BOOK_ONCINI - Atti osceni in luogo privato di Marco Missiroli
Il libro del nostro eden prosaico e caciarone dove sorgono, a volte, alcune "architetture del sollievo" tipo le carezze
Lui: "Atti osceni in luogo privato" di Marco Missiroli (2015, Feltrinelli)
Pagine: 249
Dedica: A Maddalena, c'est toi.
Dedica/2: Alla fine uno si sente incompleto ed è soltanto giovane. (Italo Calvino)
Tempo di masticazione: due sere in mezzo alla settimana
Da provare: quando ci sentiamo privati di qualcuno
Indicato per: chi, anche se non l'ha detto, l'ha provato
Sapore: forse, quel Mc menù mangiato di nascosto da se stessi e taciuto a tutti gli altri
Assaggio:
"L'osceno è il tumulto privato che ognuno ha e che i liberi vivono. Si chiama esistere e, a volte, diventa sentimento".
Perché:
Dovevamo parlare d'altro, dell'Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, per dirne una, in ossequio a quella cosa che chiamano "essere sul pezzo" e spesso e volentieri vuol dire, semplicemente, fare gli indolenti e scopiazzarsi con grazia. Noi parliamo di un libro che è stato il caso del 2015. Sarà anche laniccia nella vostra memoria ma, ai tempi, le montagne le aveva mosse quella fessura di sedere sbattuta in copertina per fare man bassa di lettori occasionali tra gli scaffali della Giunti. A me il libro l'hanno regalato qualche settimana fa, forse, proprio per questo. Il mio donatore è stato condotto all'acquisto dal richiamo sirenesco di due chiappe appena interrotte dal titolo in rosso. E benedetti i suoi ormoni, mi vien da dire. "Atti osceni in luogo privato" è così magnetico che lo inizi il martedì sera e ci pensi al lavoro scalpitando sul pc fino al mercoledì notte, quando lo chiudi, ti guardi intorno e ti chiedi da dove, da che lato, da che dannato angolo iniziare a raccogliere su, e mettere in un sacchetto la polvere della tua vita così ferma da apparire stanca. Dentro queste 249 pagine c'è tutto, ovvero le tre cose che importano davvero: l'amore, la morte, il tempo.
Sesso quanto e come:
Non è altro che la storia di Libero Marsell, ragazzino italiano traslato a Parigi e ripiombato a Milano da uomo. C'è sua madre che si fa beccare, come direbbero gli americani, in flagrante delicto, mentre fa un pompino all'amante. Poi c'è suo padre, uomo grandioso, costretto alla schiavitù melanconica non tanto del tradimento, quanto del rimpianto. Non serve che vi dica che il libro è diviso in sezioni (Infanzia, l'Adolescenza, la Giovinezza, Maturità, Adultità) perché basta andare ovunque sul web e vi svelano la solita tiritera del romanzo di formazione. Ma voi credeteci fino ad un certo punto perché il sesso, come ogni altra forma di conoscenza, è sempre friabile e perduto il giorno dopo che si è creduto di stringerlo. Il tempo scorre e anche per Le Grand Liberò, come lo chiama l'amica bibliotecaria che gli farà vedere le tette soavi una volta sola e poi mai più, arrivano gli amori pensati e poi quelli consumati. La grande fregatura dei sensibili è che il corpo, per quanto corra, è sempre secondo: la testa è già lì da ore, che fabbrica futuri immaginati. Per lenire gli strazi Libero ci va giù pesante con Camus e il suo "Straniero", Buzzati, Sartre ma con moderazione, Mentre "Morivo di Faulkner" e pure una valanga di film di Truffaut.
Missiroli regala frasi intere alle citazioni, e così finisce per sembrare un intelligente demiurgo capace di rimescolare le urla sublimi della letteratura nella sua sintassi elegante, certosina nel lessico, perfetta nell'architettura che invita a sottolineare, a sottolineare ancora e poi a farle scendere quelle due lacrime. A tanti feroci lettori questo aspetto non è andato giù, a noi, invece, è piaciuto. Perché è un esercizio intimo evocare le letture, i film, le musiche che ci hanno determinato. Si tratta dello stesso identico pudore silenziato che circonda la nostra carne quando raggiunge le sue cime, a furia di carezze.
Una specie di morale:
"Perché in fondo la gioventù è più solitaria della vecchiaia", ci dice Libero con la voce di Missiroli ad un certo punto. E così, condannati da "quella particolare attrazione per le grandi speranze", deambulanti a malapena, o solo stanchi, ripassiamo con la memoria tutti i nostri affetti marciti, gli slanci affievoliti, gli amori frantumati, sperando di venire a patti con tutta quella tenacia impiegata per non sostituirli. Un giorno, senza annunciarsi, farà capolino il momento atteso da una vita con intermittente consapevolezza, quello in cui conosceremo la devozione. La forma più stupenda di oscenità.
Salmonita
Intervista all' Ettogrammo
Seguendo il nostro intento di conoscere e far conoscere le realtà che negli ultimi anni hanno popolato il quartiere di Veronetta, siamo andati a fare due chiacchiere con il proprietario dell' Ettogrammo, un negozio di prelibatezze alimentari con una particolare vocazione ecologica: non c'è alcun packaging in plastica.
Che cosa fai nella vita e che cos'è l'Ettogrammo? Come ti è venuto in mente di aprire questa impresa? Come è partito e cosa vorresti che diventasse?
Vivo a Verona da 6 anni, da quando mi sono trasferito per amore, ma sono toscano, della Val di Chiana. Dopo diverse esperienze all'estero, dove la sensibilità ai temi ambientali è alta, ho dovuto reinventarmi in una nuova città che inizia ad essere sempre più attenta alle buone pratiche. Così è nata la voglia di portare qualcosa di nuovo a Verona che non fosse un semplice negozio o locale, ma un vero e proprio stile di vita.
Il risultato è Ettogrammo, una bottega che guarda al futuro con pratiche vecchio stile, per avvicinarsi a una alimentazione sana e un approccio meno consumistico nel fare la spesa: trovi cereali in grani e fioccati per la colazione, frutta secca e disidratata, legumi, farine, erbe aromatiche e spezie, semi, pasta, biscotti... tutto l'occorrente per un'alimentazione equilibrata e di qualità.
Si compra solo la quantità desiderata, a peso, senza dover fare scorte inutili, quindi senza packaging nel rispetto dell'ambiente già soffocato dai rifiuti plastici, e soprattutto i prodotti non provengono da agricoltura massiva industriale, ma possibilmente da piccoli produttori italiani, garantendo una qualità migliore e senza sfruttamento dei lavoratori (spesso sottopagati anche dai colossi del bio).
Lo scopo è quindi quello di riappropriarsi di un stile di vita più umano, e una spesa "sostenibile", che non agevoli i colossi ma i piccoli produttori ormai schiacciati dalle richieste della GDO e che garantisca ai consumatori un prodotto sano e di qualità.
Vorrei che Ettogrammo diventasse la classica bottega di quartiere dove il contatto umano ha anche una funzione sociale, a differenza dell'anonimato e la freddezza dei supermercati e dei centri commerciali; un punto di riferimento non solo per chi è già convinto, ma un po' per tutti, anche per gli scettici.
Perché a Veronetta e non in pieno centro storico?
Ammetto di aver pensato inizialmente al centro storico...A parte il costo degli affitti decisamente proibitivo, accessibile solo alle grandi catene e insostenibile per i piccoli esercenti che come me provano a creare qualcosa di nuovo con solo le loro forze, il quartiere ti da quell'aspetto umano di cui parlavo sopra, che non avresti in centro storico dove i turisti vanno e vengono, sono solo numeri. Veronetta in particolare è il quartiere che più mi rispecchia di Verona, nel cuore della città ma fuori dal caos turistico, dove trovi un po' di tutto, sia come persone che come negozietti e locali che negli anni stanno nascendo.
Com’è stata la risposta delle persone?
All'inizio c'è stata molta più curiosità di quanto immaginassi, la gente voleva proprio capire come funziona questa spesa a peso alla quale ci siamo disabituati, attratti dai sacchi e dai vasoni, dall'odore di spezie e dalla possibilità di comprare tante cose diverse, anche sconosciute perché tanto ne puoi prendere quanto vuoi. Ora ci sono i fedelissimi che portano i loro stessi contenitori per fare la spesa, anche se sicuramente i ritmi della vita moderna non si conciliano molto con il concetto del negozio, ma per fortuna c'è sempre maggiore consapevolezza.
Apparentemente potrebbe far storcere il naso che, pur risparmiando sul packaging, si arrivi, invece, a spendere anche di più che in un normale negozio di alimentari. che cosa rispondi a chi alza queste critiche?
A parità di tipologia e qualità di prodotto, comprando sfuso si abbatte il costo del packaging, è vero. Ma paragonare i prodotti e i prezzi di Ettogrammo a quelli del supermercato è come paragonare un prodotto artigianale a uno industriale... non c'è paragone nel prezzo e tanto meno nella qualità. Se scelgo di abbandonare il packaging per motivi di sostenibilità ambientale, non posso scegliere un assortimento di prodotti sfusi che provengono da agricoltura massiva industriale (gli stessi del supermercato ma semplicemente senza confezione) perchè sarebbe un controsenso: si rispetta l'ambiente riducendo la plastica, ma non ci si preoccupa dei metodi di produzione che danneggiano l'ecosistema (e la salute). Come ho detto prima, i miei fornitori non sono gli stessi della GDO: i n alcuni casi si parla di prodotti con presidio Slow Food, inevitabilmente più costosi, mentre in altri casi, dove l'incidenza del costo del packaging è davvero molto molto elevata (come ad esempio per le spezie) il prezzo è effettivamente più basso del supermercato, solo che non abbiamo l'abitudine di controllare il quantitativo contenuto nelle confezioni, a volte ingannevoli. In altri casi ancora, i fornitori sono piccole realtà che producono quantitativi bassi che raccolgono personalmente (addirittura per alcuni prodotti particolari anche a mano!) e che fanno i conti con i raccolti magri a causa del maltempo e dai cambiamenti climatici... chiaramente il prezzo non può essere lo stesso di chi coltiva monocolture con grandi macchinari per il raccolto, pesticidi e fertilizzanti per ottenere grossi quantitativi e ricorre a manodopera sottopagata per essere competitivo.
Per fortuna c'è sempre più consapevolezza nell'acquisto di alimenti: se siamo disposti a pagare un prezzo maggiore per la carne dell'allevatore di zona perchè sappiamo che quella del supermercato proviene da allevamenti intensivi, dovremmo aspettarci che lo stesso ragionamento valga anche per legumi, cereali e tutto il settore agricolo.
Se fossi Sindaco di Verona, o anche solo Assessore alla Cultura, che cosa faresti nei primi 100 giorni?
Interverrei sulla viabilità del centro storico e delle zone limitrofe: troppo traffico in strade piccole e aria irrespirabile stanno diventando spesso normalità, riducendo la vivibilità delle zone più belle della città. Inoltre rivaluterei Piazza Isolo, al momento un po' abbandonata a se stessa, e altre zone adiacenti il centro, includendoli in alcuni itinerari delle grandi manifestazioni veronesi che a volte soffocano zone ad elevata affluenza turistica, costringendo i cittadini stessi ad evitare il centro.
Sockeye - intervista al fondatore del Tocatì
Giocare è la cosa meno importante - per questo è essenziale.
Il Tocatì è roba grossa: da quindici anni, per qualche giorno, riempie la città di giocatori e visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Attorno alla dinamica e alla cultura del gioco di strada si crea così un intreccio di persone e culture come nessun altro evento riesce a fare a Verona: neanche il Vinitaly o quell'abominio socioculturale che è Verona in Love. Il Tocatì quest'anno è alla sua XVesima edizione ed è candidato a diventare Patrimonio Culturale Immateriale dell'Unesco.
Quando, da oggi fino a domenica, andrete a guardare i lottatori turchi sfidarsi, o parteciperete ad una partita di lippa (s-cianco per i veronesi), ricordatevi di pensare ad una cosa: tutto quello che vedrete è nato tanti anni fa, in una piccola osteria di Verona, quando un gruppo di amici appassionati di giochi antichi decise mettere il naso fuori in strada e parlare alla gente.
Un weekend di caldo incredibile di qualche tempo fa ero all'osteria Carega per parlare con Giorgio Paolo Avigo: uno dei fondatori del festival e presidente dell'Associazione Giochi Antichi.
Voi la sapete la differenza tra sport e gioco? E lo sapete che in Sri-Lanka giocano allo s-cianco per imparare a giocare a cricket? Io ho imparato tutto questo - e ben altro - in una lunga ed appassionata chiacchierata.
In grassetto le mie domande.
Qui siamo al Carega, l’osteria dove vi trovavate dovrebbe essere qui dietro no?
"Sì uno dei luoghi dove ci trovavamo sempre è l’osteria le Petarine, abbiamo anche chiesto di mettere una targa in quanto sede storica... Il tutto è nato quasi per caso, tra un bicchiere e l’altro, tra delle chiacchierate all’Osteria e una partita a s-cianco in strada - in fondo tutto questo, tutto quello che abbiamo creato è nato da quel gioco. L’associazione nasce dal recupero dello s-cianco."
…che è un gioco che facevate fin da piccoli immagino, io lo conosco ma non ne conosco l’origine, è di Verona?
"Il termine è di una parte della città di Verona. Il gioco in sé, invece, è un gioco che è praticato tutt'ora a livello internazionale ed è diffuso da sempre in diverse parti del mondo. A livello di festival quest’anno abbiamo inserito il “Torneo internazionale di lippa”: ci sono tre squadre italiane e sette provenienti da varie regioni europee.
Mi piace raccontare come ancora prima del primo torneo un gruppo di srilankesi ci abbia visti giocare e si sia subito avvicinato:
“Ma scusate perché voi giocate al nostro gioco?”
“Cossa gheto?”
E da lì, dal 6 ottobre 2002, hanno sempre partecipato al torneo di s-cianco con una squadra dello Sri Lanka. Quasi ogni anno vanno in finale, anche se è raro che vincano..."
Perché sono meno forti?
"Ma perché come accade per tutti i giochi tradizionali non è così facile rispettare le regole come sembra dall’esterno. La regola fondamentale di ogni gioco di strada è che si basa sul contesto dove viene praticato.
Sembra una cosa avulsa ma ci sono regole legate ad esempio al tipo di terreno, alla lunghezza dei bastoni eccetera...che sono legate al vissuto della zona dove vengono poi messe in atto: giocatori stranieri di lippa fanno fatica ad adattarsi a certe regole italiane, veronesi. E su questo fatto ci abbiamo giocato spesso!"
Questo tipo di giochi quindi è estremamente radicato nella tradizione specifica di una regione e di una popolazione, ma allo stesso tempo si pratica in egual modo in tutto il mondo, come mai?
"Sì, noi crediamo nei giochi anche e proprio per questo, perché sono una delle pratiche che dovrebbero fare da traino per capire le culture diverse dalla nostra, con cui veniamo - volenti o nolenti - a contatto. Il fatto che un gioco venga praticato agli antipodi della Terra nella stessa maniera significa che c’è stato uno scambio di culture nato nei secoli, vuol dire che in qualche modo ci siamo tutti incrociati fin dall’alba dei tempi."
Non sono pienamente d’accordo. O meglio, credo che alcune comunanze nei giochi nascano anche dal fatto che ci sono cose, nel rapporto che l’uomo tiene con il mondo, che siano talmente basilari da venire prima - non solo in senso cronologico ma anche antropologico - delle differenze date dalle culture. Per esempio il lanciare e recuperare una cosa, un legno, è cosa che fanno anche gli animali. La lotta è un altro esempio: sta alla base di quasi tutte le culture mitiche del mondo antico... e via dicendo.
"Certamente questa è la base, ci sono comunanze che fanno riflettere. Pensa che nello s-cianco in ogni parte del mondo i colpi di allontanamento con cui si può colpire sono tre, non due e non quattro ma tre."
Ma visto che si pratica in tutto il mondo... anche all'estero la lippa è vista come una cosa da recuperare e salvaguardare?
"In alcuni paesi molto meno, perché lo praticano: in Sri-Lanka i giovani ci giocano tutti perché è propedeutico al cricket, a Cuba ci giocano per insegnare a giocare a baseball. Quando è venuta la delegazione cubana mi ha raccontato che a L’Avana ci sono le eliminatorie del campionato proprio il giorno della Liberazione."
E in Italia invece? So che andate nelle scuole a promuovere i giochi tradizionali in generale… come reagiscono i ragazzi? Sono troppo abituati allo schermo dei cellulari?
"No guarda sul discorso che i ragazzi non giocano più e sono sempre davanti ai display mi trovi in disaccordo. Forse è vero ma fino ad un certo punto, facciamo spesso domande nelle scuole. E alla fine i bambini e i ragazzi ci dicono che comunque preferiscono stare fuori con gli amici a giocare."
Sì alla fine molti dei contenuti veicolati dagli smartphone sono ancora contenuti “reali”.
"Esatto, si fanno i video di quando giocano a calcio. Poi c’è da dire una cosa: la strada è da sempre stato un luogo dove si sta in comunità in uno spazio improvvisato. Adesso i genitori dicono che le strade sono pericolose ma secondo me è un circolo vizioso: sono pericolose perché non c’è nessuno in giro, sono monopolio delle macchine perché non c’è gente."
Mi piace il discorso del gioco e dei luoghi improvvisati. Vedendo le vite dei ragazzi oggi direi che sono comunque piene di attività, il problema è proprio questo forse?
"Quello che fanno i ragazzi oggi sono sport o attività in tempi e luoghi adibiti e pensati per fare esattamente quell’attività: c’è sempre il binomio luogo-attività ad agire sulle loro vite; prima a scuola e poi in palestra, prima lo studio e poi il campo da calcio.
Questo non è giocare, è qualcosa che non c’entra niente, i ragazzi hanno vite piene di attività istituite e organizzate che non fanno crescere la loro immaginazione come dovrebbe.
Noi siamo nati in antitesi a tutto questo. All’inizio magari non avevamo uno scopo preciso ma di alcune cose eravamo certi… Pensa che alla prima edizione ci hanno proposto di essere inglobati nelle associazioni di attività sportive tradizionali, ci siamo sempre rifiutati."
Perché? Perché quello che promuovete voi è il gioco e non lo sport? Ancora la differenza non mi è chiara fino in fondo…
"Uno sport è uguale in tutto il mondo, ha regole e leggi che hanno bisogno di essere rispettate con criteri rigidissimi. La lunghezza del campo da calcio, i materiali dell’asta per saltare, i terreni del campo da tennis e via dicendo…
Il gioco fa parte della cultura popolare invece, come la poesia, la musica o la danza popolare, e in quella è radicata. Se gioco alla lippa a Barcellona giocherò con le loro regole e i loro attrezzi. Il gioco nasce dalla spontaneità e la necessità di riempire con ingegno i momenti vuoti della quotidianità, e nasce da persone che lo fanno con quello che trovano: nella loro strada e con i loro attrezzi e per questo è importante che ci siano ovunque delle differenze."
Lo sport ha tempi e spazi precisi in cui tutta la comunità va a fare o vedere una determinata cosa e lo fa in un tempo che si dispiega in modo scandito come quello liturgico. Invece il gioco si prende lo spazio che la società non istituisce. No? Penso al calcio giocato nei campi, con le squadre, le maglie e i campionati e al calcio giocato con una palla, due felpe a fare da porta, e quattro giocatori soltanto in strada.
"Questo sicuramente, rispetto agli spazi e i tempi, ma guarda alla differenza nella pratica. Ti faccio un esempio: l’anno scorso siamo stati in Croazia, nell’Istria, a giocare ad un torneo di bocce piatte, hanno una tradizione tutta loro con delle regole più o meno simili a quella delle bocce nostre.
Quando siamo arrivati eravamo strabiliati: in un posto come la Croazia, che è uscita poco fa da una situazione poco felice, sono riusciti attraverso questo gioco a creare un torneo con sloveni, bosniaci e montenegrini.
Ora, se si riesce attorno al gioco a far fondere le culture allora forse questa è una strada da intraprendere per farle comunicare, queste culture diverse, a creare nuove comunità.
Il gioco viene considerato poco importante - e quindi essenziale, direi - e così anche popoli che si odiano e che magari non farebbero mai affari dicono: “ma sì, giochiamo, tanto è una cosa da bambini”, e da lì si può partire per riunirsi."
Ma parliamo dell’edizione di quest’anno, chi ci sarà come paese ospite?
"Quest’anno non c’è nessun paese specifico, ma attraverso la lotta tradizionale e la lippa abbiamo una quindicina di regioni europee. Promuoviamo attività che non sono legate alle nazioni politiche ma tradizioni popolari che vengono prima della loro definizione.
Pensa che abbiamo reperti che fanno risalire la lippa al 2500 a.C., questo noi dobbiamo far risaltare, questi valori in grado di unire tutta l’umanità oggi che più che mai è facile separarla."
Grazie.
Ci vediamo al Tocatì, Salmoni!
Non Temere Antropos - La musica secondo Salmonello
Che cos'è Non Temere Antropos?
Un gruppo eterogeneo, come amano definirsi i componenti.
Un focolaio di post-modernismo, come preferisco vederli io.
Più precisamente sono Lorenzo Visco alle chitarre e basso, Giacomo Dal Forno basso e chitarra, Riccardo Scaioli al sax e Tiziano Girardi alla batteria.
Ho sempre ammirato quelle band che sono state in grado di trovare un compromesso fra la propria identità e i gusti delle masse.
Il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea, riferendosi alla propria band, ha dichiarato "dopo la morte di Hillel Slovak (ex chitarrista) entrarono John Frusciante e Chad Smith. (...) Con questa formazione, diventammo quattro parti di un qualcosa completamente diverse fra loro ma tutte con lo stesso desiderio. Se ci fossero stati quattro poli sulla Terra ognuno di noi verrebbe da uno diverso rispetto all'altro".
Incuriosito da questo melting pot musicale, ho deciso di passare con loro una giornata per conoscerli meglio, approfondire i loro gusti e carpire quale desiderio comune li spinge verso un'unica meta.
Oltre alla droga, intendo.
Partiamo a mezzodì in macchina per avviarci verso quella che sarà la location delle riprese del videoclip, nonché casa della nonna di Valentina, la ragazza di Niccolò, il produttore musicale dell'album dei Non Temere Antropos. Sposato con Brooke, ex di Ridge, già nuora di Quinn.
Dobbiamo arrivare sul Monte Cucco, a Sezano: il tragitto è lunghetto, ed io non sopporto la macchina.
A distrarmi dal mal d'auto ci pensano le chiacchere di Nic che mi parla dei suoi progetti musicali e di un piccolo festival che vorrebbe organizzare. Inoltre, ad attenderci, c'è l'ambito caffè di nonna Imelda: leggenda narra che per macinarlo ci voglia la forza di mille uomini e che i chicchi provengano dalle lontane Indie, luogo di perdizione e di selvaggi uomini dalle teste bitorzolute.
Non appena arrivati nascono i primi problemi:
"Ma non avete pranzato?"
"Se l'avessi saputo sarei venuto già mangiato!"
Giammangiato, un film di Maccio Capatonda.
"Ma non avete portato l'amplificatore da chitarra?"
"Non lo dovevo portare io..."
Forse un po' sbadati, ma musicalmente eccellenti: vedere per credere.
https://www.youtube.com/watch?v=bq6LcDO_cSU&feature=youtu.be
Dopo aver girato il videoclip, smontato il palchetto e esserci rifocillati con il delizioso farro alle zucchine preparato da Valentina, registratore alla mano e parto con l'interrogatorio.
Cosa fanno gli NTA?
Non Temere Antropos produce musica eterogenea, perché è eterogeneo ed ogni componente introduce le sue influenze ed i suoi trascorsi musicali.
Come mai vi chiamate Non Temere Antropos?
-È il nome del wi-fi del mio vicino, che viene puntualmente bistrattato dalla moglie che lo chiama stronzo, lo mena pure... lei è super-mega avvocato di estrema destra; lui è impiegato di banca e lo vedo uscire tutte le mattine,e sta male, nella sua utilitaria in giacca e cravatta, arrabbiato che non sa perché va al lavoro... E l'unica cosa che ha potuto scegliere è il nome del wi-fi che è Non Temere Antropos, un'esortazione a sé stesso: in questo mondo in cui vai a casa, ti prendi le parole...
-... e non sei sicuro, non sei minimamente felice nemmeno a casa tua.
- Non Temere Antropos vuole essere un'evasione.
... E pensate che questa storia sfocierà in un omicidio?
-Non lo so, ma un posto nel freezer lo tengo sempre libero per un pezzo di moglie.
Con una parola a testa, potete dirmi da quale genere provenite? Così cerchiamo di mettere insieme i pezzi del puzzle.
-È più complesso di così... Però diciamo che vengo dal progressive metal e rock.
-Io suonavo alt rock italiano.
-Ambient. E anche classica.
-Una sola parola? Grunge.
Una band progressive alternative ambient grunge.
Nemmeno il più esperto degli alchimisti sarebbe in grado di mescolare questi generi.
Questo è il bello della musica. Abbatte le barriere, appiana le divergenze ed unisce i cuori verso un'unica meta.
SALMONELLO
Gran Gala' della morte - parte seconda
Parte seconda.
La prima parte la potete trovare qui.
Febbraio, 1882.
L’uomo è riverso sulla poltrona di velluto rosso, in una delle prime file.
La dama al suo fianco si asciuga le lacrime con un fazzolettino bianco che fa pendant con il cappellino dal dubbio gusto. C’è anche un dottore, un omino magro dal naso a punta e gli occhialini da miope che rendono i suoi occhi due enormi sfere dalle tonalità di grigio. C’è pure l’Ispettore Martini in alta uniforme. Appena mi vede alza gli occhi al cielo e maledice gli affreschi.
Ci siamo tutti al gran galà della morte, trastullati dalle viole di Brahms.
- Infarto – certifica il dottore con una voce che risuona un pochino antipatica.
Il volto della vittima è una smorfia di dolore.
- Si è lamentato durante il concerto? – domando io alla donna che continua ad asciugarsi le lacrime.
Vedo con la coda dell’occhio che l’amico Salgari prende appunti sul suo taccuino.
- Si è comportato come sempre – mi risponde la nobile – Gli bastavano due minuti di musica per mandarlo nel mondo dei sogni. L’ho lasciato fare e mi sono goduta il concerto. Solo al riaccendersi delle luci mi sono accorta che qualcosa non andava.
Mi avvicino al cadavere.
Non gli tasto il polso, non serve. Vedo il dottorino guardarmi di sottecchi, invidioso e pronto a far polemica. Ci stiamo sui coglioni, siamo pari insomma.
- Si chiamava Enrico Simoni – mi sussurra Salgari – Uno dei primi notai della città.
- Segni particolari? – gli domando, facendomi sentire dall’Ispettore Martini che manca ancora una volta l’appuntamento con il destino: quello cioè di far bene il suo lavoro.
- Non gli piaceva quella cosina là… - lascia intendere il giornalista con un sorriso malizioso.
Il notaio è stato avvelenato.
Espongo il mio pensiero e il dottorino salta su come il demonio.
Lo tengo a bada e gli propongo di avvicinarsi alla bocca della vittima.
- Qualche odore particolare? – gli domando lanciando la sfida a chi ce l’ha più lungo.
- Non sento niente – risponde lui improvvisamente paonazzo.
- Sarà il raffreddore – lo giustifico io leggermente malizioso – Mandorle.
Uguale cicuta.
- Articolo bomba – accenno a Salgari mentre torniamo nel foyer gremito di gente e di curiosità.
- Meglio dei pirati e delle tigri – mi risponde lui accennando ad uno dei camerieri che serve bollicine nei flùte di cristallo.
Questo ci vede e si ferma di colpo.
La sua faccia conferma la sua colpa mentre la dama alle nostre spalle stramazza al suolo.
L’uomo fa per scappare.
Ci lancia addosso il vassoio con i bicchieri che si frantumano e il loro liquido schizza su pantaloni e calze di seta. In quel momento accade qualcosa d’incredibile: Martini sbuca dal nulla e con uno spintone spedisce il fuggitivo contro il muro. E’ una botta così forte che lascia l’uomo a terra, intontito.
Frughiamo nel taschino della sua giacca e troviamo la fialetta che conteneva il veleno.
Idiota ed assassino!
E’ quello che gli urla anche la gran dama ripresasi dal collasso, anche se non ricordo l’ordine dei complimenti. So solo che è una pessima attrice. Il richiamo della carne da una parte e l’avidità dell’altra hanno trasformato questi due scemi in assassini da quattro soldi.
Faccio un cenno all’Ispettore Martini e lo ringrazio.
Lui ricambia mandandomi a fanculo.
E pensare che trovavo queste serate di una noia mortale.
Smokey Salmon
Sockeye: intervista a Zampa & Capstan
Ossia: La storia di due butei persi tra il nulla di una città di provincia e l’evoluzione mondiale dell’hip-hop: da genere underground ad eccellenza mainstream.
Quando scrissi a Capstan chiedendo di organizzare un’intervista con lui e Zampa mi rispose che avrebbe chiesto a Zesh e mi avrebbe saputo dire a breve. Dopo qualche giorno di silenzio mi invia lo screenshot della risposta di Zampa, che recitava più o meno così:
“Vaccadì, lo spacchiamo di gotti il butel”
Non è andata molto diversamente.
Se vi dicessero di provare ad immaginare la casa di un rapper, molti di voi credo la immaginerebbero in questo modo. Provate quindi ad pensare alla mia reazione quando, varcata la porta di casa Zampini in una mite giornata di metà autunno, mi sono trovato in una stanza con delle immense finestre, inondate della limpida luce dell’aria tersa, che si affacciavano su un terrazzo da cui guardare a perdita d’occhio tutta Verona e i suoi campanili.
Posate, bottiglie e bicchieri risplendevano dei raggi solari e l’aria della stanza era densa del profumo del risotto col tastasal. Vengo accolto da Zampa e la sua ragazza, che notando il mio sguardo fisso sulla padella del riso provano a risvegliarmi: “È la prima volta che proviamo a farlo, speriamo che venga bene”, e iniziamo a stappare la prima bottiglia di Valpolicella, brindando con lo stomaco vuoto al nostro imminente pranzo.
Ma prima di procedere forse è meglio che vi introduca a cosa ha significato il rap, e quindi questo pranzo, per me.
Ho iniziato ad ascoltare il rap nel giugno del 2004 – parlo di rap italiano, “non capivo quelli americani” (cit. Astio) -, relativamente tardi, forse. All’epoca non potevo informarmi sui social, ascoltavo quello che mi passavano gli amici e che riuscivo a trovare su WinMX. Ascoltare il rap era stata la mia e la nostra forma di ribellione al costituito, alla musica piatta che passava su MTV (tranne le Spice Girls, le Spice Girls spaccano) e a tutta quella musica che possiamo etichettare come musica di “ribellione” che si sentiva alle manifestazioni ma che mi sembrava anch’essa imposta.
Ad ascoltare il rap eravamo pochi, trovare i pezzi era difficile e il senso di una genuina, antagonista relazione con una musica che sentivi come un qualcosa di veramente tua cresceva giorno dopo giorno. In qualche mese ho iniziato a scrivere dei pezzi con degli amici e, poi, a registrarli. Ci sentivamo parte di una cultura che non ci era stata donata a scatola chiusa, e gli amici “che-sapevano-suonare-uno-strumento” ci deridevano continuamente, ma per loro suonare voleva dire fare le cover dei Nirvana, per noi perdere le notti a raccontare la nostra vita invece che piangere. Ci sentivamo, in modo infantile e stupido, addirittura migliori.
Gli artisti che si conoscevano – i più famosi – si contavano tra le dita di una mano e, almeno all’inizio, oltre ai vari milanesi Lord Bean, Bassi Maestro, Jack The Smoker, Asher Kuno e Club Dogo e i romani Cor Veleno e Colle der Fomento, mi avevano passato Zampa. In quel periodo avevo Zampa nel walkman e pochi altri in Italia.
In questa nicchia che era l’hip-hop e che ci eravamo creati Zampa era stato quindi uno dei primi protagonisti. Col tempo, conoscendolo, è diventato più umano ai miei occhi, tanto da diventare amico, ma mentre leggete l’intervista pensate che sono entrato in una sala da pranzo piena d’amici che quindici anni fa avrei potuto descrivere come un Olimpo.
In grassetto le mie domande.
Parliamo di rap, il rap ora in Italia è in cima a tutte le classifiche: è diventato un fenomeno capace di assorbire le caratteristiche della cultura pop, nel bene e nel male. Anche le persone che un tempo non sapevano – o non volevano sapere – cosa fosse l’hip-hop sono più o meno costrette ad ascoltarlo, se non altro per i tormentoni che passano i radio. Prima però era diverso, cosa significava, per voi, fare a Verona un tipo di musica proveniente da una realtà completamente diversa?
“Intanto finiamo ‘sta bottiglia”, comincia Capstan, “poi, noi attorno ai quattordici anni, anche prima forse, abbiamo iniziato a capire che la vita a Verona sarebbe stata sempre uguale: che tutto quello che avevamo fatto nel nostro tempo libero sarebbe stato tutto quello che avremmo fatto negli anni futuri. Che sbatti vecio! Da lì abbiamo iniziato ad appassionarci a qualcosa che raccontasse storie diverse, storie concrete e senza fronzoli, come non faceva nessun altro tipo di musica.
Poi è venuto naturale iniziare a raccontare di noi, raccontare il disagio di crescere – comune a tutte le persone, credo – e farlo in un modo che oltre ad essere efficace sembrava esso stesso renderci parte di un mondo unico e antagonista”.
Non notavate anche voi i rapper silenziosi nei bus al ritorno da scuola guardare fuori dal finestrino con delle cuffie enormi? Non era depressione, nemmeno disagio, era il guardare all’orizzonte di una musica che si estendeva a perdita d’occhio. Era provare ad intravedere l’ “America” – inteso nel senso mitologico del termine insegnato dai e ai nostri nonni – nella propria quotidianità.
Fare il rapper, mi ricordano questi due, era già una presa di posizione e di stile. Il contenuto di quel che dicevi era già vincolato dalla forma con cui avevi scelto di dirlo: “qualunque fosse l’importanza musicale e sociopolitica della scelta di fare hip-hop è ovvio che fosse lì solo per essere colta dagli altri rapper.” (D.F.W.)
“Sì noi ci mettevamo le mani addosso con i fighetti, poi erano molti più di noi quindi abbiamo iniziato a fare gruppo, a fare la musica assieme. Era proprio visto male l’hip-hop, noi abbiamo preso il rap e raccontato le nostre storie e da questo è scaturita una cosa bellissima: anche quelli che odiavano a prescindere il rap capivano che in realtà stavamo raccontando la nostra – e la loro – realtà, e allora si interessavano. Ancora abbiamo amici che non sanno niente di hip-hop e vengono a spingerci a quasi tutti i concerti”.
Dopo gli inizi è scattato qualcosa che vi ha fatto pensare ‘questa può diventare la nostra vita, con questa roba possiamo svoltare’, o non vi siete mai illusi a sufficienza? Ora spuntano video rap ogni giorno in Italia, ogni ragazzino – e ce ne sono di bravissimi – è in grado di arrivare ad una fetta vastissima di pubblico. Voi come ve la vivevate questa cosa?
“Ora vedo i butei avere un approccio strategico e quasi “commerciale” con la musica. Riescono ad arrivare in poco tempo dove noi non ci saremmo nemmeno sognati. Non li biasimo, anzi, solo che con noi era diverso. Con noi nessuno ti aveva detto che saresti potuto diventare famoso, non esisteva proprio come cosa. Anzi, per un certo tipo di mondo hip-hop diventare famoso sembrava essere un problema, diventare dei venduti, parte del sistema.
Ma forse è giusto così, non dico che oggi facciano male. Io credo che se le strade del successo fossero state visibili come oggi le avremmo percorse in egual modo. Di certo però, quello che ci ha dato questa musica è stato altro, più nascosto e radicale. La musica per me è una cosa magica, io voglio vivere e crescere con lei, e spesso mi secca doverne fare una “performance” – intendo doverne essere performativi per farsi vedere –, con i butei mi sentivo parte di un mondo più grande fatto di parole e speranza.
Volevo scrivere, scrivere in ogni modo e registrare i miei pezzi, punto. Poi non ti sarebbe venuto nemmeno in mente di “fare il personaggio”, perché lo scopo di quello che facevi era stare bene con gli amici raccontando le vostre storie.
“Spiegati meglio”, chiedo a Zampa.
“La differenza tra ora e la nostra realtà è che allora se facevi il coglione ti sgamavano subito e ti escludevano dalla scena. C’era questa legge non scritta e potentissima dell’essere vero. Che ci sta come cosa ma non vedo perché un butel di Palù non possa fare un pezzo gangsta, che parla di droghe e odio razziale. Alla fine si tratta di creare qualcosa, fare arte. Certo, se poi ti immedesimi in quel personaggio e diventi finto come persona, questo è un altro discorso: è una cosa che è capitata non a poche persone effettivamente".
Per il resto, volevamo solo stare bene con qualcosa di fresh.
Questa frase finale l’ha aggiunta Capstan e se non avete mai conosciuto Capstan sappiate che è una di quelle persone che ha il grande pregio di poter essere riassunto in una definizione senza che per questo gli venga data un’etichetta approssimativa:
Capstan è quello che fa stare bene, e credo che si tolga il ruvido dentro con la musica.
Più o meno come il riso col tastasal che sto mangiando.
Ma, Zampa, ti faccio una macro domanda. Hai fatto vari album dal 2004, e sei cresciuto tu, hai 13 anni in più ora. Io amo trovare le costanti nelle variazioni. E la prima, immensa costante che vedo dal primo all’ultimo album è la foresta e i lupi. Tra Lupo Solitario a Il Richiamo Della Foresta cosa succede in mezzo?
“Si sente che sei sbronzo vecio, comunque, dopo Lupo Solitario ho fatto “Il Suono Per Resistere” e quell’album l’ho scritto in Inghilterra a Wolverhampton, nella periferia di Birmingham. Sono finito lì con il progetto Leonardo, Jack The Smoker mi ha dato un sacco di basi e sono fuggito al nord. A quelle canzoni sono molto legato, canzoni come Cade Giù o Un anno terribile…
Paradossalmente faccio più facilmente live canzoni di Lupo Solitario, queste sono molto più introspettive.
Dopo Il suono per Resistere viene Bisanzio, vero?” anche lui è sbronzo “La lunga e tumultuosa via per Bisanzio è un magnifico e stranissimo esperimento, se lo ascolti – se lo ascolto – ritrovo strati e strati di ansia per un periodo molto difficile.
Di certo, se uno è bravo e mi conosce, dentro agli album ritrova tutto quello che ho vissuto e che, forse, abbiamo vissuto assieme.”
E ora? Ora, come tutti noi, lavori e hai poco tempo per scrivere. Da quanto stai suonando in giro e dal mood dell'ultimo album non dai di una persona che abbia finito la sua carriera musicale, anzi. Come gestisci musica e vita?
“Di certo ora o hai sfondato o fai dell’altro. Il segreto rimane cercare incessantemente di stare bene, che è la cosa più semplice, naturale, banale ma difficile del mondo. Ora avere riscontro mi interessa relativamente.
Con Il richiamo della Foresta ho, abbiamo, suonato in tutta Italia, e la cosa veramente bella è vedere ragazzini di quindici anni ai miei concerti, di fianco ai miei compagni di Liceo che mi vogliono ancora bene e ormai sono dei padri. Questa è la cosa più importante. Sento la necessità di parlare alle persone e dire ai miei amici le cose che penso sia importanti dire”.
Parliamo di lupi e foreste, per favore.
“Vuoi lo scoop da Panorama? Lupo Solitario è una serie di libri-game che ho divorato da bambino, sono libri strutturati come giochi di ruolo dove decidevi cosa e venivi rimandato da una pagina all’altra a seconda delle scelte che facevi.
In generale, però, tutto parte dal romanzo di Jack London. Due libri fondamentali sono stati Zanna Bianca e Il Richiamo della Foresta, che è la storia di una cane che viene rapito e portato a fare combattimenti clandestini. Ad un certo punto scappa, va con un branco di lupi e lentamente, lì, riscopre l’istinto, l’attitudine alla vita selvaggia
Per me il richiamo è legato al rap, ovviamente, alla musica. E la foresta è il luogo da dove proviene questo richiamo, il luogo del tuo ambiente naturale, che forse, per me è il raccontare storie.”
Grazie.
È un richiamo, credo, che in ogni momento, nella quotidianità, ti ricorda che c’è qualcosa di più profondo e più viscerale al di sotto dei giorni che passano uguali, e questo richiamo è quello del raccontare storie che vadano in profondità nella linearità del tempo che passa.
È il richiamo della tua dimensione naturale, diversa da persona a persona. Per questo poi il disagio prima o dopo ci assale tutti, perché non è possibile e veritiero che tutti possiamo stare bene dove siamo capitati – dove le incombenze ci rapiscono in ogni momento -, lentamente sentiamo che la nostra natura è qualcos’altro, lentamente cresce dentro di noi la nostalgia per ogni nostra, singola, foresta.
P.S.: se cercate Zampa e Capstan li trovate a suonare in giro per l’Italia oppure, e vi consiglio l’esperienza, nelle peggiori osterie di Verona. Offritegli un gotto.
Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.
Bianco & Noir - Dell’Acqua Morta
Verona, gennaio 1882
Succede sempre così.
Mi sveglio nel cuore della notte in un bagno di sudore. La gamba comincia a pulsare così devo alzarmi e camminare. I muscoli allora si sciolgono e la mente cerca di liberarsi da quella nebbia di cui sono fatti i miei incubi. Ma il loro rumore mi resta dentro, suoni che rimbombano nella testa come quello delle palle dei cannoni, gli spari di moschetto, l’attacco all’arma bianca tra le urla e le bestemmie.
Le immagini si sovrappongono.
Sono i volti di quei poveri cristi mangia patate che ho mandato a far visita al diavolo. Visi stravolti dal terrore e dal dolore, la terra umida impregnata di sangue, gli stivali affondati nel fango, lo sferragliare delle baionette con le loro punte affilate che dilaniano le carni.
Mi prendo la testa tra le mani, la scuoto e ansimo alla ricerca di un sollievo che non arriverà mai.
La mia anima è dannata.
Mi vesto in fretta e scendo.
Girovago tra i sentieri e i giardini di Villa Giusti. C’è una bella luna questa notte in un cielo senza nuvole. La sua luce è conforto al mio passo malfermo che fatica sul sottile strato di ghiaccio che qui copre ogni cosa. Il freddo punge come aghi di spillo e le lacrime scendono senza chiedere il permesso. Corrono lungo le rughe profonde che solcano le mie guance.
Sono perfidi questi demoni.
Non mollano la presa nonostante i miei sforzi di cacciarli e di combatterli. Si saranno stufati del solito percorso penso, così esco dalla villa e cammino lungo le strade deserte della città. Le campane di Sant’Anastasia rintoccano quattro volte, ci sono solo io in giro. I miei passi rimbombano lungo i muri dei palazzi che mi osservano silenziosi.
Scendo per le viuzze che portano al canale.
Lo chiamano dell’Acqua Morta e non è solo perché in quel punto l’Adige scopre questo fratello minore che lo affianca per un breve tratto. Intorno si è costruito dappertutto: abitazioni fatiscenti che gli si affacciano sopra e al fianco, una tavolozza di facciate di ogni colore e gradazione, sovraesposti e mescolati tra loro come il tanfo di escrementi e acqua fetida che salgono al cielo sotto le sembianze di una nebbia leggera.
Due piccole barche galleggiano quiete seguendo la lieve risacca del fiume.
Albeggia, la luce trema e fatica a prendere il posto della notte. Poi però, il cielo si tinge di un rosa leggero.
Dal taschino della giacca tiro fuori una sigaretta e una liquirizia. Accendo l’una e poi ficco in bocca l’altra.
Più avanti, sul Ponte Navi, c’è un uomo seduto sul parapetto.
Mi avvicino e rimango in silenzio.
L’uomo è vestito di stracci e puzza di vino. Gli manca un braccio e fa dondolare le gambe sopra le acque del fiume.
Mi guarda ed è questione di un attimo: in fondo a quegli occhi trovo la disperazione. Gli allungo una sigaretta, lui la prende e sbuffa il primo tiro che si perde nell’aria gelida.
- Ho perso una gamba – gli dico in un sussurro.
- Maledetta guerra – mi risponde facendo ballonzolare il moncherino.
Non servono tante parole.
Siamo due disperati.
Fratelli d’ombre.
- Mia moglie se ne è andata questa notte – mi dice lui sbuffando il fumo dal naso. Un colpo di tosse lo scuote – Polmonite – conclude, scuotendo la testa.
- Perché sei qua? – domando.
- Perché ho perso la speranza.
Per due reduci menomati la vita dopo la guerra è un inferno. Si è guardati con compassione e i ricordi della violenza fanno impazzire.
Il monco mi osserva: i suoi occhi sono una supplica.
Le ho capite fin da subito le sue intenzioni ma a quest’uomo manca il coraggio.
La mia mano si appoggia sulla sua schiena.
Ci guardiamo mentre gettiamo i mozziconi giù di sotto.
Il suo cenno silenzioso sa di ringraziamento.
Una spinta leggera.
Poi continuo sulla mia strada.
Ho bisogno di bere ma è ancora presto, la città fatica a svegliarsi.
Percorro via Cappello, supero la casa di Giulietta e attendo fuori dal Cafè Noir. Le campane rintoccano nuovamente, scandiscono un tempo che per me è irrilevante. Sento una lacrima bagnarmi le labbra ma forse non ho mai smesso di piangere. Nonostante tutto però, questa notte, so di aver fatto la cosa giusta.
SmokeySalmon
Che cos'è la felicità?
Una domanda che si presenta ad ogni persona almeno una volta nella vita, e lo fa con insistente impellenza soprattutto nei momenti nei quali qualcosa va male: quando si rompe un'unghia, si fora il sacchetto dell'umido, o resta incastrata la cerniera in un lembo di tessuto; o magari ci si dimentica di togliere la moka
di caffé dal fuoco, ci si scorda di mangiare le uova prima della scadenza o,perché no, si viene colti in flagrante mentre ci si scaccola con cura certosina mentre siamo fermi al semaforo.
Questi frangenti, che spesso racchiudono i traumi che ci porteranno a iniziare una cura psicoanalitica, rappresentano anche quegli spunti unici dai quali ricavare pensieri e riflessioni circa la propria vita e la propria esistenza, la propria etica e i futuri bilanciamenti karmici. Compito primo dei poeti è cercare di spiegare queste sensazioni, queste spinte interiori post-traumatiche: Albano dice che questa fantomatica felicità non è altro che "un bicchiere di vino con un panino". Zygmunt Bauman afferma invece che "La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà." (La teoria svedese dell'amore - Documentario). Anche se ho citato due delle più grandi menti mai esistite, non prendiamoci per il culo: non ci si può accontentare del pane e del vino o delle difficoltà. Dove sta la parola con
la F.?
E Instagram?
E Il Grande Lebowski?
Se qualcuno è stato più sincero di Bauman e di Mr. Carrisi, questi sono i Fast Animals and Slow Kids. Per chi non lo sapesse, i FASK sono un gruppo nostrano, amanti della birra e delle chitarre distorte. A Febbraio di quest'anno è uscito il loro ultimo album: Forse non è la felicità. Ho intervistato Aimone Romizi, il frontman, per sapere cosa ne pensa lui della felicità.
Ascoltatevi 'sto podcast per scoprire cosa ne pensa e farvi anche un po' gli affaracci altrui.
Baci Belli.
Salmonello.
Sockeye - Intervista a Cibo
Non giocare con il cibo, disegnalo!
Gli antichi classificavano le varie arti in una scala di valori basata su quanto ognuna di esse fosse vincolata alla forza di gravità: dall’architettura, arte minore, alla musica, suprema arte fatta di suoni impalpabili nell’etere. In mezzo a questi antipodi variano pittura e scultura: l’equilibrio del legno e lo spray che cola a terra dal muro di un writer. Non avevo mai capito a fondo le implicazioni di questo concetto fino a quando, parlando di case con Cibo, non ho confrontato la sua grande taverna con le abitazioni che mi hanno ospitato nelle interviste precedenti, soprattutto con la piccola abitazione del maestro d’orchestra Andrea Battistoni.
“La realtà è che fare musica non ti occupa tutto lo spazio che serve a me.”
Tra tavoli, tele, bombolette, e strani strumenti, capisco che sarà una giornata illuminante. .
Di Cibo conosco quel che ho trovato sulla pagina Facebook, ho visto varie opere in giro per la città, ma non avevo idea che quelle fossero solo la punta di un iceberg le cui fondamenta vanno ricercate in vent’anni di dedizione, tantissimi progetti intrapresi e una continua ricerca di portare l’arte alla gente che non può permettersela, fuori dalle gallerie, per la strada.
In grassetto le mie domande.
“Non pensavo, Cibo, che questo per te fosse un lavoro…credevo che facessi altro nella vita. Hai sempre vissuto d’arte o è un progetto recente?”
“La mia educazione artistica mi ha portato fin da subito verso lavori “creativi”, ance ho sempre cercato di rimanere a lavorare nell’ambito della ristorazione: dalla cucina, alla sala, dal banco bar, al banco freschi al supermercato. Poi tutto si è fuso, ho tenuto dei blog di enogastromia che mi hanno portato a lavorare per riviste di cucina nazionali e a farmi conoscere direttamente i produttori andando presso le loro sedi.
I miei pezzi sono comparsi a Verona circa sei anni fa anche se è dal lontano 1997 che sono sui muri, io faccio parte della seconda generazione di writer, quella dopo gli audaci sperimentatori e prima della mercificazione. Cibo in realtà per me è solo un progetto tra i tanti, ma è forse quello meglio compreso.”
“Cosa vuol dire seconda generazione di writer? Ne esiste una terza?”
“Sono venute a mancare le condizioni per averne una terza con i dovuti valori propri della strada. Con gli arresti dell’inchiesta “Valpantena writers” si è perso il ricambio generazionale e questo gap ha portato la nuova generazione ad essere più “bomber” che artista. Perciò gli sbirri hanno fatto quasi danni maggiori, prendendo a caso i butei, anche perchè non sono stati i colpevoli a pagare. I rimasti si sono un po’ vendicati - e come dargli torto - la repressione crea terroristi artistici. Io fortunatamente ero in esilio! Ora sta tornando un po’ di scena e vedo gente che ci tiene, che ha slancio, e ciò mi fa ben sperare”
La nostra conversazione si interrompe con l’arrivo in tavola di un risotto dal gusto amarognolo ma buonissimo, alzo lo sguardo e vedo Cibo che mi osserva minaccioso, da vicino:
“Guarda che mi son punto le mani a raccogliere i bruscansi nei campi, ma sentirai che gusto!”
Quando non disegna, Cibo, potete trovarlo a far digging di erbe spontanee e zucche lasciate nei campi dai contadini.
“Stavamo parlando delle nuove generazioni di writer…”
“Io non sono nato e non sono mai stato un writer legato al mondo hip-hop, non ho mai capito la tega delle tag: per me un’opera dev’essere riconoscibile per tutti, perché dare un messaggio incomprensibile al lettore?”
“Nel mondo hip-hop credo derivi da quando le tag sui muri delimitavano quartieri controllati da questa o quella gang; o sfide tra writer a chi aveva più tag di altri e in posti più strani. È un sistema codificato di comunicazione urbana, che gioca sul fatto di essere estremamente visibile e estremamente criptato allo stesso tempo”.
Poi a Verona, non è famosa per formare nuovi artisti, non è un ambiente stimolante, anche perché sui muri vedo molte opere che sono una disperazione, non frutto di una pulsione, propria dell'arte, ma di mero guadagno o pigra ribellione. Non c'è sfida, non c'è ricerca stilistica e soprattutto non c'è un cazzo da dire.
La street art a verona è in ancora in fase embrionale e tocca a noi l'onere e l'onore di formarla, ma non stiamo andando nella direzione corretta, a mio dire. Non è una risposta al grigio, è una domanda colorata!
Le istituzioni non capiscono, e la burocrazia regna. Per dire: se un negoziante domani si sveglia e si sente mecenate, forse deve pagare tasse pubblicitarie per un’opera d'arte, già un ossimoro, e le deve pagare perché un omuncolo privato che lavora in esclusiva per il comune prende un obolo per ogni sanzione emessa... Allora, io capisco tutto, paghi il logo, ma il disegno no! Ovvio che un pasticcere vuole una pastina, e ovvio che lo fa per il bello del suo edificio, ma lo fa anche per il senso civico, per dare adito ad un artista, perché semplicemente gli va. Cioè non pretendo che sia incentivata, ma almeno compresa, quello si! Dobbiamo batterci tutti noi artisti per un mondo meno noioso, e privo da dogmi.
“Poi, come in tanti altri ambiti underground, entrare in questo tipo di mondo vuol dire accettare questo tipo di regole, no? Vuol dire far parte di un sistema con dei valori precisi, delle direzioni da seguire e dei rapporti che valgono ben più delle leggi dello stato.”
“Si la strada ha le sue regole e molto spesso il torto subito viene sanato anche in maniera creativa. Io non ho mai seguito la scena, ma ho riconosciuto le regole.
Il problema dei writers è che pur essendo dei grandi comunicatori hanno degli enormi problemi di comunicazione: non si capiscono, si perdono in discussioni infinite ed inutili per poi litigare.
Non comprendono il loro potere e la loro responsabilità civica, un'opera rimarrà in strada per anni se non decenni, nonostante sia effimera per natura, e nostra è la responsabilità di dare al panorama urbano una nuova veste. Non sarebbe la prima volta che cancello personalmente un mio disegno perché a mio avviso non convincente. Poi i giovani devono essere più audaci, sperimentare, anche combinar cagate se utili a capire, ma vedo che la ricerca stilistica, il sentirsi unico e riconoscibile, viene meno, eppure è la caratteristica principe di ogni artista.
E poi c’è l’ego che chiama. Ogni writer in fondo al suo cuore vuole che tutti sappiano chi è che gli si porti sconfinato rispetto, altrimenti perchè scrivere il proprio nome... il problema di tutti i furbi: non resistono alla tentazione di far sapere che sono furbi, ma questa è filosofia spiccia”
A questo punto ci avviciniamo alla battaglia più interessante di Cibo: la battaglia contro le scritte di Forza Nuova sui muri. Cosa significa scrivere frasi fasciste in giro per la città? Credo siano l’emblema di tutto quel che abbiamo detto fino ad ora riguardo alla mancanza di cultura: da una parte, scrivere DVX, TITO BOIA o disegnare una svastica vuol dire avviare un processo di abbruttimento estetico della propria città, dei luoghi pubblici e visibili. È un atto di vandalismo che, secondo punto, inneggia ad un sistema di pensiero che se attuato politicamente – in nome della Nazione, dello spirito estetico e dell’ordine – condannerebbe quel gesto stesso in modo più radicale di qualsiasi altro regime.
“Bhe sia chiaro, a me di politica non frega un cazzo, copro anche i CARLO VIVE e soprattutto i TI AMO, quelli sono i peggiori, slanci di “creatività” che rappresentano sentimenti morenti.
Battaglia? Scaramucce da bontemponi! Innanzi tutto odio lo sporco e il disordine, quelle scritte sono oggettivamente brutte. Inoltre sono fatte da persone che non hanno cultura, ne ho più io sul argomento. Esempio: chi ha scritto TITO BOIA, secondo voi chi lo ha scritto aveva chiara la situazione dei Balcani ai tempi di Tito? Sono dei poveretti con l'hobby per il nazionalsocialismo, quello tenero, quello delle frasi fatte da circolo combattenti e del “crediamo in qualcosa che altrimenti devo parlare dei compiti di scuola”.
Poi c'è da dire che sono parte di una performance artistica molto divertente ed utile. Se sapessero che con il loro rovinarmi i murales mi hanno donato per l'indignazione più di un terzo dei followers e che è solo grazie a loro che mi chiamano a sistemare altrettante scritte, molto probabilmente non avrebbero mai proseguito una guerra impari. Senza contare il fatto che per loro è controproducente, rovini un parco giochi per i bambini?!... è cattiva pubblicità per il loro movimento sociale. Però se avessero risposto sul muro in maniera adeguata, sarebbe stato anche interessante e la loro causa poteva sembrare anche meritevole di rispetto, ma così son strilli da cortile.”
“Loro hanno scritto TITO BOIA e tu hai fatto un wurstel. Questa frase è poesia”
“La vera poesia è che sono tornati a riscriverlo, ed io ho aggiunto la salsa sulla scritta... te l'ho detto, per me è solo un assist, e sappi solo che non è la prima e non sarà l'ultima, e ti dico solo che è sempre finita con mie grasse risate. A livello mediatico perderanno sempre con noi writers, abbiamo creatività, mezzi e determinazione, loro hanno solo il branco e una bomboletta da ferramenta.
Comunque non c'è odio, ma compassione, con il nuovo anno ho resettato tutto e per me è pace.
- non sono cattiva, è che mi disegnano così (cit.) -”.
Ricapitolando: quelli di Forza Nuova ce l’hanno con i writer, di fondo, perché i writer sono promotori di libero pensiero, e manifestano quest’odio imbrattando i muri, cioè trasformandosi in writer della peggior specie.
Ciò che mi lascia tranquillo è che Cibo esiste, ha vinto, e vincerà sempre contro tutto questo.
“Ma quanto tempo ti occupa disegnare cibo, Cibo?”
“Beh è comunque il mio lavoro. A parte le cose che faccio gratis, in giro, ho collaborato con vari enti privati. L’importante è che quello che ti senti di rappresentare sia arte e che racconti una storia, non semplice decorazione, l’importante è che quest’arte ti porti a farti delle domande, non che abbellisca in modo sterile il luogo dove vivi.”
A questo punto, in misura molto maggiore e con un grado d’intensità ben più elevato, scopro che Cibo attua la mia stessa strategia, come pagamento dei suoi pezzi: come me, che vado a pranzo dalle persone che intervisto, Cibo si fa pagare in alimenti. E mai, mai come in quel momento davanti a quel piatto di riso con i bruscansi, ho trovato nel mondo reale una così forte incarnazione di una frase di “La Collina” di De André da farmi sorridere senza che i miei ospiti capissero fino in fondo perché.
“Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore, tu che lo vendi, che cosa ti compri di migliore?”
Cibo disegna cibo e si fa pagare (in parte) in cibo, perché tanto, con i soldi, null’altro gli interesserebbe così tanto quanto mangiare bene.
“Pensa se mi chiamassi Braghette avrei un armadio pieno di solo pantaloni! [LOL ndr]. La cosa che mi interessa di più al mondo è mangiare bene. Ho anche rifiutato dei lavori perché il cibo che mi offrivano mi faceva schifo, o perché la filosofia aziendale non era conforme a quello che vorrei io da una azienda agricola, o da un ristorante, ma per fortuna a Verona di solito mi va bene, perché Verona è rurale e il territorio è una risorsa.
“Fammi fare della filosofia, per favore.”
“Eccolo…”
“Ahah, dai. L’arte contemporanea si è fondata sul togliere agli oggetti comuni il loro grado di usabilità oggettuale per renderli immagine, per innalzarli alla loro forma più pura in un museo, senza nient’altro attorno. Dal water di Duchamp in poi…l’opera non è più rappresentazione della realtà ma un tentativo di mostrare la realtà nella sua forma assoluta. Tu mi metti in crisi con le tue opere, perché anche tu astrai dalla realtà ma il luogo dove disegni l’oggetto astratto è il luogo stesso dove l’oggetto esiste: penso agli asparagi. Non porti gli oggetti in un museo ma è come se con le tue opere marchiassi a fuoco sul muro una realtà nascosta perché troppo visibile, troppo comune, troppo abitudinaria.”
“Sì il bello della street art è che ha senso solo in quel luogo e in quel momento preciso, non la puoi strappare dalla sua realtà e portarla in un museo. Non ha senso fare un murales dell’11 settembre a Belfiore, oggi. Il Cibo sta lì perché è lì che deve stare. E deve tornare a farci vedere qualcosa a cui siamo abituati, deve farci fare delle domande. Domande su un problema del cibo che deve andare oltre all’Expo e oltre a Farinetti… E l’altro lato bello è che le persone sono costrette a vedere i miei pezzi, in un certo senso faccio una violenza visiva e gli impongo un pensiero o un sorriso.”
“Certo, e soprattutto, come hai detto all’antipasto – credo – hai una grossa responsabilità: la gente che va nelle gallerie d’arte è educata e compie un gesto volontario, mentre tu devi arrivare ad ogni passante, anche alla signora Maria che va a prendere il pane la mattina.
Vorresti lavorare in una galleria d’arte?”
“Mi darebbe molti stimoli, certo, ma probabilmente lo farei solo per i soldi. Sai con i soldi che mi darebbero là cosa potrei fare? Alla fin fine io voglio guadagnare per mangiar bene e per poter comprarmi nuova attrezzatura con la quale fare opere gratis: come sto facendo negli asili (mi faccio pagare mangiando con i bambini in seggioline minuscole) e in una cooperativa sociale per i malati di mente. Se non porti l’arte a queste persone a cosa serve? Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, rimediamo, no? ”
“Ma è tutto illegale, quel che vediamo in giro? Non rischi nulla?”
“Io vado nei luoghi vestito di arancione in pieno giorno, ed inizio a dare una mano di bianco. A quel punto i vecchiotti – perché ho coperto le tag o le svastiche sottostanti – mi dicono: “Brao giovane!”, pensando che io sia del comune, ma già cancellandogli le scritte gli stai simpatico. Poi inizio lentamente a disegnare e, di solito, ho trovato gente felicemente incuriosita.
- Eh salve! Ghe piase el formaio? Belo belo giovane, almanco che lo veda visto che non posso maiarlo! –
Evito di dar fastidio comunque, a meno che il posto non si a ghiotto. Vado in posti abbandonati o rovinati, a volte mi informo sulla proprietà dell'immobile, proprietari sciatti lasceranno in rovina lo stabile e il mio disegno forse sopravvivrà!
“E non hai paura che succeda qualcosa di questo tipo?”
“Bah, arrestato è una parola grossa. Non faccio niente di male…anche se potrei giocarmela bene in termini di pubblicità. In carcere però se la dovrebbero metter via eh, disegno anche col sangue: “non sono io che son chiuso dentro siete voi che siete chiusi fuori”. In prigione avrei una stanza con 5 superfici…non so se gli convenga!”
Di solito la gente che si merita l’arte non può permettersela, mi ha detto Cibo. Scoprendo come lavora e il progetto che sta portando avanti mi ha riempito la testa e il cuore di speranza. E io, che il cibo lo amo, che odio il fascismo e l’elitarismo, ho ritrovato in questo artista un tentativo di fare qualcosa di veramente concreto per le persone e per l’arte. Con lo stomaco pieno dell’amaro dei bruscansi e della grappa – sempre ai bruscansi – torno verso casa trattenendo in me una nuova definizione della parola americana “real” – nel senso di autentico - e della parola “giusto”.
Grazie.
Risotto coi Bruscansi, il germoglio primaverile del pungitopo:
Scritta da Cibo:
"Amaramente racconto tra le mille spine della Val Galina, cotto e ricoverato in freezer assieme alla sua acqua di cottura utilizzata poi per il brodo. Un Risotto come vostra madre comanda:
soffriggi lo scalogno, tosta il riso, aggiungi i bruscansi, sfuma con vino bianco, cucina il riso con la giusta quantità di brodo, manteca con burro, "formaggia", controlla il sale e impiatta. Per Il digestivo, i medesimi bruscansi messi a dimora nella grappa, accompagnano il caffè e il dolce. Per concludere la giornata in maniera coerente, Murales a tema asparagi, i "parenti da aia" dei bruscansi. Inutile dire che tutti i prodotti arrivano da luoghi che posso osservare con un binocolo, tranne il burro che amo quello chiarificato tedesco da allevamenti sostenibili il cui latte è munto solo per fare burro."
Sockeye – interviste al sugo controcorrente. Una volta al mese pranzo con artisti e salmoni vari di Verona, chiacchiero, mi faccio grandi scorpacciate e poi vi racconto la loro vita, la loro quotidianità e la loro cucina.
Pesce Fresco per Tocatì 2015: Salmon Magazine Incontra Reverse
Mood makers! Ci siamo ormai abituati a vedere il tocco di Reverse in giro per Verona. Avete presente cosa hanno fatto la scorsa edizione? Beh quest'anno si raddoppia!
Pesce Fresco per Tocatì 2015: Salmon Magazine Incontra Reverse from SalmonMagazine on Vimeo.
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