Il primo corteo antirazzista d’Italia

Civitanova Marche 06.08.2022: il primo corteo antirazzista d’Italia

Sabato 6 agosto, insieme ad altre centinaia di persone provenienti da tutta Italia sono stato a Civitanova Marche per commemorare Alika Ogorchukwu e denunciare il razzismo sistemico alla base del suo assassinio.
L’intenzione era quella di scrivere una sorta di reportage della manifestazione, ma la complessità di quello che è accaduto avrebbe richiesto tempi di elaborazione ben più lunghi per evitare racconti sterili o parziali. Ciò che ho potuto fare invece è stato riflettere sul mio ruolo di bianco, antirazzista, che forse, sabato ha partecipato al suo primo corteo antirazzista in Italia. Eppure di manifestazioni antirazziste ne ho fatte tante. Cosa è cambiato sabato? Certo, forse per la prima volta in Italia l’organizzazione e la conduzione di una manifestazione nazionale antirazzista è stata portata avanti completamente da persone razzializzate. Ma non è solo questo il motivo.

Sabato, per la prima volta, ho potuto davvero riflettere sul mio ruolo di “alleato” nell’antirazzismo. Il termine “alleato” ha tante declinazioni antropologiche e politiche nella storia dell’antirazzismo. Una di queste, credo sia molto importante in questi giorni per chi, da bianco, si occupa di antirazzismo. Questo termine è “straniero”, una parola che al netto dei suoi usi impropri e stigmatizzanti dell’ultimo periodo, ha un potenziale politico e di azione potentissimo.

"Civitanova mi ha offerto l’occasione per rendermi conto del privilegio e della responsabilità che deriva dal mio essere “straniero” rispetto all’antirazzismo."

Ma soprattutto la giornata di ieri ha avuto una funzione pedagogica fondamentale: le persone che ho conosciuto, quello che è successo, quello che ho visto mi han dato degli strumenti fondamentali per capire e agire a partire dalla mia condizione di nella lotta antirazzista.
Ad esempio, alla fine del corteo che ha attraversato le strade di Civitanova, proprio davanti al luogo dell’assassinio, è partita una canzone di Tommy Kuti, un rapper afroitaliano. Il pezzo è stato composto in 24 ore, subito dopo la morte di Alika e il ritornello della canzone diceva: “poteva essere mio padre”. Negli interventi ma anche nelle chiacchierate con chi c’era alla manifestazione c’è stato un continuo richiamo a genitori e ai parenti. Una modalità per esprimere dolore, sofferenza, paura ma anche per costruire un rapporto intergenerazionale negato dalla società: abbandonare la propria famiglia, i suoi valori, la sua lingua, la sua cultura come ha detto una partecipante al corteo, pare essere necessario per diventare “italiani”. Io rispetto a questo sono “straniero” perché durante tutta la manifestazione questi pensieri non mi hanno mai sfiorato.

Un ulteriore esempio: un ragazzo di origine nigeriana, conosciuto nel pullman che da Verona ci ha portato a Civitanova, ha detto che nei giorni scorsi non riusciva più a lavorare, aveva perso appetito e si sentiva depresso. Non riusciva a smettere di pensare a quanto successo ad Alika. Molte delle persone con cui ho parlato durante il corteo mi hanno detto la stessa cosa. Erano ossessionate da quanto successo. Io rispetto a questo ero “straniero”. Provavo rabbia e vergogna per quanto accaduto ma la mia vita privata e la mia salute non sono state intaccate.

Infine ho visto tante persone razzializzate piangere, abbracciarsi, sostenersi a vicenda. Ma anche provare rabbia, elaborare, cercare un senso a ciò che è accaduto. Tra chi è intervenuto c’erano persone che non avevano mai parlato in pubblico che hanno tirato fuori una forza impressionante superando ansie e paure. L’incontro di ieri non è stata una semplice manifestazione ma un vero e proprio rituale collettivo per dare una forma a un dolore lancinante e che si ripropone quotidianamente per i soggetti razzializzati. Un rituale di elaborazione del dolore attraverso la rabbia, la protesta, la proposta politica. Io in quello spazio ero “straniero”. Le dinamiche che hanno mosso la mia partecipazione erano civiche, politiche, sociali ma la mia carne non era coinvolta in ciò che è successo.

"L’essere “straniero” nelle questioni riguardanti l’antirazzismo è sicuramente la forma di privilegio bianco più chiara che si portano addosso quelli come me."

Ma è proprio a partire dal riconoscere questo privilegio che si può e deve costruire un posizionamento. Straniero difatti non vuol dire estraneo. Se la vita delle persone bianche non è stata direzionata, informata, decisa dalle strutture del razzismo sistemico, questi da “stranieri” possono tuttavia riconoscerle e combatterle. E se il razzismo è un fenomeno che riguarda tutta la società agisce in forma diversa sulle persone. E se dolore, rabbia, rivendicazione possono essere parole che muovono tutte e tutti coloro che si dichiarano antirazzisti nella pratica dovrebbero essere termini quali “empatia”, “compartecipazione”, “cura”, “aiuto” a muovere chi il razzismo non lo vive sulla carne.

Questo è ciò che è successo a Civitanova, nel primo corteo antirazzista della mia vita. Ma a Civitanova ho capito anche un’altra cosa che riguarda chi da bianco si occupa di antirazzismo: una persona, un movimento, un’istituzione retta da persone bianche non può arrogarsi la pretesa di determinare cosa sia razzista e cosa non lo sia. Nei giorni precedenti alla manifestazione il sindaco di fratelli d’Italia si sbracciava a dire che la morte di Alika non fosse dovuta al razzismo. Ma non era l’unico: anche tanti “compagni”, in primis dalle Marche (ma non solo), di solito in prima linea contro le ingiustizie sociali, hanno preso posizioni ambigue e paternaliste per marcare una distanza rispetto alla posizione del coordinamento antirazzista nazionale. E, nei fatti, a parte alcune significative eccezioni, hanno disertato la piazza.
Mobilitarsi per il razzismo soltanto quando dietro ci sono croci celtiche o iscrizioni in partiti di estrema destra è una scelta (miope) che, seppure dice tanto su chi la compie, è legittima. Sentirsi in diritto di definire modi e modelli per cambiare l’ordine delle cose sulla pelle di chi l’ineguaglianza la vive è un retaggio culturale di un certo modo di fare politica che risulta invece insostenibile.

Se ieri si è inaugurato una nuova forma di antirazzismo in Italia è necessario per i movimenti che si dicono “alleati” apprendere la loro condizione di “stranieri”. Altrimenti, come ieri, ha più senso che restino “estranei”.

Giuseppe Grimaldi, Ph.D
Research Fellow in Cultural Anthropology


Vendo biglietti per Giudi & Quani

 

Lo scorso weekend è stato un momento tanto atteso quanto snobbato da ogni salmone amante della musica. Contraddistinto da compra-vendite online di biglietti, un caldo che nemmeno gli altiforni di Murano e l'angoscia dovuta ad un temuto attacco terroristico sventato dagli impeccabili omini con il giubbotto catarifrangente, l'I-Days di Monza è stato un tripudio di emozioni.

Un discorso a parte merita la distanza da percorrere dall'entrata del parco all'effettivo ingresso del festival: credo che se ci fossero stati veramente degli attentatori a metà strada si sarebbero fatti saltare piuttosto che dover camminare così tanto. Tre chilometri a piedi sotto il sole cocente, autobus carichi di persone da far invidia ai peggiori treni di Nuova Delhi, bagarini che tentavano di appioppare gli ultimi biglietti rimasti invenduti, vucumprà abusivi che gridavano “COCCOBBELLO COCCOFRESCO”… sembrava di essere i protagonisti di un documentario di National Geographic Channel. “Ed ecco l'uomo, mammifero seminomade del Borneo Meridionale, che migra verso il suo luogo di ritrovo.”

Idiozie a parte, non sono mancati i grupponi: tra le grandi star internazionali che hanno calcato il palco del festival ci sono stati Rancid, James Blake e Radiohead. Gli altri è meglio non ricordarli... Ad accompagnare i colossi da big money, con grande sorpresa, ho scoperto che ghe n'era anca una de Verona: parlo del duo soul-punk Giudi & Quani, formato da Giuditta Cestari, batteria e voce, e Francesco Quanili, alla chitarra e voce.

Avevo già avuto il piacere di sentirli all'opera in occasione della festa universitaria di Santa Marta rimanendo piacevolmente colpito dal loro brio e tecnica. Strabiliante è il modo in cui Giuditta riesce a suonare la batteria e cantare contemporaneamente. A coronare la performance tecnica ci pensa la sua voce roca e graffiante, tipica del blues sporco e del rock acido anni '90. Francesco è un ottimo chitarrista: le sue esecuzioni sono impeccabili ed il suono della sua chitarra è impastato e fuzzoso al punto giusto.

Il duo veronese ha fatto vedere i sorci verdi a tutti quelli che pensavano che gli head-liner della serata sarebbero stati Thom Yorke e la sua cricca i quali, dopo aver suonato Fake Plastic Trees, Creep e Karma Police una dietro l'altra, avrebbero meritato solo sassi e sputi.

Pochi giorni dopo il festival scrivo a Giuditta per incontrarci in Piazza delle Erbe e dirigerci in un baretto. Seduti al tavolino, iniziamo la ciacolata:

“Da quanto suonate assieme?”

“Da un anno e mezzo. Entrambi suoniamo da tanto tempo: lui suona nei Masons e in una tribute band dei Pink Floyd, i Divisionband. Io arrivo da parecchi anni di rock'n'roll; suonavo in una band chiamata Best Before End e contemporaneamente porto avanti un gruppo chiamato Lord Byron e le sue Amiche Ruspe. Adesso abbiamo questo progetto che ci sta prendendo bene, ci divertiamo.”

“Com'è la formazione a due?”

“Beh, è una sfida: devi riuscire a creare l'energia anche per i componenti che mancano. E a me piacciono le sfide.”

“Mi ricordate molto i White Stripes.”

“Francesco è un grande fan di Jack White!”

“Fate solo cover?”

“No, abbiamo anche pezzi nostri: in autunno vorremo registrare, avere un album nostro con le nostre canzoni. Non sappiamo dove lo registreremo, ma le idee ci sono.”

A Giuditta piacciono le sfide, lo skateboard, il punk e la musica soul. Se volete saperne di più sul suo conto, sui loro concerti e progetti futuri vi consiglio di ascoltare l'intervista audio nel player qui sotto.

 

Se invece volete saperne di più sul mio conto, andate nel bagno della stazione di Porta Vescovo: il numero in alto a destra con su scritto “Manolo” è il mio.

Con affetto,

Salmonello


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La rubrica di Salmon che parla DI, AL e CON quello strano organo pulsante che sta tra le branchie e la vescica natatoria e spesso confonde le acque limpide del mare interiore.

Da pinna a pinna, da branchia a branchia,

sempre Vostra

Salmona Pastura

salmonapastura@gmail.com

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Proprio tre giorni fa, nuotando intorno all’isola di Albarella in cerca di qualche VIP da paparazzare, ho incontrato per caso la mia vecchia amica Ludmilla, una sirena dai capelli rossi che credo Voi Salmoni e Salmone di terra siate abituati a chiamare Ariel. Non so se ricordate la sua storia, ve la faccio breve:
in gioventù la ragazza era parecchio indisciplinata e - contravvenendo alla logica e ai divieti del padre- scese a patti con la peggior cattiva di tutti i mari, barattando la sua voce per un paio di gambe che le avrebbero concesso un giretto sulla terraferma.

 

01_hate legs - Copia

 

Ed è proprio questo il punto interessante.
Ariel è scesa a patti, ha fatto un compromesso in cui ha rinunciato a se stessa in nome di una curiosità, di un capriccio. Poi a Lei è andata bene, per carità, ma se non fosse sempre come nella “versione Disney” delle cose?
Ora, seriamente, parliamone fuor di metafora come è uso tra umani adulti.
Quante volte siamo scesi a compromessi con qualcun* o con noi stessi?
Io credo sia capitato a tutti.

Ve lo dirò chiaramente: nella vita bisogna sudarsi (quasi) tutto e la nobile arte del mercanteggiare vale ed è sacrosanta anche nei rapporti umani, ma compromettersi e “morire a sé stessi” mai. Quindi, se si tratta di andarlo a vedere la domenica al derby con il Porto San Pancrazio o di accompagnarla da Zara in via Mazzini il sabato pomeriggio, passi: fa parte di quella sottile magia chiamata “conciliazione” tra esseri umani, che fin dagli antichi Greci ci viene tramandata.
Ma se vi chiede di contravvenire ai vostri principi morali per amor suo o se - ancora peggio- siete Voi stess* a soffocarvi e a farvi andare bene cose che non vi vanno giù o sulle quali non siete d’accordo, pur di tenervel* (o di accaparrarvel*), allora è un COMPROMESSO. E dai compromessi, molto spesso, si finisce per cavare niente di buono.

 

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Per spiegarla utilizzando il “modo umano” di approcciarsi al mare, potremmo dire che i compromessi si rivelano nel punto in cui si inizia a non toccare più. Un compromesso appeso alle caviglie zavorra l’umano che tenta di prendere il largo e fin tanto che la testa resta fuori dal pelo dell’acqua, la situazione è governabile ma quando si decide procedere ancora verso l’orizzonte, il povero umano inizierà ad ingurgitare generosi sorsi d’acqua salata.
Quindi ecco, miei adorati pesciolini umani, potrà anche succedere che beviate (e tossiate) qualche volta, ma mollate il compromesso prima che vi faccia affogare.
Dimenticavo.
Ludmilla sta ancora col marito e vive sulla terraferma, a Bardolino, dove ogni tanto va a cantare al karaoke tra i turisti olandesi. Ma appena ha un minuto libero imbocca l’autofiume Mincio-Po-Comacchio e corre al mare a sgranchirsi la (ex) pinna caudale, perché, in fondo, non ha mai completamente rinunciato a se stessa ed per questo che si è salvata un po’.

SALMONA PASTURA


BOOK_ONCINI - Le nostre anime di notte

 
Libri che ti servivano, e neanche lo sapevi
Leggere, se vogliamo, è l'ultimo atto intimo che ci è rimasto. È pure tempo rubato, va bene. E allora, via, una volta al mese, derubiamoci.

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Main dish: "Le nostre anime di notte" di Kent Haruf (2017, NN Editore)

Pagine: non abbastanza: 166

Tempo di masticazione: una domenica mattina, di quelle lente che non si fanno iniziare

Da provare: sempre, perché la complicità se non si vive, almeno si deve leggere

Indicato per: chi, tra le parole, crede un po' di più a quelle dette sottovoce

Sapore: la marmellata ancora da assaggiare

Umami: Pagine 85, 86

Assaggi:

1. Non puoi aggiustare tutto , non ti pare? disse Louis.
Ci proviamo sempre. Ma non ci riusciamo.

2. Voglio sapere cosa pensi.
Di cosa?
Del fatto di stare qui. Che effetto ti fa adesso. Passare la notte qui.
Ormai riesco ad accettarlo. Mi sembra una cosa normale.
Normale e basta?
Sto cercando di spassarmela un po' con te.
Lo so. Dimmi la verità.
La verità è che mi piace. Mi piace molto. Se non lo facessimo, mi mancherebbe.

3. Avrei voluto essere un poeta. A parte Diane, penso che nessuno l'abbia mai saputo.
[...] E poi cos'è successo?
Mi stai chiedendo perché non ho proseguito?
A quanto pare, ti interessa ancora.

Perché:

Louis e Addie hanno reso una questione di spazzolini e pigiami qualcosa di simile ad una mitologia. Spiegata in soldoni, sono due vedovi, settantenni, lui ha perso Diane, lei ha perso Carl. Vivono vicini, decidono di dormire insieme, "per parlare prima di addormentarsi". Lui all'inizio si porta dietro un sacchetto con il pigiama infilato dentro. Poi smette di sprecare buste di plastica, e decide che chiacchierare nella penombra con lei è la cosa più bella che gli sia mai capitata. "Io mi sto comportando bene. Sto facendo ciò che desidero senza fare del male a nessuno. E spero che sia così anche per te". Il tutto è ambientato a Holt , il luogo "più vero del vero", come ha detto qualcuno. Eppure, Haruf se l'è inventato.
Ma non vengono dalla sua fantasia quei dialoghi sottovoce, nel letto, per mano. "Eravamo noi" dice Cathy, la moglie di Kent ( Repubblica). Quella che cita nella dedica e pure nei ringraziamenti dell'ultimo romanzo. Haruf scrive "Le nostre anime di notte" con urgenza, perché sa che sarà il testamento di tutto. "Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe? Non mi va di finire in un libro, rispose Louis". Fregandosene del consenso dei suoi personaggi, lo scrittore malato e anziano. prima di "andare di sopra", ha continuato a parlare a Cathy, con un filo di voce.

Addie disse, ti disturbo?
No sono appena venuto di sopra.
Ecco, pensavo a te. Avevo semplicemente una gran voglia di parlarti.

 

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Bed-in for Peace, John Lennon und Yoko Ono, 20th March 1969

 

 

Note tecniche o lì in giro:

Haruf è una sintesi spiazzante. Chi arriva dalla Trilogia della Pianura dirà: "Grazie mille, Salmonita, non si sapeva". Ma chi per la prima volta capita tra le pagine dello scrittore americano morto nel 2014, lo dica, per favore, a voce alta, che la sua prosa è asciutta in maniera estenuante. Hemingway, Carver hanno forgiato la sua ansia di precisione. Arriva alla fine della frase senza aver sprecato aggettivi. Basta la vita, raccontata com'è, regno di grandi bellezze e tristezze, ad aggiungere gli avverbi che mancano. Lui ti dice che in campeggio mangiano: hot dog, fagioli in scatola, qualche carota cruda, patatine, marshmallow, pancakes, uova con il bacon, panini al fomaggio e mele. Lascia all'esistenza dolorante di Louis, di Addie e del nipotino Jamie il compito di farti leggere il resto. Ti commuovi, così, alla fine di un paragrafo. Perché la vita ti uccide i figli, ma poi ti permette di arrivare alla fine con qualcuno che accoglie le tue mani screpolate da anni di carezze dimenticate. Lo scrittore Marco Missiroli parla del "dio timido di Haruf" che avvolge tutti noi "minuscoli e sensibili" in quella salvezza, non trascendentale ma così umana della cura. Per dire, è il libro più letto in Italia nell'ultimo mese (qui le vicende editoriali) . Ed è un libro su due anziani che decidono di addormentarsi l'uno con la voce dell'altro.

 

Una specie di morale

Tutti abbiamo dormito, almeno una volta, in maniera indimenticabile. Quella notte naturale che sembra sgorgata dalla necessità. "Voglio dormire con te", non è forse l'inizio di ogni tenerezza? È, anche, certo, il rischio della permanenza, del rimanere. Del tuo spazzolino che forse non è il caso di lasciare nel suo bicchiere Ikea, perché poi "oh, ma questa si è stabilita". Al netto del sesso, è il letto il luogo speciale dove l'altro ci confida la sua fragilità. Al buio, a volte, le parole escono meglio. E con loro il lungo elenco dei nostri personali paradossi.
Quando è morto di Aids l'amore della sua vita, l'artista cubano Félix Gonzalez - Torres ha acquistato uno spazio pubblicitario a New York. Ci ha messo una foto: un letto con due cuscini ancora fermi a quando sopra riposavano delle teste addormentate. Ha celebrato il suo addio a Ross, così, dalla stanza dove si erano capiti.

Salmonita

 

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Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Billboard of an Empty Bed), 1991

Sockeye - Intervista a Cibo

 

Non giocare con il cibo, disegnalo!

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Gli antichi classificavano le varie arti in una scala di valori basata su quanto ognuna di esse fosse vincolata alla forza di gravità: dall’architettura, arte minore, alla musica, suprema arte fatta di suoni impalpabili nell’etere. In mezzo a questi antipodi variano pittura e scultura: l’equilibrio del legno e lo spray che cola a terra dal muro di un writer. Non avevo mai capito a fondo le implicazioni di questo concetto fino a quando, parlando di case con Cibo, non ho confrontato la sua grande taverna con le abitazioni che mi hanno ospitato nelle interviste precedenti, soprattutto con la piccola abitazione del maestro d’orchestra Andrea Battistoni.

“La realtà è che fare musica non ti occupa tutto lo spazio che serve a me.”

Tra tavoli, tele, bombolette, e strani strumenti, capisco che sarà una giornata illuminante. .

Di Cibo conosco quel che ho trovato sulla pagina Facebook, ho visto varie opere in giro per la città, ma non avevo idea che quelle fossero solo la punta di un iceberg le cui fondamenta vanno ricercate in vent’anni di dedizione, tantissimi progetti intrapresi e una continua ricerca di portare l’arte alla gente che non può permettersela, fuori dalle gallerie, per la strada.

In grassetto le mie domande.

 “Non pensavo, Cibo, che questo per te fosse un lavoro…credevo che facessi altro nella vita. Hai sempre vissuto d’arte o è un progetto recente?”

 “La mia educazione artistica mi ha portato fin da subito verso lavori “creativi”, ance ho sempre cercato di rimanere a lavorare nell’ambito della ristorazione: dalla cucina, alla sala, dal banco bar, al banco freschi al supermercato. Poi tutto si è fuso, ho tenuto dei blog di enogastromia che mi hanno portato a lavorare per riviste di cucina nazionali e a farmi conoscere direttamente i produttori andando presso le loro sedi.

I miei pezzi sono comparsi a Verona circa sei anni fa anche se è dal lontano 1997 che sono sui muri, io faccio parte della seconda generazione di writer, quella dopo gli audaci sperimentatori e prima della mercificazione. Cibo in realtà per me è solo un progetto tra i tanti, ma è forse quello meglio compreso.”

“Cosa vuol dire seconda generazione di writer? Ne esiste una terza?”

“Sono venute a mancare le condizioni per averne una terza con i dovuti valori propri della strada. Con gli arresti dell’inchiesta “Valpantena writers” si è perso il ricambio generazionale e questo gap ha portato la nuova generazione ad essere più “bomber” che artista. Perciò gli sbirri hanno fatto quasi danni maggiori, prendendo a caso i butei, anche perchè non sono stati i colpevoli a pagare. I rimasti si sono un po’ vendicati - e come dargli torto - la repressione crea terroristi artistici. Io fortunatamente ero in esilio! Ora sta tornando un po’ di scena e vedo gente che ci tiene, che ha slancio, e ciò mi fa ben sperare”

La nostra conversazione si interrompe con l’arrivo in tavola di un risotto dal gusto amarognolo ma buonissimo, alzo lo sguardo e vedo Cibo che mi osserva minaccioso, da vicino:

“Guarda che mi son punto le mani a raccogliere i bruscansi nei campi, ma sentirai che gusto!”

Quando non disegna, Cibo, potete trovarlo a far digging di erbe spontanee e zucche lasciate nei campi dai contadini.

 “Stavamo parlando delle nuove generazioni di writer…”

“Io non sono nato e non sono mai stato un writer legato al mondo hip-hop, non ho mai capito la tega delle tag: per me un’opera dev’essere riconoscibile per tutti, perché dare un messaggio incomprensibile al lettore?”

 “Nel mondo hip-hop credo derivi da quando le tag sui muri delimitavano quartieri controllati da questa o quella gang; o sfide tra writer a chi aveva più tag di altri e in posti più strani. È un sistema codificato di comunicazione urbana, che gioca sul fatto di essere estremamente visibile e estremamente criptato allo stesso tempo”.

Poi a Verona, non è famosa per formare nuovi artisti, non è un ambiente stimolante, anche perché sui muri vedo molte opere che sono una disperazione, non frutto di una pulsione, propria dell'arte, ma di mero guadagno o pigra ribellione. Non c'è sfida, non c'è ricerca stilistica e soprattutto non c'è un cazzo da dire.

La street art a verona è in ancora in fase embrionale e tocca a noi l'onere e l'onore di formarla, ma non stiamo andando nella direzione corretta, a mio dire. Non è una risposta al grigio, è una domanda colorata!

Le istituzioni non capiscono, e la burocrazia regna. Per dire: se un negoziante domani si sveglia e si sente mecenate, forse deve pagare tasse pubblicitarie per un’opera d'arte, già un ossimoro, e le deve pagare perché un omuncolo privato che lavora in esclusiva per il comune prende un obolo per ogni sanzione emessa... Allora, io capisco tutto, paghi il logo, ma il disegno no! Ovvio che un pasticcere vuole una pastina, e ovvio che lo fa per il bello del suo edificio, ma lo fa anche per il senso civico, per dare adito ad un artista, perché semplicemente gli va. Cioè non pretendo che sia incentivata, ma almeno compresa, quello si! Dobbiamo batterci tutti noi artisti per un mondo meno noioso, e privo da dogmi.

 “Poi, come in tanti altri ambiti underground, entrare in questo tipo di mondo vuol dire accettare questo tipo di regole, no? Vuol dire far parte di un sistema con dei valori precisi, delle direzioni da seguire e dei rapporti che valgono ben più delle leggi dello stato.”

 “Si la strada ha le sue regole e molto spesso il torto subito viene sanato anche in maniera creativa. Io non ho mai seguito la scena, ma ho riconosciuto le regole.
Il problema dei writers è che pur essendo dei grandi comunicatori hanno degli enormi problemi di comunicazione: non si capiscono, si perdono in discussioni infinite ed inutili per poi litigare.
Non comprendono il loro potere e la loro responsabilità civica, un'opera rimarrà in strada per anni se non decenni, nonostante sia effimera per natura, e nostra è la responsabilità di dare al panorama urbano una nuova veste. Non sarebbe la prima volta che cancello personalmente un mio disegno perché a mio avviso non convincente. Poi i giovani devono essere più audaci, sperimentare, anche combinar cagate se utili a capire, ma vedo che la ricerca stilistica, il sentirsi unico e riconoscibile, viene meno, eppure è la caratteristica principe di ogni artista.

E poi c’è l’ego che chiama. Ogni writer in fondo al suo cuore vuole che tutti sappiano chi è che gli si porti sconfinato rispetto, altrimenti perchè scrivere il proprio nome... il problema di tutti i furbi: non resistono alla tentazione di far sapere che sono furbi, ma questa è filosofia spiccia”

A questo punto ci avviciniamo alla battaglia più interessante di Cibo: la battaglia contro le scritte di Forza Nuova sui muri. Cosa significa scrivere frasi fasciste in giro per la città? Credo siano l’emblema di tutto quel che abbiamo detto fino ad ora riguardo alla mancanza di cultura: da una parte, scrivere DVX, TITO BOIA o disegnare una svastica vuol dire avviare un processo di abbruttimento estetico della propria città, dei luoghi pubblici e visibili. È un atto di vandalismo che, secondo punto, inneggia ad un sistema di pensiero che se attuato politicamente – in nome della Nazione, dello spirito estetico e dell’ordine – condannerebbe quel gesto stesso in modo più radicale di qualsiasi altro regime.

“Bhe sia chiaro, a me di politica non frega un cazzo, copro anche i CARLO VIVE e soprattutto i TI AMO, quelli sono i peggiori, slanci di “creatività” che rappresentano sentimenti morenti.

Battaglia? Scaramucce da bontemponi! Innanzi tutto odio lo sporco e il disordine, quelle scritte sono oggettivamente brutte. Inoltre sono fatte da persone che non hanno cultura, ne ho più io sul argomento. Esempio: chi ha scritto TITO BOIA, secondo voi chi lo ha scritto aveva chiara la situazione dei Balcani ai tempi di Tito?  Sono dei poveretti con l'hobby per il nazionalsocialismo, quello tenero, quello delle frasi fatte da circolo combattenti e del “crediamo in qualcosa che altrimenti devo parlare dei compiti di scuola”.

Poi c'è da dire che sono parte di una performance artistica molto divertente ed utile. Se sapessero che con il loro rovinarmi i murales mi hanno donato per l'indignazione più di un terzo dei followers e che è solo grazie a loro che mi chiamano a sistemare altrettante scritte, molto probabilmente non avrebbero mai proseguito una guerra impari. Senza contare il fatto che per loro è controproducente, rovini un parco giochi per i bambini?!... è cattiva pubblicità per il loro movimento sociale. Però se avessero risposto sul muro in maniera adeguata, sarebbe stato anche interessante e la loro causa poteva sembrare anche meritevole di rispetto, ma così son strilli da cortile.”

“Loro hanno scritto TITO BOIA e tu hai fatto un wurstel. Questa frase è poesia”

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“La vera poesia è che sono tornati a riscriverlo, ed io ho aggiunto la salsa sulla scritta... te l'ho detto, per me è solo un assist, e sappi solo che non è la prima e non sarà l'ultima, e ti dico solo che è sempre finita con mie grasse risate. A livello mediatico perderanno sempre con noi writers, abbiamo creatività, mezzi e determinazione, loro hanno solo il branco e una bomboletta da ferramenta.

Comunque non c'è odio, ma compassione, con il nuovo anno ho resettato tutto e per me è pace.

- non sono cattiva, è che mi disegnano così (cit.) -”.

Ricapitolando: quelli di Forza Nuova ce l’hanno con i writer, di fondo, perché i writer sono promotori di libero pensiero, e manifestano quest’odio imbrattando i muri, cioè trasformandosi in writer della peggior specie.

Ciò che mi lascia tranquillo è che Cibo esiste, ha vinto, e vincerà sempre contro tutto questo.

“Ma quanto tempo ti occupa disegnare cibo, Cibo?”

“Beh è comunque il mio lavoro. A parte le cose che faccio gratis, in giro, ho collaborato con vari enti privati. L’importante è che quello che ti senti di rappresentare sia arte e che racconti una storia, non semplice decorazione, l’importante è che quest’arte ti porti a farti delle domande, non che abbellisca in modo sterile il luogo dove vivi.”

A questo punto, in misura molto maggiore e con un grado d’intensità ben più elevato, scopro che Cibo attua la mia stessa strategia, come pagamento dei suoi pezzi: come me, che vado a pranzo dalle persone che intervisto, Cibo si fa pagare in alimenti. E mai, mai come in quel momento davanti a quel piatto di riso con i bruscansi, ho trovato nel mondo reale una così forte incarnazione di una frase di “La Collina” di De André da farmi sorridere senza che i miei ospiti capissero fino in fondo perché.

“Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore, tu che lo vendi, che cosa ti compri di migliore?”

Cibo disegna cibo e si fa pagare (in parte) in cibo, perché tanto, con i soldi, null’altro gli interesserebbe così tanto quanto mangiare bene.

“Pensa se mi chiamassi Braghette avrei un armadio pieno di solo pantaloni! [LOL ndr]. La cosa che mi interessa di più al mondo è mangiare bene. Ho anche rifiutato dei lavori perché il cibo che mi offrivano mi faceva schifo, o perché la filosofia aziendale non era conforme a quello che vorrei io da una azienda agricola, o da un ristorante, ma per fortuna a Verona di solito mi va bene, perché Verona è rurale e il territorio è una risorsa.

“Fammi fare della filosofia, per favore.”

“Eccolo…”

“Ahah, dai. L’arte contemporanea si è fondata sul togliere agli oggetti comuni il loro grado di usabilità oggettuale per renderli immagine, per innalzarli alla loro forma più pura in un museo, senza nient’altro attorno. Dal water di Duchamp in poi…l’opera non è più rappresentazione della realtà ma un tentativo di mostrare la realtà nella sua forma assoluta. Tu mi metti in crisi con le tue opere, perché anche tu astrai dalla realtà ma il luogo dove disegni l’oggetto astratto è il luogo stesso dove l’oggetto esiste: penso agli asparagi. Non porti gli oggetti in un museo ma è come se con le tue opere marchiassi a fuoco sul muro una realtà nascosta perché troppo visibile, troppo comune, troppo abitudinaria.”

 “Sì il bello della street art è che ha senso solo in quel luogo e in quel momento preciso, non la puoi strappare dalla sua realtà e portarla in un museo. Non ha senso fare un murales dell’11 settembre a Belfiore, oggi. Il Cibo sta lì perché è lì che deve stare. E deve tornare a farci vedere qualcosa a cui siamo abituati, deve farci fare delle domande. Domande su un problema del cibo che deve andare oltre all’Expo e oltre a Farinetti… E l’altro lato bello è che le persone sono costrette a vedere i miei pezzi, in un certo senso faccio una violenza visiva e gli impongo un pensiero o un sorriso.”

“Certo, e soprattutto, come hai detto all’antipasto – credo – hai una grossa responsabilità: la gente che va nelle gallerie d’arte è educata e compie un gesto volontario, mentre tu devi arrivare ad ogni passante, anche alla signora Maria che va a prendere il pane la mattina.

 Vorresti lavorare in una galleria d’arte?”

 “Mi darebbe molti stimoli, certo, ma probabilmente lo farei solo per i soldi. Sai con i soldi che mi darebbero là cosa potrei fare? Alla fin fine io voglio guadagnare per mangiar bene e per poter comprarmi nuova attrezzatura con la quale fare opere gratis: come sto facendo negli asili (mi faccio pagare mangiando con i bambini in seggioline minuscole) e in una cooperativa sociale per i malati di mente. Se non porti l’arte a queste persone a cosa serve? Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, rimediamo, no? ”

“Ma è tutto illegale, quel che vediamo in giro? Non rischi nulla?”

“Io vado nei luoghi vestito di arancione in pieno giorno, ed inizio a dare una mano di bianco. A quel punto i vecchiotti – perché ho coperto le tag o le svastiche sottostanti – mi dicono: “Brao giovane!”, pensando che io sia del comune, ma già cancellandogli le scritte gli stai simpatico. Poi inizio lentamente a disegnare e, di solito, ho trovato gente felicemente incuriosita.

  • Eh salve! Ghe piase el formaio? Belo belo giovane, almanco che lo veda visto che non posso maiarlo! –

Evito di dar fastidio comunque, a meno che il posto non si a ghiotto. Vado in posti abbandonati o rovinati, a volte mi informo sulla proprietà dell'immobile, proprietari sciatti lasceranno in rovina lo stabile e il mio disegno forse sopravvivrà!

“E non hai paura che succeda qualcosa di questo tipo?”

NEW YORK TIMES

“Bah, arrestato è una parola grossa. Non faccio niente di male…anche se potrei giocarmela bene in termini di pubblicità. In carcere però se la dovrebbero metter via eh, disegno anche col sangue: “non sono io che son chiuso dentro siete voi che siete chiusi fuori”. In prigione avrei una stanza con 5 superfici…non so se gli convenga!”

Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, mi ha detto Cibo. Scoprendo come lavora e il progetto che sta portando avanti mi ha riempito la testa e il cuore di speranza. E io, che il cibo lo amo, che odio il fascismo e l’elitarismo, ho ritrovato in questo artista un tentativo di fare qualcosa di veramente concreto per le persone e per l’arte. Con lo stomaco pieno dell’amaro dei bruscansi e della grappa – sempre ai bruscansi – torno verso casa trattenendo in me una nuova definizione della parola americana “real” – nel senso di autentico -  e della parola “giusto”.

Grazie.

 

Risotto coi Bruscansi, il germoglio primaverile del pungitopo:

Scritta da Cibo:

"Amaramente racconto tra le mille spine della Val Galina, cotto e ricoverato in freezer assieme alla sua acqua di cottura utilizzata poi per il brodo. Un Risotto come vostra madre comanda:

soffriggi lo scalogno, tosta il riso, aggiungi i bruscansi, sfuma con vino bianco, cucina il riso con la giusta quantità di brodo, manteca con burro, "formaggia", controlla il sale e impiatta. Per Il digestivo, i medesimi bruscansi messi a dimora nella grappa, accompagnano il caffè e il dolce. Per concludere la giornata in maniera coerente, Murales a tema asparagi, i "parenti da aia" dei bruscansi. Inutile dire che tutti i prodotti arrivano da luoghi che posso osservare con un binocolo, tranne il burro che amo quello chiarificato tedesco da allevamenti sostenibili il cui latte è munto solo per fare burro."

Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.