tamarri. Non sembra c'entrare niente con tutto il resto della storia che mi hanno raccontato. Quel che più mi ha emozionato di loro, però, a parte il tiramisù, è che siano riusciti a trovare un posto ufficiale nella storia mondiale della musica irlandese.

Il loro ultimo album, infatti, è stato inserito nell’archivio di Dublino di musica irlandese. E pensare che un chitarrista, due violinisti, un batterista e un cantante di San Giovanni, nati a pochi chilometri da casa mia, siano entrati ufficialmente in questa tradizione mi fa sentire più vicino all’isola che amo, agli abitanti d’Irlanda e alla loro storia: gli Alban Fùam ai loro concerti portano l’Irlanda da voi.

E anche dovessi essere a Dublino, un giorno, saprei che nell’archivio di musica irlandese ci sarebbe un pezzo di Verona e potrei sentirmi a casa.

Che altro di grande può fare la musica?

Ricetta per il tiramisù alla nocciola

Ingredienti
500gr di mascarpone
5 cucchiai zucchero
5 uova
Sale, un pizzico
Pavesini al cioccolato qb
Pasta di nocciole qb
Caffe qb
Cacao in polvere qb

Preparazione
In un terrina capiente separare gli albumi dai tuorli e, in questi ultimi, aggiungere lo zucchero e sbattere bene con l’apposito frullino fino ad ottenere una sottile crema. Incorporare delicatamente dal basso verso l’alto 2 o 3 cucchiai di pasta di nocciole a piacere,
montare a neve gli albumi a cui avrete aggiunto un pizzico di sale: unirvi crema mascarpone.

Preparate il caffé, versatelo in un piatto fondo, addolcitelo con poco zucchero (i pavesini sono già abbastanza dolci), e lasciatelo raffreddare. Coprite il fondo di uno stampo rettangolare con i pavesini bagnati leggermente nel caffé, successivamente adagiate uno strato di crema continuando ad alterare i due ingredienti fino al riempimento della pentola. Terminate con la crema, spoverare la terrina con cacao e mettetela in frigorifero per almeno un paio d’ore prima di servirlo. mangiate e gustate!

 

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.


Sockeye - Intervista a Cibo

 

Non giocare con il cibo, disegnalo!

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Gli antichi classificavano le varie arti in una scala di valori basata su quanto ognuna di esse fosse vincolata alla forza di gravità: dall’architettura, arte minore, alla musica, suprema arte fatta di suoni impalpabili nell’etere. In mezzo a questi antipodi variano pittura e scultura: l’equilibrio del legno e lo spray che cola a terra dal muro di un writer. Non avevo mai capito a fondo le implicazioni di questo concetto fino a quando, parlando di case con Cibo, non ho confrontato la sua grande taverna con le abitazioni che mi hanno ospitato nelle interviste precedenti, soprattutto con la piccola abitazione del maestro d’orchestra Andrea Battistoni.

“La realtà è che fare musica non ti occupa tutto lo spazio che serve a me.”

Tra tavoli, tele, bombolette, e strani strumenti, capisco che sarà una giornata illuminante. .

Di Cibo conosco quel che ho trovato sulla pagina Facebook, ho visto varie opere in giro per la città, ma non avevo idea che quelle fossero solo la punta di un iceberg le cui fondamenta vanno ricercate in vent’anni di dedizione, tantissimi progetti intrapresi e una continua ricerca di portare l’arte alla gente che non può permettersela, fuori dalle gallerie, per la strada.

In grassetto le mie domande.

 “Non pensavo, Cibo, che questo per te fosse un lavoro…credevo che facessi altro nella vita. Hai sempre vissuto d’arte o è un progetto recente?”

 “La mia educazione artistica mi ha portato fin da subito verso lavori “creativi”, ance ho sempre cercato di rimanere a lavorare nell’ambito della ristorazione: dalla cucina, alla sala, dal banco bar, al banco freschi al supermercato. Poi tutto si è fuso, ho tenuto dei blog di enogastromia che mi hanno portato a lavorare per riviste di cucina nazionali e a farmi conoscere direttamente i produttori andando presso le loro sedi.

I miei pezzi sono comparsi a Verona circa sei anni fa anche se è dal lontano 1997 che sono sui muri, io faccio parte della seconda generazione di writer, quella dopo gli audaci sperimentatori e prima della mercificazione. Cibo in realtà per me è solo un progetto tra i tanti, ma è forse quello meglio compreso.”

“Cosa vuol dire seconda generazione di writer? Ne esiste una terza?”

“Sono venute a mancare le condizioni per averne una terza con i dovuti valori propri della strada. Con gli arresti dell’inchiesta “Valpantena writers” si è perso il ricambio generazionale e questo gap ha portato la nuova generazione ad essere più “bomber” che artista. Perciò gli sbirri hanno fatto quasi danni maggiori, prendendo a caso i butei, anche perchè non sono stati i colpevoli a pagare. I rimasti si sono un po’ vendicati - e come dargli torto - la repressione crea terroristi artistici. Io fortunatamente ero in esilio! Ora sta tornando un po’ di scena e vedo gente che ci tiene, che ha slancio, e ciò mi fa ben sperare”

La nostra conversazione si interrompe con l’arrivo in tavola di un risotto dal gusto amarognolo ma buonissimo, alzo lo sguardo e vedo Cibo che mi osserva minaccioso, da vicino:

“Guarda che mi son punto le mani a raccogliere i bruscansi nei campi, ma sentirai che gusto!”

Quando non disegna, Cibo, potete trovarlo a far digging di erbe spontanee e zucche lasciate nei campi dai contadini.

 “Stavamo parlando delle nuove generazioni di writer…”

“Io non sono nato e non sono mai stato un writer legato al mondo hip-hop, non ho mai capito la tega delle tag: per me un’opera dev’essere riconoscibile per tutti, perché dare un messaggio incomprensibile al lettore?”

 “Nel mondo hip-hop credo derivi da quando le tag sui muri delimitavano quartieri controllati da questa o quella gang; o sfide tra writer a chi aveva più tag di altri e in posti più strani. È un sistema codificato di comunicazione urbana, che gioca sul fatto di essere estremamente visibile e estremamente criptato allo stesso tempo”.

Poi a Verona, non è famosa per formare nuovi artisti, non è un ambiente stimolante, anche perché sui muri vedo molte opere che sono una disperazione, non frutto di una pulsione, propria dell'arte, ma di mero guadagno o pigra ribellione. Non c'è sfida, non c'è ricerca stilistica e soprattutto non c'è un cazzo da dire.

La street art a verona è in ancora in fase embrionale e tocca a noi l'onere e l'onore di formarla, ma non stiamo andando nella direzione corretta, a mio dire. Non è una risposta al grigio, è una domanda colorata!

Le istituzioni non capiscono, e la burocrazia regna. Per dire: se un negoziante domani si sveglia e si sente mecenate, forse deve pagare tasse pubblicitarie per un’opera d'arte, già un ossimoro, e le deve pagare perché un omuncolo privato che lavora in esclusiva per il comune prende un obolo per ogni sanzione emessa... Allora, io capisco tutto, paghi il logo, ma il disegno no! Ovvio che un pasticcere vuole una pastina, e ovvio che lo fa per il bello del suo edificio, ma lo fa anche per il senso civico, per dare adito ad un artista, perché semplicemente gli va. Cioè non pretendo che sia incentivata, ma almeno compresa, quello si! Dobbiamo batterci tutti noi artisti per un mondo meno noioso, e privo da dogmi.

 “Poi, come in tanti altri ambiti underground, entrare in questo tipo di mondo vuol dire accettare questo tipo di regole, no? Vuol dire far parte di un sistema con dei valori precisi, delle direzioni da seguire e dei rapporti che valgono ben più delle leggi dello stato.”

 “Si la strada ha le sue regole e molto spesso il torto subito viene sanato anche in maniera creativa. Io non ho mai seguito la scena, ma ho riconosciuto le regole.
Il problema dei writers è che pur essendo dei grandi comunicatori hanno degli enormi problemi di comunicazione: non si capiscono, si perdono in discussioni infinite ed inutili per poi litigare.
Non comprendono il loro potere e la loro responsabilità civica, un'opera rimarrà in strada per anni se non decenni, nonostante sia effimera per natura, e nostra è la responsabilità di dare al panorama urbano una nuova veste. Non sarebbe la prima volta che cancello personalmente un mio disegno perché a mio avviso non convincente. Poi i giovani devono essere più audaci, sperimentare, anche combinar cagate se utili a capire, ma vedo che la ricerca stilistica, il sentirsi unico e riconoscibile, viene meno, eppure è la caratteristica principe di ogni artista.

E poi c’è l’ego che chiama. Ogni writer in fondo al suo cuore vuole che tutti sappiano chi è che gli si porti sconfinato rispetto, altrimenti perchè scrivere il proprio nome... il problema di tutti i furbi: non resistono alla tentazione di far sapere che sono furbi, ma questa è filosofia spiccia”

A questo punto ci avviciniamo alla battaglia più interessante di Cibo: la battaglia contro le scritte di Forza Nuova sui muri. Cosa significa scrivere frasi fasciste in giro per la città? Credo siano l’emblema di tutto quel che abbiamo detto fino ad ora riguardo alla mancanza di cultura: da una parte, scrivere DVX, TITO BOIA o disegnare una svastica vuol dire avviare un processo di abbruttimento estetico della propria città, dei luoghi pubblici e visibili. È un atto di vandalismo che, secondo punto, inneggia ad un sistema di pensiero che se attuato politicamente – in nome della Nazione, dello spirito estetico e dell’ordine – condannerebbe quel gesto stesso in modo più radicale di qualsiasi altro regime.

“Bhe sia chiaro, a me di politica non frega un cazzo, copro anche i CARLO VIVE e soprattutto i TI AMO, quelli sono i peggiori, slanci di “creatività” che rappresentano sentimenti morenti.

Battaglia? Scaramucce da bontemponi! Innanzi tutto odio lo sporco e il disordine, quelle scritte sono oggettivamente brutte. Inoltre sono fatte da persone che non hanno cultura, ne ho più io sul argomento. Esempio: chi ha scritto TITO BOIA, secondo voi chi lo ha scritto aveva chiara la situazione dei Balcani ai tempi di Tito?  Sono dei poveretti con l'hobby per il nazionalsocialismo, quello tenero, quello delle frasi fatte da circolo combattenti e del “crediamo in qualcosa che altrimenti devo parlare dei compiti di scuola”.

Poi c'è da dire che sono parte di una performance artistica molto divertente ed utile. Se sapessero che con il loro rovinarmi i murales mi hanno donato per l'indignazione più di un terzo dei followers e che è solo grazie a loro che mi chiamano a sistemare altrettante scritte, molto probabilmente non avrebbero mai proseguito una guerra impari. Senza contare il fatto che per loro è controproducente, rovini un parco giochi per i bambini?!... è cattiva pubblicità per il loro movimento sociale. Però se avessero risposto sul muro in maniera adeguata, sarebbe stato anche interessante e la loro causa poteva sembrare anche meritevole di rispetto, ma così son strilli da cortile.”

“Loro hanno scritto TITO BOIA e tu hai fatto un wurstel. Questa frase è poesia”

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“La vera poesia è che sono tornati a riscriverlo, ed io ho aggiunto la salsa sulla scritta... te l'ho detto, per me è solo un assist, e sappi solo che non è la prima e non sarà l'ultima, e ti dico solo che è sempre finita con mie grasse risate. A livello mediatico perderanno sempre con noi writers, abbiamo creatività, mezzi e determinazione, loro hanno solo il branco e una bomboletta da ferramenta.

Comunque non c'è odio, ma compassione, con il nuovo anno ho resettato tutto e per me è pace.

- non sono cattiva, è che mi disegnano così (cit.) -”.

Ricapitolando: quelli di Forza Nuova ce l’hanno con i writer, di fondo, perché i writer sono promotori di libero pensiero, e manifestano quest’odio imbrattando i muri, cioè trasformandosi in writer della peggior specie.

Ciò che mi lascia tranquillo è che Cibo esiste, ha vinto, e vincerà sempre contro tutto questo.

“Ma quanto tempo ti occupa disegnare cibo, Cibo?”

“Beh è comunque il mio lavoro. A parte le cose che faccio gratis, in giro, ho collaborato con vari enti privati. L’importante è che quello che ti senti di rappresentare sia arte e che racconti una storia, non semplice decorazione, l’importante è che quest’arte ti porti a farti delle domande, non che abbellisca in modo sterile il luogo dove vivi.”

A questo punto, in misura molto maggiore e con un grado d’intensità ben più elevato, scopro che Cibo attua la mia stessa strategia, come pagamento dei suoi pezzi: come me, che vado a pranzo dalle persone che intervisto, Cibo si fa pagare in alimenti. E mai, mai come in quel momento davanti a quel piatto di riso con i bruscansi, ho trovato nel mondo reale una così forte incarnazione di una frase di “La Collina” di De André da farmi sorridere senza che i miei ospiti capissero fino in fondo perché.

“Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore, tu che lo vendi, che cosa ti compri di migliore?”

Cibo disegna cibo e si fa pagare (in parte) in cibo, perché tanto, con i soldi, null’altro gli interesserebbe così tanto quanto mangiare bene.

“Pensa se mi chiamassi Braghette avrei un armadio pieno di solo pantaloni! [LOL ndr]. La cosa che mi interessa di più al mondo è mangiare bene. Ho anche rifiutato dei lavori perché il cibo che mi offrivano mi faceva schifo, o perché la filosofia aziendale non era conforme a quello che vorrei io da una azienda agricola, o da un ristorante, ma per fortuna a Verona di solito mi va bene, perché Verona è rurale e il territorio è una risorsa.

“Fammi fare della filosofia, per favore.”

“Eccolo…”

“Ahah, dai. L’arte contemporanea si è fondata sul togliere agli oggetti comuni il loro grado di usabilità oggettuale per renderli immagine, per innalzarli alla loro forma più pura in un museo, senza nient’altro attorno. Dal water di Duchamp in poi…l’opera non è più rappresentazione della realtà ma un tentativo di mostrare la realtà nella sua forma assoluta. Tu mi metti in crisi con le tue opere, perché anche tu astrai dalla realtà ma il luogo dove disegni l’oggetto astratto è il luogo stesso dove l’oggetto esiste: penso agli asparagi. Non porti gli oggetti in un museo ma è come se con le tue opere marchiassi a fuoco sul muro una realtà nascosta perché troppo visibile, troppo comune, troppo abitudinaria.”

 “Sì il bello della street art è che ha senso solo in quel luogo e in quel momento preciso, non la puoi strappare dalla sua realtà e portarla in un museo. Non ha senso fare un murales dell’11 settembre a Belfiore, oggi. Il Cibo sta lì perché è lì che deve stare. E deve tornare a farci vedere qualcosa a cui siamo abituati, deve farci fare delle domande. Domande su un problema del cibo che deve andare oltre all’Expo e oltre a Farinetti… E l’altro lato bello è che le persone sono costrette a vedere i miei pezzi, in un certo senso faccio una violenza visiva e gli impongo un pensiero o un sorriso.”

“Certo, e soprattutto, come hai detto all’antipasto – credo – hai una grossa responsabilità: la gente che va nelle gallerie d’arte è educata e compie un gesto volontario, mentre tu devi arrivare ad ogni passante, anche alla signora Maria che va a prendere il pane la mattina.

 Vorresti lavorare in una galleria d’arte?”

 “Mi darebbe molti stimoli, certo, ma probabilmente lo farei solo per i soldi. Sai con i soldi che mi darebbero là cosa potrei fare? Alla fin fine io voglio guadagnare per mangiar bene e per poter comprarmi nuova attrezzatura con la quale fare opere gratis: come sto facendo negli asili (mi faccio pagare mangiando con i bambini in seggioline minuscole) e in una cooperativa sociale per i malati di mente. Se non porti l’arte a queste persone a cosa serve? Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, rimediamo, no? ”

“Ma è tutto illegale, quel che vediamo in giro? Non rischi nulla?”

“Io vado nei luoghi vestito di arancione in pieno giorno, ed inizio a dare una mano di bianco. A quel punto i vecchiotti – perché ho coperto le tag o le svastiche sottostanti – mi dicono: “Brao giovane!”, pensando che io sia del comune, ma già cancellandogli le scritte gli stai simpatico. Poi inizio lentamente a disegnare e, di solito, ho trovato gente felicemente incuriosita.

  • Eh salve! Ghe piase el formaio? Belo belo giovane, almanco che lo veda visto che non posso maiarlo! –

Evito di dar fastidio comunque, a meno che il posto non si a ghiotto. Vado in posti abbandonati o rovinati, a volte mi informo sulla proprietà dell'immobile, proprietari sciatti lasceranno in rovina lo stabile e il mio disegno forse sopravvivrà!

“E non hai paura che succeda qualcosa di questo tipo?”

NEW YORK TIMES

“Bah, arrestato è una parola grossa. Non faccio niente di male…anche se potrei giocarmela bene in termini di pubblicità. In carcere però se la dovrebbero metter via eh, disegno anche col sangue: “non sono io che son chiuso dentro siete voi che siete chiusi fuori”. In prigione avrei una stanza con 5 superfici…non so se gli convenga!”

Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, mi ha detto Cibo. Scoprendo come lavora e il progetto che sta portando avanti mi ha riempito la testa e il cuore di speranza. E io, che il cibo lo amo, che odio il fascismo e l’elitarismo, ho ritrovato in questo artista un tentativo di fare qualcosa di veramente concreto per le persone e per l’arte. Con lo stomaco pieno dell’amaro dei bruscansi e della grappa – sempre ai bruscansi – torno verso casa trattenendo in me una nuova definizione della parola americana “real” – nel senso di autentico -  e della parola “giusto”.

Grazie.

 

Risotto coi Bruscansi, il germoglio primaverile del pungitopo:

Scritta da Cibo:

"Amaramente racconto tra le mille spine della Val Galina, cotto e ricoverato in freezer assieme alla sua acqua di cottura utilizzata poi per il brodo. Un Risotto come vostra madre comanda:

soffriggi lo scalogno, tosta il riso, aggiungi i bruscansi, sfuma con vino bianco, cucina il riso con la giusta quantità di brodo, manteca con burro, "formaggia", controlla il sale e impiatta. Per Il digestivo, i medesimi bruscansi messi a dimora nella grappa, accompagnano il caffè e il dolce. Per concludere la giornata in maniera coerente, Murales a tema asparagi, i "parenti da aia" dei bruscansi. Inutile dire che tutti i prodotti arrivano da luoghi che posso osservare con un binocolo, tranne il burro che amo quello chiarificato tedesco da allevamenti sostenibili il cui latte è munto solo per fare burro."

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.